114_U-BOOT 96 (Das Boot). Germania Occidentale 1991; Regia di Wolfgang Petersen.
Del film di guerra U-Boot 96 ne esistono due versioni: per quanto anche quella
originale del 1981 sia quasi unanimemente già considerata la miglior
espressione del sottogenere dei lungometraggi ambientati nei sommergibili, la
più recente directors’ cut del 1997 ha perlomeno un
vantaggio. I suoi 209 minuti sono un’esperienza, certamente non paragonabile
alle vicissitudini dell’equipaggio del sottomarino in questione, ma sicuramente
ad essa più simile rispetto ai soli 150
della prima versione. Il regista Wolfgang Petersen, infatti, non si lascia
intenerire e confeziona un film ad altissimo tasso di ansia, angoscia,
claustrofobia, che mette a dura prova la
resistenza dello spettatore, davvero incatenato dalla tensione alla poltrona e costretto
a subire una prova di resistenza durissima. Intendiamoci, queste affermazioni sono
provocatoriamente scherzose, e non devono spaventare
o essere equivocate: il film del regista tedesco è un capolavoro, e tra i suoi
meriti c’è anche l’enorme carico emotivo con cui travolge lo spettatore. La maggioranza dei punti a favore dell’opera sono legati all’ambientazione claustrofobica, che inserisce
tensione già come elemento di base nella vicenda: e sotto questo aspetto, U-Boot 96 non è secondo a nessun altro
film. E’ poi curioso come sia proprio un film tedesco, espressione di quella
nazione che durante la Seconda Guerra Mondiale fece l’uso più smodato della
retorica bellica, ad esserne maggiormente privo, anche in un particolare tipo
di pellicole, quali sono i film coi sommergibili, che, per loro natura, tendono
sempre a veicolarne almeno un poco.
Infatti, una caratteristica delle operazioni di guerra
a bordo di un sottomarino è quella della mancanza di contatto, sostanzialmente
nemmeno visivo, con il nemico, e questo rende le pellicole di questo tipo
sempre molto coinvolgenti, con un’azione simile, se vogliamo, alla stessa retorica
di guerra. Ma se c’è un aspetto in cui forse la pellicola di Petersen si rivela
unica, è proprio nell’assenza di retorica, nello sguardo lucido sulla follia
della guerra, rivendicando, e in questo si tratta davvero di un testo
imprescindibile, un punto di vista tedesco che sia obiettivo e non ovviamente ottusamente
allineato coi dettami nazisti, ma nemmeno con la palese faziosità di troppe
produzioni anglo-americane, che in tema di film bellici non sono mai state
troppo attendibili in questo senso. In ogni caso il regista non edulcora il suo
racconto, che ha passaggi spietati: come il non
salvataggio, da parte dell’equipaggio protagonista del film, dei superstiti
della nave cisterna alleata affondata in precedenza dagli stessi tedeschi.
L’ordine è del comandante che, sul ponte del sottomarino,
comanda di arretrare, lasciando in pieno oceano i pochi disperati superstiti
nemici in balia delle onde: il muto silenzio mortificato degli ufficiali, che
non hanno nemmeno il coraggio di guardare il proprio comandante che ha dato un
ordine tanto spietato, (e contrario alle comuni convenzioni marine) ci ricorda
che anche i tedeschi della Seconda Guerra
Mondiale erano uomini, con senso di giustizia, di pietà, di solidarietà,
come tutti gli esseri umani.
Ma anche lo stesso comandante (di cui non viene mai
fatto il nome) è consapevole della durezza della propria scelta, e non manca di
rimarcarla sul giornale di bordo: scrivendo
apertamente ‘non soccorso i superstiti’,
sembra quasi confessare un atto ignobile, pur nella ferma convinzione che sia
uno dei tanti effetti collaterali che la guerra impone, disumanizzando gli
uomini una volta messi alle strette e sotto una pressione enorme. Una pressione
che, per i marinai di un sottomarino, compressi a vivere e combattere in uno
spazio tanto angusto, è molto superiore anche di quella delle profondità marine
dove lo scafo finisce in più di un’occasione, in particolar modo quando si
arena sul fondo dello stretto di
Gibilterra.
Ma nonostante le riuscitissime scene di battaglia,
con il sottomarino martellato dalle bombe di profondità, compresso dall’enorme
pressione marina, in balia dei tantissimi guasti, delle falle che imbarcano
acqua, dove l’equipaggio può dar sfoggio della proverbiale efficienza e tempra
teutonica (sebbene trovino spazio anche moti di disperazione), quello che
rimane maggiormente nella mente dello spettatore è forse una canzone. It’s a
long way to Tipperary, è una canzoncina, ma inglese, già simbolo della Prima Guerra Mondiale; anche in quella
occasione, in quel conflitto, non è certo necessario ricordarlo, i figli di albione erano nemici dei tedeschi, il
che rende quanto meno inaspettato che i marinai dell'U-Boot 96 la intonino a squarcia gola.
In uno degli ambiti più spregevoli della guerra, quella
combattuta dai sottomarini, che si aggiravano famelici e infingardi, nascosti
dalle profondità marine e dal buio notturno, evitando ogni contatto col nemico,
spietati a tal punto da non soccorrere i naufraghi (anche per questioni
tecniche, avendo lo spazio davvero limitato), pronti a lanciarsi come pirati
sulle prede affondandole senza nessuno scrupolo, ecco quindi che si apre uno
spiraglio. Sono le note che ci conducono a Tipperary, in Irlanda, ad incontrare la ragazza più dolce, e con noi ci
sono anche i tedeschi dell’U Boot 96,
gente come noi, che vuole solo tornare a casa. Già, quella casa che i tre
quarti dei marinai dei sottomarini tedeschi, almeno stando alla didascalia
iniziale del film, non avrebbero visto mai più. Ma c’era anche un’altra “lontananza da casa”, (intesa come
propria umanità), per i sodati tedeschi, per troppi anni dipinti tutti quanti indistintamente
come biechi servitori del III Reich, E’
stata una strada lunga, ragazzi, ma finalmente vi è stata fatta giustizia.
E’ una lunga, lunga
strada per Tipperary, ma il nostro cuore è proprio la’.
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