1669_MY FAVORITE JOB, Ucraina, 2022. Regia di Sashko Protyah
Mediometraggio
sperimentale, My favorite job, racconta di come alcuni autisti volontari
aiutino i civili ad evacuare da Mariupol, presa brutalmente d’assalto
dall’invasione su larga scala russa. I protagonisti sono Ania e Yura, che
raccontano le loro peripezie per attraversare i posti di blocco, con i militari
filorussi particolarmente suscettibili di fronte all’operato dei volontari. La
situazione è particolarmente tragica, ma i due attivisti la stemperano con
massicce dosi di ironia nera, indispensabile per reggere l’urto dell’orrore
bellico. Sashko Protyah, fa un gran lavoro assemblando filmati di formato
diverso, interviste e scene dell’Ucraina distrutta dai pesantissimi
bombardamenti, alle quali integra alcuni passaggi in computer grafica (Vova Morrow).
Il problema principale, infatti, era filmare proprio dove si concretizzava
parte della missione di Ania e Yura, ovvero il percorso tra Mariupol' e Zaporizhzhya,
disseminato di posti di blocco presidiati da militari russi particolarmente suscettibili
a qualsiasi attività di documentazione della faccenda. L’aspetto quasi onirico di
queste sequenze, enfatizzato da alcune scelte registiche –l’oscurità, una sorta
di velata foschia, gli occhi demoniaci dei soldati, nere sagome minacciose– alimentano
l’aspetto orrorifico della guerra. Nel finale, una carrellata sui volti delle
persone messe in salvo da Ania e dai suoi volontari, ne propone le immagini ingrandite
5600 volte: non si riesce a coglierne le espressioni, così come è impossibile
comprendere la tragedia che hanno dovuto sopportare. Se i soldati russi sono
rappresentati come veri e propri diavoli, gli evacuati rischiano di essere
fantasmi di loro stessi, come mostrato dagli sfuggenti ritratti conclusivi. Un
destino atroce e ingiusto. Il titolo dell’opera fa riferimento alle parole
di Yura che, ad un certo punto, è
bandito dalle terre occupate in quanto accusato di spionaggio: se vi verrà
catturato, verrà passato per le armi senza troppe cerimonie. Yura, che aveva
già perso il suo appartamento, non sembra farne drammi –ma è solo una diversa
forma di sarcasmo per sopportare quest’ennesima ingiustizia– e si limiterà a
dare una mano restando nei territori liberi dall’occupazione. La domanda che viene
posta, a questo punto, è se il volontario non provi anche una sorta di
sollievo, non dovendo recarsi nuovamente nei luoghi più pericolosi, avendo cioè
una scusa valida per non farlo, una sorta di giustificazione morale. Ma Yura è
consapevole di quello di cui l’han privato e risponde in modo sibillino: “È
stato come perdere il tuo lavoro preferito” significa, infatti, vedersi privato
della libertà. Non è importante se questo sia più o meno sicuro, se comporti
più o meno rischi per la tua incolumità. La libertà non è questione di
sicurezza ma, piuttosto, è un diritto inalienabile e, quella ucraina, è
esattamente l’obiettivo da colpire e distruggere dall’Operazione Militare
Speciale putiniana.
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