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giovedì 15 maggio 2025

SCHOOL NUMBER 3

1668_SCHOOL NUMBER 3 , Germania, Ucraina, 2017. Regia di George Genoux e Yelizaveta Smit

Presentato alla 67sima Berlinale, School Number 3 di George Genoux e Yelizaveta Smit è un documentario ambientato a Mykolaïvka (Nikolaevka in russo), una cittadina di 15.000 abitanti, situata nel Donbas e contesa strenuamente da separatisti e nazionalisti ucraini. Nel 2017, quando il film venne girato, era già ripassata in mano ucraina, dopo essere stata occupata dalle forze della Repubblica Popolare di Donetsk; in ogni caso si trova in una posizione che, a tutt’oggi, non si può dire del tutto definitiva. Il documentario lascia libertà di espressione a tredici adolescenti, alunni della Scuola Numero 3 a cui si riferisce il titolo dell’opera, che condividono qualche passaggio della loro vita, mettendo in genere al centro del racconto un oggetto o qualcosa di molto specifico. Si tratta di una forma originale di cinema, mutuata dal «teatro documentario» che i due co-registi avevano già sperimentato. Proprio a Mykolaïvka, nel 2015, Genoux, era arrivato insieme ad altri artisti di Kyiv, membri del gruppo New Donbas, per ricostruire la Scuola Numero 3, distrutta da un missile che non si era riusciti a capire quale provenienza avesse. Il regista è tedesco ma ha studiato in Russia: un paese che ama anche se odia quello che sta facendo il Cremlino [sue dichiarazioni prese dal sito Taz.de, pagina web https://taz.de/Theater-im-Krieg/!5200597/, visitato l’ultima volta l’11 novembre 2024], e, forse, è proprio per risolvere questa contraddizione che l’artista si dà questo gran d’affare per dare voce a chi, di solito, la guerra la subisce e basta. Genoux, a quel tempo, aveva allestito lo spettacolo teatrale My Mykolaïvka, collaborando già allora coi ragazzi della scuola, aiutandoli a costruire meglio i monologhi, e aveva chiesto loro di portare qualche oggetto su cui focalizzare l’attenzione dello spettatore. Lo stesso sistema è poi stato utilizzato per realizzare School Number 3, dove è intervenuta, come co-regista, anche Yelizaveta Smit, un’altra artista che ama e conosce il «teatro documentario». I racconti degli adolescenti sono interessanti, curiosi, commoventi ma, forse proprio per il formato del lungometraggio, la noia può affiorare qua e là. Non è una connotazione poi così negativa: naturalmente è ovvio che lo spettatore prediliga essere divertito, anche al cinema, ma, forse, alcune emozioni hanno bisogno di un percorso diverso, che passa anche da momenti di stanca, e, sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, non è un male imparare ad adeguare la propria capacità di fruizione a ritmi che non siano necessariamente frenetici. Questi ragazzi, che raccontano storie semplici, stanno mettendo sullo schermo, di fronte a noi, la loro vita e, nonostante il lavoro di costruzione che ci possa essere alle spalle, non si può pretendere che le loro vicende abbiano il ritmo narrativo di un film d’azione. Tuttavia, è innegabile che siano storie vere, toccanti, anche nella loro semplicità, nella loro ingenuità, nel loro candore, anche quando i ragazzi bisticciano scioccamente tra loro perché alla moto si è bruciata la frizione. Tra i monologhi che restano più in mente c’è quello di Alina Kobernik con le miniature della Torre Eiffel collezionate dal padre, anche perché l’idea di Genoux di associare un oggetto al racconto rivela qui tutta la sua efficacia. Certo, l’esperienza narrata della giovane ha ben altra vetta emotiva, ovvero quando racconta della prima esplosione, di come sua madre ne fu terrorizzata e la chiamò per la prima volta “figlia”: un appellativo che, per Alina, da quel giorno in poi, sarà sempre associato alla paura, ai bombardamenti. Ma tutti i vari spezzoni hanno momenti intensi: dal ragazzo che non comprende come si possa fare la guerra, lui che non è in grado di uccidere un insetto, al timido che si emoziona mentre è in videochiamata con la ragazzina del cuore, alla ragazza che ricorda di aver tagliato una tenda di casa per giocare a fare la sposina, e, quando si rese conto del danno che aveva combinato, temeva di venire sgridata. Invece i suoi genitori risero, di fronte alla cosa, e non la punirono affatto. Dovrebbe essere un ricordo dolce ma, quando ripensa a quei tempi, non può fare a meno di rammentare un amico morto a causa della guerra. La tenda è rimasta e il suo amico non c’è più. I racconti hanno un retrogusto amaro, questo è anche logico visto che i ragazzi sono stati tutti, chi più chi meno, toccati direttamente dall’immane tragedia bellica. Curiosamente, e anche in modo un po’ inquietante, i registi lasciano spazio solo verso la fine del documentario a Viktoria Gorodynska, che già aveva impressionato Genoux ai tempi della rappresentazione teatrale. Viktoria è innamorata di un ragazzo secessionista, per il quale aveva confezionato un braccialetto coi colori della Russia; non si interessava di politica, ma delle persone, diceva. E amava quel ragazzo. Poi però qualcosa era cambiato e, pur continuando a provare sentimenti per lui, non riusciva più a gestire la cosa, era in crisi. Fino al giorno prima aveva indossato il braccialetto coi colori della Russia; adesso, costretta a scegliere tra l’amore per il fidanzato e quello per il suo paese, si ritrovava incapace rimetterselo al polso. Il ragazzo allampanato che ascolta i Radiohead ci prova, a farle dimenticare il coetaneo filorusso, ma il suo è un vano tentativo; forse Viktoria ha colpito Genoux perché la ragazza, nel suo piccolo, è una sorta di metafora dell’Ucraina. Parte del suo cuore batte ancora per la Russia, ma la sua mente non può più accettare questo sentimento, non dopo quello che ha visto durante la guerra. Comunque la si veda, è una storia lacerante.       

LA STUDENTESSA E L'ORSO è uno studio sulla guerra russo-ucraina attraverso il cinema. 


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