691_DETOUR - DEVIAZIONE PER L'INFERNO (Detour). Stati Uniti; 1945. Regia di Edgar G. Ulmer.
Girato in meno di un mese (il regista Edgar G. Ulmer pare abbia dichiarato in una sola settimana!), con un budget di soli 30.000 dollari, Detour, deviazione per l’Inferno è riuscito comunque a divenire, negli anni, un film di culto. E a ragione, sia chiaro. In soli 68 minuti e con l’ausilio di un cast di attori poco conosciuti e nemmeno troppo affascinanti, Ulmer riuscì a convertire la povertà dei mezzi a disposizione in un’operazione funzionale. Il regista di origine ebraica era stato un valente scenografo e questa abilità è probabilmente alla base di uno dei punti di forza del film, una sorta di unità di luogo. Per la verità il testo racconta di un viaggio, anzi il viaggio americano per antonomasia, da New York a Los Angeles. Ma i set sono ridotti all’osso: il locale newyorkese dove Tom (Al Neal) e Sue (Claudia Drake) si esibiscono, l’auto (una spettacolare Lincoln Continental V-12 Convertible del 1941) di Charles Haskell Jr. (Edmund MacDonald), la locanda dove comincia il flashback e la camera di albergo dove Vera (Ann Savage), sequestra Tom. C’è qualche scena in esterni, in fondo si tratta di una sorta di road movie in salsa noir, ma le location sono una manciata scarsa, come anche i protagonisti, praticamente già citati tutti. Volendo la vicenda è un minimo articolata ma la struttura in flashback, con Tom che racconta la sua strana e tragica avventura (la deviazione a cui fa riferimento il titolo), ne agevola la scorrevolezza, così il viaggio del nostro protagonista diventa una vera discesa all’inferno.
E Vera, la dark lady che incontra, è un vero diavolo ma non è tanto lei a portarlo alla perdizione; la ragazza è semmai una sorta di personale demone che sembra godere nell’approfittare delle debolezze di Tom. Probabilmente ha in parte ragione, Vera, quando non crede alla totale buona fede dell’uomo; è chiaro che l’occasione che era capitata a Tom ne avesse condizionato le decisioni, e la sua paura di andare alla Polizia per denunciare la morte naturale di Haskell era comprensibile; ma non giustificabile. D’altronde la scelta era affrontare un’indagine e un po’ di noie burocratiche (da innocente), o far finta di niente e tenersi auto e soldi dell’uomo che gli era morto praticamente tra le braccia (diventando, in modo più o meno grave, colpevole).
Questa era la svolta, la deviazione decisiva, e Tom la compiva in completa autonomia. Vera arrivava solo in seguito, sorta di coscienza (cattiva) dell’uomo e che, in fin della fiera, farà la fine che la coscienza vera di Tom aveva fatto quando sfilava il denaro al cadavere di Haskell. Il finale, con l’arrivo della Polizia a chieder di conto al nostro uomo, potrebbe essere una necessità produttiva, visto che nel 1946 era dura pensare di lasciare un colpevole a piede libero. Ma in questo caso non si può certo intendere come un lieto fine di maniera; piuttosto, la costatazione che la dannazione è ineluttabile per chi perde la propria anima.
Ann Savage
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