128_FUGA DA ALCATRAZ (Escape from Alcatraz). Stati Uniti, 1979; Regia di Don Siegel.
Don Siegel e Clint Eastwood tornano a lavorare
insieme, per la quinta volta e dopo otto anni da quel Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! che aveva visto per la
prima volta sugli schermi le gesta di Dirty Harry, il durissimo poliziotto.
Stavolta però il vecchio Don affibbia a Clint un ruolo che sta dall’altra
parte della barricata, ovvero quello di un incallito criminale, un detenuto: il
famoso Frank Morris, l’uomo che evase da Alcatraz. E il film si intitola, appunto,
Fuga da Alcatraz, ed è una
ricostruzione cinematografica, tutto sommato abbastanza fedele, della mitica
evasione da quello che, fino allora, sembrava un carcere da cui fosse
impossibile scappare. La mano sapiente del regista, che gira con geometrico rigore,
tiene lo spettatore sulla corda, dando una sublime prova di maestria nella
tecnica della suspense. Ma la cosa che salta all’occhio è l’apparente assenza
di un quadro morale, enfatizzata dal
fatto che la regia preveda, e soprattutto induca nello spettatore, una simpatia
totalmente schierata a favore dei detenuti a discapito degli agenti di
custodia. Il film è concentrato su pochi elementi: gli uomini rinchiusi devono
trovare il modo di scappare; eppure, pur con questi pochi elementi, Siegel
riesce a trarne un analisi niente affatto banale della società americana. Il
direttore del carcere (Patrick McGoohan) quando riceve Morris spiega la
funzione sociale di Alcatraz: “se
disobbedisci alle regole della società, ti mandano in prigione. Se disobbedisci
alle regole della prigione, ti mandano da noi. […] Noi non creiamo buoni
cittadini, però creiamo buoni detenuti.” In sostanza si evidenzia una
lacuna della società americana: l’incapacità di gestire il problema sociale di
chi esce dai confini legali, perlomeno di gestirlo in modo completo.
Se viene permesso un abomino
come Alcatraz, significa, non solo che la società non è in grado di correggere
tutti i propri membri che sbagliano, ma che lo mette già in conto: questa differenza tra
chi sbaglia una prima volta e chi, tra questi, continua a sbagliare e deve
quindi essere recuperato, diventa una percentuale già messa in preventivo e
gestita tramite il carcere di massima sicurezza nella Baia di San Francisco. Ma questa è un’implicita ammissione di
ingiustizia della società, perché porsi sullo stesso piano di chi ha sbagliato
applicando la semplice equazione hai
sbagliato, ora paghi, bilancia, verso il basso, il confronto. E, a questo
punto, stare dalla parte sbagliata
non corrisponde necessariamente più ad essere il cattivo della storia.
Una società che non si pone come obiettivo di
essere giusta, non può nemmeno pretendere di esserlo; questo in assoluto, e
meno che mai in un film che celebra la possibilità di centrare i propri
obiettivi (la fuga dalla prigione), anche quando sembrano impossibili da
perseguire. Siegel inoltre rifugge, almeno in parte, quelle tendenze
contemporanee che giustificano la devianza dai comportamenti leciti con il
disagio sociale dell’individuo. In uno dei dialoghi più riusciti, alla domanda:
“Ma che razza di infanzia hai avuto?” Morris
risponde seccamente “Breve.”
Anche in questo caso, pur nel minimalismo dell’opera, la
disamina è centrata: non si nega che ci sia un disagio sociale nell’individuo
(avere un’infanzia breve significa essere chiamato in fretta alla vita adulta,
senza adeguato percorso di crescita), ma non è detto che sia questo ad essere
sotto accusa, anche perché l’individuo in questione dimostra, nei fatti, di
avere un codice morale (la lealtà coi compagni di fuga, l’umanità verso Doc,
Tornasole, English), forgiato, forse, proprio dalla durezza della propria
esistenza. In ogni caso, se anche fosse la condizione disagiata di Morris la
causa del suo essere un delinquente, la laconica risposta tronca questo tipo di
approfondimento.
Nonostante la durissima critica sociale che Siegel mette in
scena in un film ambientato in una prigione, quasi senza donne e completamente
senza bambini (che al cinema simboleggiano il futuro), con il protagonista che
non avendo passato (non si ricorda quando è nato) forse quel futuro nemmeno ce
l’ha, seppur con tutto questo, Fuga da
Alcatraz è naturalmente un film positivo: Morris e i fratelli Anglin ce l’hanno
fatta. A superare le acque della baia?
Quello non si sa, ma ad inseguire il proprio sogno
sicuramente.
Nessun commento:
Posta un commento