686_THE IRISHMAN . Stati Uniti; 2019. Regia di Martin Scorsese.
Il momento decisivo, quello che conta più di ogni altro negli oltre 200 minuti di The Irishman, il film di Martin Scorsese, è quello in cui il protagonista, l’irlandese del titolo, prende le difese della figlioletta maltrattata da un commerciante. Che, a dirla così, sembra quasi un’azione nobile, da parte di Frank Sheeran (un Robert De Niro monumentale, ma che ve lo dico a fare?), il nostro irishman, appunto. Ecco, il senso, e non solo di The Irishman ma di tutti i gangster movie, o forse dell’intera storia dell’America del XX secolo, è in una sorta di cortocircuito che manda in malora quanto di positivo ci poteva essere nell’intenzione di Frank quando si reca a pretendere giustizia per la piccola Peggy, tenendola per mano, a testimonianza che un qualcosa di buona fede ce la doveva pur avere. “It is what it is”, espressione usata dal boss Russel Bufalino (Joe Pesci, un po’ trattenuto e straordinario), è una buona definizione e non solo nell’accezione usata dal capo mafia: lui intende che le cose vanno così e non ci si può fare niente, ma la circolarità della frase è emblematica dell’imbuto senza via di scampo in cui si sono infilati Frank e tutti quanti, uomini del malaffare in testa ma non solo, nella società americana del dopoguerra. Un eccessivo (e stravolto) senso di protezione per i propri cari (la famiglia), un malsano senso dell’onore (verso le persone rispettabili), senza un adeguato ideale morale a controbilanciarne gli effetti, porta queste persone e la loro società verso la rovina.
E non è un problema solo dei malavitosi perché, in modo meno violento od estremo, riguarda tutta la società americana (e non), come mostrato dalle continue connessioni tra i fatti salienti del XX secolo e l’attività mafiosa, che nel film fiume di Scorsese accompagnano gli eventi privati dei nostri protagonisti. Il fatto che sia coinvolto nelle vicende anche Jimmy Hoffa (Al Pacino, che srotola la sua teatralità sul velluto) un sindacalista, che anche negli Stati Uniti è un qualcuno che dovrebbe avere a cuore gli interessi dei lavoratori, ci dice come sia radicato questo malsano modo di vivere. D’accordo, Hoffa una vaga idea di cosa possa essere un senso etico ce l’ha, e questo basta alla povera Peggy, assetata di giustizia sin dal tragico episodio raccontato.
Giustizia vera e non brutale vendetta, e così i modi affabili di Hoffa e i suoi eclatanti slogan di propaganda, evidentemente bastano alla povera ragazza per infatuarsi dell’uomo. Ma, per quanto il film possa essere basato su fatti reali e per quanto possa contare la vera natura di Hoffa personaggio storico, The Irishman è soprattutto un film di gangster di Martin Scorsese interpretato da De Niro, Pesci, Pacino e perfino Harvey Keitel (è Angelo Bruno). Insomma, è evidente una certa matrice metalinguistica del film, a tratti sembra quasi un’opera di Tarantino o dei fratelli Cohen, tanto sono autocompiaciuti i dialoghi, le smorfie, gli sguardi, dei fantastici interpreti.
E la regia di Scorsese è meno contingente al fatto in sé, meno estrema, e opera quasi di riflesso, godendosi i volti e le espressioni dei suoi personaggi piuttosto che sbatterci la violenza delle loro azioni in faccia. E’ davvero una sorta di bilancio finale, questo The Irishman, in modo esplicito, per via di qualche rimando, di Mean Streets (1973), de Il colore dei Soldi (1986) e, naturalmente, di Quei bravi ragazzi (1990), ma più in generale del suo cinema e, forse, dell’America stessa. Quello che ci rimane, sembra dirci il regista italoamericano, non è la violenza, nel film mostrata in modo svelto e poco spettacolare, e nemmeno il potere, in fondo il protagonista è solo un sicario.
E la durezza delle figlie di Frank, incapaci di perdonare il padre per la sua assenza di umanità, con Peggy che rifiuta addirittura di parlarci, è solo l’aspetto evidente, lampante, della questione. L’incapacità di Frank di provare sentimenti, di provare rimorso, anche di fronte al momento finale della sua esistenza: è questo quanto rimane. Il senso di colpa, vera leva morale delle società di origine cristiana, se sradicato dall’etica diventa inefficace o peggio uno strumento del male. Frank che, in auto, abbraccia Hoffa prima di freddarlo nella casa preparata all’esecuzione, è l’emblema dell’America e, di conseguenza, di tutta quanta la nostra società. Sappiamo di fare il male, forse ci si ricorda vagamente anche di averne rimorso ma, come si dice, it is what it is.
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