1672_MOTHER OF APOSTLES Ucraina, 2020. Regia di Zaza Buadze
Dopo l’interessante Call Sign Banderas, il regista georgiano Zaza Buadze continua a raccontare la guerra russo-ucraina con un’altra opera, nel complesso più che interessante. In effetti Mother of Apostles ha avuto moltissimi riconoscimenti nei vari festival sparsi per il mondo, il sito IMDb riporta 65 vittorie e 17 candidature, tuttavia alcune recensioni manifestano qualche perplessità sul film. Il che non è certo un fatto insolito, è evidente ma, per capirci, quello di Buadze non è un lungometraggio ermetico o rarefatto, di quelli che piacciono ai critici dei festival o dei cineforum e annoiano lo spettatore che vuole solo divertirsi un po’. Mother of Apostles è un film drammatico con ambientazione bellica a cui non mancano passaggi adrenalinici e, con queste premesse unite al «mestiere» di Buadze, la «pancia» del pubblico dovrebbe essere soddisfatta. Invece probabilmente è proprio lì, nel gradimento popolare, che il film del regista georgiano fatica un po’: la vena lirica che contraddistingue la protagonista, Sofia (un’intensa Natalka Polovynka) –la madre degli Apostoli del titolo– e di conseguenza tutta quanta l’opera, ha fatto un po’ storcere la bocca ad alcuni. Anastasia Sokhach sul sito ITC.ua sintetizza così le sue perplessità: “Il problema principale e molto evidente del dramma Mother of Apostles è il desiderio del regista di dare santità al suo film. Se all’inizio può essere percepito come un gesto di rispetto per l’immagine della madre in raccoglimento, dopo le due ore di visione del film, si ha l’impressione che ci troviamo di fronte a un tentativo molto reale di filmare l’icona”. Si tratta di un’osservazione in parte condivisibile che sottolinea però un elemento intrigante, ovvero come il ruolo della religiosità –in un Paese che per anni ha dovuto professare l’ateismo di Stato e si stava inserendo nel contesto mondiale di secolarizzazione sociale– sia d’aiuto a fronte dell’immane tragedia bellica. Sul sito Zaxid.net si mettono in rilievo altri aspetti poco funzionali del film: “Le incongruenze della trama sono fastidiose e mettono fuori combattimento l’atmosfera creata dalla recitazione. Sembra anche che il regista non riesca a decidere il «genere». Sembra vergognarsi di fare un film d’azione. (…) E il dramma interpretato dai suoi attori non riesce a venir fuori, costringendo i suoi attori a compiere improvvisamente alcune azioni illogiche e immotivate”. Queste critiche, non particolarmente lusinghiere, sono solo parziali e non riguardano l’opera complessiva; la scelta di riportarle come spunto di partenza, per l’analisi del film, può suscitare qualche legittima perplessità.
Perché cominciare dai commenti negativi per una recensione su un film che si ritiene, nel suo complesso, positivo? Per la natura del lungometraggio di Buadze, che si pone alti obiettivi, in parte li centra ma probabilmente non coglie il bottino pieno; in questi casi, il rischio è che la delusione metta in ombra quanto di buono c’è nell’opera. Per questo è, forse, più indicato cominciare dai difetti del lavoro, in modo da poter poi affrontare gli aspetti positivi con una consapevolezza già adeguatamente sintonizzata. Venendo agli appunti segnalati: il problema delle incongruenze è legato a quanto il racconto riesca a trascinare lo spettatore; non è semplice orchestrare una cosiddetta «sceneggiatura di ferro», spesso neppure il cinema americano, maestro di questa caratteristica, è rigoroso in senso assoluto. In effetti il recensore mette in rilievo come gli errori narrativi guastino il clima in precedenza creato; si tratta, quindi, di un’osservazione soggettiva, in quanto nel caso in cui il racconto riesca a rapire completamente lo spettatore il problema diventa, di conseguenza, meno rilevante. Buadze è un ottimo narratore e questa caratteristica, che contraddistingue Mother of Apostles, mitiga gli effetti delle sviste della sceneggiatura; tra l’altro i colpi di scena, soprattutto nella fase cruciale del racconto, sono più d’uno, a testimonianza del ritmo della sceneggiatura. Probabilmente più centrata la seconda osservazione del commento di Zaxid.net, perché Mother of Apostles, in effetti, rimane un po’ troppo sospeso tra i «generi», tra l’essere un film drammatico o bellico, ma questo lascia uno spazio alla componente mistica –evidenziata dalla recensione citata in precedenza, quella di ITC.ua– che, piaccia o non piaccia, è l’elemento distintivo dell’opera di Buadze. In questo senso sono da intendersi la professione della protagonista, una ricercatrice ed interprete di antica musica tradizionale ucraina, e le esecuzioni di questo genere di brani da parte della stessa Sofia. Il regista georgiano conosce i segreti del cinema mainstream e questi non sono dettagli marginali ma sottolineano il momento cruciale del racconto. Ma, a questo punto, urge dare qualche informazione sulla trama che, in un film di forte spinta narrativa, ha un ruolo preminente. La vicenda è ispirata da quanto è accaduto il 14 luglio 2014 nel Donbas: un aereo con aiuti umanitari è stato abbattuto dalle milizie separatiste. Il pilota è il figlio di Sofia, la quale non accetta le vaghe informazioni ricevute e parte alla sua ricerca: un ruolo che, come detto, Natalka Polovynka conosce bene avendolo interpretato già in Unavailable e Tera di Nikon Romanchenko e, nel quale, profonde grande umanità. La donna arriva nel Donbas in autobus e durante il viaggio fa conoscenza con Fedir Melnyk (un Bogdan Benyuk di grande spessore) che l’aiuta nella ricerca e le offre ricovero. Le coincidenze del soggetto, che sono utili agli snodi della trama, sono in linea con il classico racconto americano, omaggiato in modo palese dal libro che sta leggendo Fedir sul pullman. Si tratta del primo volume di una serie dedicata a James Fenimore Cooper contenente il leggendario L’ultimo dei Mohicani: ci sono altre citazioni ai pellerossa, nei dialoghi del film, e per il cinema di Zaza Buadze si è già visto il personaggio di Call Sign Banderas, Indeyets, interpretato da Oleg Oneshchak, che ne era un evidente omaggio. Il rimando al western, come «genere», è quindi un’urgenza del regista georgiano ma è un’intuizione talmente appropriata che si può estendere a tutta quanta la crisi russo-ucraina: quella contro la Russia è una guerra che segna l’epica dell’Ucraina e che sta forgiando –purtroppo come sempre avviene in questi casi– col ferro e col sangue, un’identità nazionale assai più forte e autonoma dalle influenze di Mosca.
Nella concitata ricerca del figlio, Sofia, con l’aiuto di Fedir e di Semen (Sergey Derevyanko), un infiltrato di Kyiv tra i secessionisti, trova e riesce a liberare un membro dell’equipaggio sopravvissuto, che viene poi consegnato agli agenti ucraini. Ma la ricerca continua e la donna arriva nei pressi del luogo dell’impatto dell’aereo: qui vale la pena sottolineare lo sforzo produttivo degli autori del film che, per allestire questo scenario, hanno realizzato il più grande «oggetto cinematografico» in scala reale della storia del cinema ucraino, almeno secondo il sito 5.ua. Siamo quindi al dunque: Sofia arriva alla casa di Sonya (Svetlana Osipenko), una madre come lei che sta piangendo il figlio, un miliziano rimasto ucciso dai manifestanti di Euromaidan. Le donne sono simili, hanno anche un nome quasi identico e, in effetti, sono una lo specchio dell’altra, stanno su opposte barricate ma sono unite dal dolore materno. In realtà Sofia culla la speranza di trovare il figlio vivo ma, l’arrivo di Illya (Serhii Medin), marito di Sonya, toglie ogni illusorio dubbio alla protagonista: l’uomo ha seppellito personalmente i corpi dei due piloti. È un colpo tremendo per Sofia, che non ha nemmeno il tempo di riprendersi perché nella sperduta casa piombano i cattivi del film, rivali tra loro nella caccia ai sopravvissuti dell’aereo: «Coyote» (Aleksandr Pozharskiy), un losco secessionista –il cui ambiguo soprannome è significativo oltre ad essere un altro rimando al western, «genere» evidentemente caro al regista– e lo spietato mercenario russo Mahin (Stanislav Stokin). Secondo alcuni critici la caratterizzazione dei filorussi è troppo faziosa: ad esempio la già citata Anastasia Sokhach del sito UTC.ua sostiene che “i personaggi del Donbas sono mostrati in modo unilaterale e stereotipato”, il che è vero solo in parte, basti citare Sonya e suo marito Illya. C’è, in effetti, un contesto generale piuttosto duro ma è anche vero che ci si trovi in zona di guerra e, comunque, in un’area non particolarmente emancipata. La giornalista interpreta in chiave razzista o quantomeno discriminatoria una ricostruzione che Buadze opera, però, su basi più che altro narrativo-significative, come si può intuire dalle sue stesse parole: “La donna si ritrova improvvisamente in un mondo completamente estraneo e aggressivo, dove tutto è pieno di ostilità, odio, incomprensione e riluttanza a comprendere gli altri. In questo inferno, non cerca solo suo figlio, ma ha nel cuore un grande amore e un carattere misericordioso, cambia tutti quelli che incontra sulla sua strada. E, cosa più importante, si trasforma: trova un potere veramente sacro, combatte una guerra insensata e, nei suoi occhi, la disperazione, l’insicurezza e la paura rinascono nell’eterno spirito madre della terra, che riporta a casa i figli, vivi o morti”. Dichiarazioni a parte, anche stavolta, come in Call Sign Banderas, il regista Buadze lavora in modo dettagliato soprattutto sui «cattivi» della sua storia: per Mahin, poco da dire, è un uomo malvagio a tutto tondo, e si veda la naturalezza con cui elimina a sangue freddo Sonya e Illya per comprenderne il grado di crudeltà.
È l’unico personaggio di rilievo russo: qui, sì, ci potrebbe stare il discorso della giornalista citato poc’anzi, se non fosse che la situazione geopolitica complessiva sembri poter giustificare ampiamente tale scelta narrativa. In ogni caso, nelle file dei cattivi c’è anche Kolia (Yuri Kulinich), miliziano luogotenente di Coyote, separatista dal cuore tenero che è un ulteriore elemento che sconfessa l’ipotesi di eventuale partigianeria di Mother of Apostles. In ogni caso, il personaggio chiave del film è, come prevedibile, Coyote. La sua entrata in scena, nel racconto, lo connota subito negativamente: è il classico stereotipo del separatista bellicoso e senza scrupoli. Poi ricompare, nella casa vicina al luogo dell’impatto dell’aereo, con un colpo di scena: è il fratello di Sonya e riconosce subito Sofia nella donna che, travestita da infermiera, aveva fatto evadere un prigioniero. La situazione, come già accennato, precipita, e Mahin, sempre più in contrasto con Coyote per questioni di leadership, uccide Sonya e Illya, lasciando il rivale a mettere sotto terra i parenti. Durante la sepoltura, Sofia, rimasta in disparte nella fase calda del passaggio narrativo, accompagna la scena con un canto funebre, proseguendo anche quando Coyote le si avvicina faccia a faccia. Riuscirà il canto della Madre degli Apostoli a toccare il cuore di un uomo cattivo quanto Coyote? Da questo punto comincia il momento migliore del film e, in questo particolare narrativo –l’ambiguità e le difficoltà degli sviluppi dei personaggi– Buadze è addirittura strepitoso. La logica del racconto renderebbe plausibile una conversione di Coyote che, con tutti quei lutti personali, sorella, cognato, nipote, ha appena espiato le proprie colpe. In effetti l’aitante miliziano non si vendica sulla donna, al cui arrivo sulla scena potrebbe imputare parte dei suoi guai, ma utilizza invece Sofia come sorta di Cavallo di Troia, riuscendo ad ingannare Mahin e ad ucciderlo: qual è il significato di ciò? Eliminando l’ingerenza russa si può trovare armonia tra ucraini dell’est e dell’ovest? Il dubbio rimane, finché Coyote si siede sulla poltrona di Mahin, chiarendo che il suo intento era unicamente assumere il ruolo di comandante della regione. Sofia viene fatta rinchiudere e, sebbene ricompaia sulla scena Semen, l’infiltrato di Kyiv, è il «secessionista buono» Kolia a dare una sferzata decisiva alla trama, liberando la donna e stordendo brutalmente Coyote. Il secessionista cattivo esce quindi di scena così, in modo totalmente negativo? Sofia, intanto, ha raggiunto il luogo della tragedia e trova, finalmente, suo figlio, o meglio ne trova la tomba, scavata da Illya. Terminato il momento lirico, siamo con Semen e Kolia che arrivano al vicino insediamento separatista e l’accoglienza che li attende non è delle migliori: evidentemente le notizie sul loro tradimento sono circolate. Per i due militari la situazione è più che drammatica e solo un miracolo potrebbe salvarli, ad esempio l’arrivo di Coyote. In effetti il truce separatista, pur se malconcio, arriva in loro soccorso e fa saltare il banco, ma al termine dell’eccellente scena di pura azione adrenalinica, rimangono tutti sul terreno: i separatisti, Semen, Kolia, e anche lui è ferito mortalmente. Prima di spirare, si è però meritato un ultimo faccia a faccia con la Madre degli Apostoli, di ritorno dalla tomba del figlio. Una santa e un cattivo, una donna e un uomo, una ucraina dell’ovest e un ucraino dell’est: una sola umanità.
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