1670_100% OFF, Ucraina, 2023. Regia di Sashko Protyah
Dal punto di vista formale, il mediometraggio 100% Off di Sashko Protyah, composto da filmati di differenti formati e
integrato dai disegni animati di Natasha Tzeliuba, più che sperimentale, si
potrebbe definire «sfidante». Una sfida, quella dei due cineasti ucraini che
fanno parte del collettivo Freefilmers, non solo formale ma radicale, sia
nell’aspetto del film che nel suo opporsi concettualmente tanto all’oppressione
russa che al sistema capitalistico a cui ha aderito l’Ucraina. Il tema, intorno
al quale ruotano le immagini, i dialoghi e le affascinanti animazioni, sono i
saccheggi avvenuti a Mariupol' nella primavera del
2022, quando la città portuale fu costantemente sottoposta a bombardamenti.
Certamente quello dei saccheggi, delle ruberie e delle vili speculazioni è un
fenomeno che, in questi casi, affligge puntualmente i luoghi già colpiti da queste
tragedie. È successo a Mariupol', è successo in altre mille città bombardate dalla guerra, ed è
successo perfino dove sono i terremoti o altre calamità naturali a portare
distruzione. Non è, però, tanto l’inclinazione dell’uomo a dare il peggio di sé
quando le circostanze sono pessime ad interessare gli autori del film. Anche
perché questa tendenza è bilanciata, e lo abbiamo visto proprio nell’altro
lavoro di Protyach, My favorite job, da una forza uguale e contraria,
ovvero quella di coloro si prodigano per aiutare il prossimo in queste
situazioni. Ci sono un paio di passaggi che è utile citare per cogliere,
probabilmente, il vero senso di 100% Off: il più esplicito è quello che
chiude il film, interamente illustrato dai poetici disegni di Tzeliuba, nel
quale si racconta come Kiusha, con il compagno e il cane, si avventurino nella
città in macerie alla ricerca di latte per i bambini. C’è da aver paura, visto
il contesto, ma in tre si possono fare almeno un po’ di coraggio l’un l’altra.
Di latte non se ne trova ma, ad un certo punto, accanto ad un carro armato in
fiamme, scorgono una stazione di servizio distrutta dal bombardamento. Tra gli
scaffali rovesciati e in rovina, Kiusha riesce a trovare intatta una bottiglia
di liquido infiammabile per caminetti, che andrà bene per accendere il fuoco,
dal momento che la legna che hanno è tutta bagnata. È anche questo un saccheggio, sembra
provocatoriamente chiedere nella sua chiusa Protyah? Formalmente sì, che si può
dire. Eppure è chiaro che, a fronte di una tragedia immane –un numero
incalcolabile di vittime, di traumi, di dolore, di sofferenza– voluta e
ottenuta scientemente, il recupero –si può davvero parlare di saccheggio?
seriamente?– di una bottiglia di alcool può avere una qualche –anche
concettuale, simbolica, quel che si vuole– rilevanza? Ma, qui –adesso qui sì–
entra in gioco il punto di vista morale della questione: se saccheggiare, in
taluni casi, è tollerabile, chi stabilisce quali siano questi casi? Una guerra?
Una carestia? La sopravvivenza? E che tipo, che livello, di sopravvivenza? È
qui che i contorni si fanno sfumati e le regole del sistema capitalistico vanno
in crisi. Ma c’è un altro momento, forse ancora più consono, per cogliere il
nocciolo della questione. Ad un certo punto, scherzando, in un dialogo, si osserva come, per sopravvivere alla guerra,
sia necessario vivere in una zona dove ci siano parecchi supermarket. Da notare
anche il successivo riferimento all’«algoritmo» che,
nella logica della battuta, avrebbe generato questa conclusione. L’algoritmo è
forse il più grande totem della società capitalistica attuale, un concetto o
riferimento che giustifica le peggiori nefandezze in virtù di una presunta
scientificità che ne santifichi i presupposti. La realtà è che non serve
l’algoritmo fittizio di 100% Off e nemmeno serve vivere in una città
bombardata, per comprendere come la logica capitalistica sia contraria alla
sopravvivenza di ciascuno, a meno che non risponda al profilo del consumatore
ideale. In genere, nella mia attività di scrittura, non faccio riferimenti
personali ma, per una simile occasione, farò un’eccezione. Vivo in Italia, in
una cittadina perfettamente servita di ogni genere di servizio e
infrastrutture; se non che, io personalmente abito in una frazione lievemente
periferica. Particolare irrilevante se hai la patente, l’auto o, volendo anche
la bicicletta. Ma una mia vicina di casa è sola, se non per il suo cagnolino e,
forse mi è venuta in mente proprio guardando Kiusha camminare col suo cane. In
ogni caso, la mia vicina è una donna anziana, non guida, non ha l’auto, non ha
la bicicletta, né può andarci, vista l’età e la pericolosità delle strade.
Nella mia frazione c’è una chiesa, memoria di un tempo in cui il Bettolino era
una comunità, piccola ma con tutti i servizi necessari e indispensabili a
ciascuno, a portata di cammino. Oggi è rimasto un panetterie, tre ristoranti
–che in Italia non si morirà mai di fame– il British college e due saloni di
parrucchiere. Non c’è una farmacia, un fruttivendolo, un’edicola, un macellaio;
certo, a cinque minuti d’auto sono raggiungibili numerosi supermercati e centri
commerciali, con buona pace della mia vicina e del suo cagnolino che, finché ne
hanno la forza, vanno in giro a piedi. Parafrasando il buon vecchio Bogey ne L’ultima
minaccia: «È la libertà,
bellezza!». Almeno quella in chiave capitalista.
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