1668_SCHOOL NUMBER 3 , Germania, Ucraina, 2017. Regia di George Genoux e Yelizaveta Smit
Presentato alla 67sima Berlinale,
School Number 3 di George Genoux e Yelizaveta Smit è un documentario
ambientato a Mykolaïvka (Nikolaevka in russo), una cittadina di 15.000 abitanti,
situata nel Donbas e contesa strenuamente da separatisti e nazionalisti
ucraini. Nel 2017, quando il film venne girato, era già ripassata in mano
ucraina, dopo essere stata occupata dalle forze della Repubblica Popolare di
Donetsk; in ogni caso si trova in una posizione che, a tutt’oggi, non si può
dire del tutto definitiva. Il documentario lascia libertà di espressione a tredici
adolescenti, alunni della Scuola Numero 3 a cui si riferisce il titolo
dell’opera, che condividono qualche passaggio della loro vita, mettendo in
genere al centro del racconto un oggetto o qualcosa di molto specifico. Si
tratta di una forma originale di cinema, mutuata dal «teatro
documentario» che i due co-registi avevano già
sperimentato. Proprio a Mykolaïvka, nel 2015, Genoux, era arrivato insieme ad
altri artisti di Kyiv, membri del gruppo New Donbas, per ricostruire la Scuola
Numero 3, distrutta da un missile che non si era riusciti a capire quale
provenienza avesse. Il regista è tedesco ma ha studiato in Russia: un paese che
ama anche se odia quello che sta facendo il Cremlino [sue
dichiarazioni prese dal sito Taz.de, pagina
web https://taz.de/Theater-im-Krieg/!5200597/, visitato l’ultima volta l’11
novembre 2024], e, forse, è proprio per risolvere questa
contraddizione che l’artista si dà questo gran d’affare per dare voce a chi, di
solito, la guerra la subisce e basta. Genoux, a quel tempo, aveva allestito lo
spettacolo teatrale My Mykolaïvka, collaborando già allora coi ragazzi della
scuola, aiutandoli a costruire meglio i monologhi, e aveva chiesto loro di
portare qualche oggetto su cui focalizzare l’attenzione dello spettatore. Lo
stesso sistema è poi stato utilizzato per realizzare School Number 3,
dove è intervenuta, come co-regista, anche Yelizaveta Smit, un’altra artista
che ama e conosce il «teatro documentario». I racconti degli adolescenti sono
interessanti, curiosi, commoventi ma, forse proprio per il formato del
lungometraggio, la noia può affiorare qua e là. Non è una connotazione poi così
negativa: naturalmente è ovvio che lo spettatore prediliga essere divertito, anche
al cinema, ma, forse, alcune emozioni hanno bisogno di un percorso diverso, che
passa anche da momenti di stanca, e, sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, non
è un male imparare ad adeguare la propria capacità di fruizione a ritmi che non
siano necessariamente frenetici. Questi ragazzi, che raccontano storie
semplici, stanno mettendo sullo schermo, di fronte a noi, la loro vita e,
nonostante il lavoro di costruzione che ci possa essere alle spalle, non si può
pretendere che le loro vicende abbiano il ritmo narrativo di un film d’azione.
Tuttavia, è innegabile che siano storie vere, toccanti, anche nella loro
semplicità, nella loro ingenuità, nel loro candore, anche quando i ragazzi bisticciano
scioccamente tra loro perché alla moto si è bruciata la frizione. Tra i
monologhi che restano più in mente c’è quello di Alina Kobernik con le miniature
della Torre Eiffel collezionate dal padre, anche perché l’idea di Genoux di
associare un oggetto al racconto rivela qui tutta la sua efficacia. Certo, l’esperienza
narrata della giovane ha ben altra vetta emotiva, ovvero quando racconta della
prima esplosione, di come sua madre ne fu terrorizzata e la chiamò per la prima
volta “figlia”: un appellativo che, per Alina, da quel giorno in poi, sarà
sempre associato alla paura, ai bombardamenti. Ma tutti i vari spezzoni hanno
momenti intensi: dal ragazzo che non comprende come si possa fare la guerra,
lui che non è in grado di uccidere un insetto, al timido che si emoziona mentre
è in videochiamata con la ragazzina del cuore, alla ragazza che ricorda di aver
tagliato una tenda di casa per giocare a fare la sposina, e, quando si rese
conto del danno che aveva combinato, temeva di venire sgridata. Invece i suoi
genitori risero, di fronte alla cosa, e non la punirono affatto. Dovrebbe
essere un ricordo dolce ma, quando ripensa a quei tempi, non può fare a meno di
rammentare un amico morto a causa della guerra. La tenda è rimasta e il suo
amico non c’è più. I racconti hanno un retrogusto amaro, questo è anche logico
visto che i ragazzi sono stati tutti, chi più chi meno, toccati direttamente
dall’immane tragedia bellica. Curiosamente, e anche in modo un po’ inquietante,
i registi lasciano spazio solo verso la fine del documentario a Viktoria
Gorodynska, che già aveva impressionato Genoux ai tempi della rappresentazione
teatrale. Viktoria è innamorata di un ragazzo secessionista, per il quale aveva
confezionato un braccialetto coi colori della Russia; non si interessava di
politica, ma delle persone, diceva. E amava quel ragazzo. Poi però qualcosa era
cambiato e, pur continuando a provare sentimenti per lui, non riusciva più a
gestire la cosa, era in crisi. Fino al giorno prima aveva indossato il
braccialetto coi colori della Russia; adesso, costretta a scegliere tra l’amore
per il fidanzato e quello per il suo paese, si ritrovava incapace rimetterselo
al polso. Il ragazzo allampanato che ascolta i Radiohead ci prova, a farle
dimenticare il coetaneo filorusso, ma il suo è un vano tentativo; forse Viktoria
ha colpito Genoux perché la ragazza, nel suo piccolo, è una sorta di metafora
dell’Ucraina. Parte del suo cuore batte ancora per la Russia, ma la sua mente
non può più accettare questo sentimento, non dopo quello che ha visto durante
la guerra. Comunque la si veda, è una storia lacerante.
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