700_VIDEODROME . Canada; 1983. Regia di David Cronenberg.
Il successo ottenuto da David Cronenberg con Scanners (1981), provoca, tra le altre, due conseguenze: la prima è che il regista ha la possibilità di lavorare ancora sfruttando la politica dei tax-shelter (un sistema di detrazioni fiscali vigenti in Canada per incentivare il cinema); la seconda, ben più significativa, che l’autore sembri deciso a sfidare i suoi feroci critici. E di farlo sul loro terreno, dando cioè sponda alle loro teorie. Di fatto, Cronenberg, mette in scena quello che i censori temono, ovvero che uno spettatore (quasi per contrappasso, in questo caso, un produttore televisivo) finisca per subire l’effetto malefico di immagini disturbanti guardate incautamente. Che è una questione personale, per il regista, si capisce anche dal fatto che il protagonista della storia, Max Renn (James Wood, straordinario), nel film finisca per assomigliare fisicamente allo stesso Cronenberg; emblematica, in tal senso, la scena in cui si prova gli occhiali, a testimonianza che le immagini a cui assistiamo, anche al Videodrome della storia raccontata, è qualcosa di cui l’autore canadese sottolinea la paternità. Perché Videodrome, oltre al film di Cronenberg, è anche una sorta di circuito televisivo, potente e pericolosissimo, la cui visione provoca allucinazioni, mutazioni, morte. In Cronenberg c’è quindi, anche in questo caso, un lavoro metalinguistico: ma non tanto sul cinema, in sé e per sé, quanto sulle proliferazioni di immagini diffuse in particolar modo dagli schermi televisivi. Lo spunto, si diceva, è offerto dalla critica, subita dall’autore stesso, all’idea di filmare la violenza o il sesso; ma il film si smarca da questa risposta, a cui, in un dibattito televisivo (!) i personaggi danno risposte tra il banale e l’ipocrita. Se Max è infatti accusato di affrontare in modo superficiale l’argomento (io faccio il produttore, per me è solo business, si giustifica grosso modo), è ben peggiore l’approccio di Nicki Brand (una splendida Deborah Harry) che pubblicamente condanna la pratica ma nel privato si rivela molto interessata alla cosa. Ma, sostanzialmente,
Cronenberg liquida questi aspetti (e i suoi censori) in modo sbrigativo, non sono certamente questi gli argomenti su cui verte il film. La violenza, il sadomasochismo, sono mostrati per quello che sono: affascinano, hanno un potere suadente sulle persone (o su alcune di esse) ma poi l’individuo è in grado di gestire la cosa. Non necessariamente in modo semplice, sia chiaro, tanto che lo stesso Max, al momento della verità, ne è un po’ spaventato, ma è ugualmente libero di scegliere. Non è quindi la violenza mostrata o l’effetto di essa ad intorpidire lo stesso protagonista, come all’inizio del film, quando non si riesce a svegliarlo; e nemmeno a far mettere in fila la gente in condizioni disagiate per un posto davanti alla TV nella Cathode Ray Mission (la chiesa catodica, ennesimo colpo di genio dell’autore).
Quello su cui ci mette sull’avviso Videodrome è la dipendenza dalle immagini di cui, al tempo, la televisione aveva preso possesso. Ecco, questo esplicito legame tra il film di Cronenberg e il mezzo televisivo, di cui i sistemi di videoregistrazione presenti non erano altro che possibilità di reiterare la visione televisiva all’infinito, col tempo ha assunto una valenza maggiore. Perché gli avveniristici timori messi in scena dal geniale autore canadese, la civiltà dell’oblio televisivo (riferimento argutamente colto dal critico Gianni Canova dal nome del sacerdote del piccolo schermo Brian O’Blivion, interpretato da Jack Creley), erano forse potenziali per il 1983 ma sono perfettamente calzanti per la realtà quotidiana di quasi quarant’anni dopo. Oggi davvero trovano corpo pienamente le parole di O’Blivion, la televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione, se, al posto di televisione sostituiamo le parole social network. Ma non è nemmeno questo folgorante aspetto profetico il vero punto di forza di Videodrome. Come visto il lavoro di Cronenberg è anche in questo caso metalinguistico ed è in quest’ambito che si sviluppa il vero nodo focale dell’opera: Videodrome è un film di genere, ben costruito, ben interpretato. E’ un horror fantascientifico e svolge a dovere il suo compito, fa paura ed inquieta; soprattutto inquieta.
Il disagio che lascia Videodrome è profondo, molto profondo e lo spaesamento e lo smarrimento non sono certi legati alle immagini sadomasochistiche tra Wood e la Harry (quelle semmai sono stuzzicanti) e nemmeno alle torture del videodrome della storia raccontata. Puro Metacinema: il disagio deriva dall’uso destabilizzante della narrazione cinematografica. La storia a cui assistiamo parte come un normale thriller, con spunti investigativi (chi produce videodrome?), poi si concentra sul suo protagonista che pian piano comincia a perdere i riferimenti logici, sprofondando in allucinazioni e alterazioni della realtà percepita.
E la regia segue questo percorso a spirale nell’abisso, non come testimone terzo ma adagiandosi ai deliri allucinati di Max ma forse non solo, non permettendoci più di capire cosa sia reale o cosa sia immaginato, e anche da chi. E’ questo maelstrom narrativo che produce il disagio, l’incapacità, l’impossibilità, per lo spettatore, di dare una risposta certa e sicura a quello che vede. Cosa realmente succede a Max? Ha una pistola in mano o davvero questa le si è fusa sul braccio? Cronenberg è straordinario in questo senso, perché comincia il suo lavoro in maniera graduale, in modo che sembri quasi innocuo; ad esempio nella scena in cui Max e Nicki sono a letto, ad un certo punto la stanza cambia colori e poi addirittura ci si trova nell’arena di Videodrome col muro di argilla bagnata. Una scena onirica, un frutto dell’allucinazione o cos’altro? Max schiaffeggia o no la sua segretaria Bridey (Julie Khaner)? E’ credibile che una pistola possa essere inserita in un corpo, come se questo fosse un astuccio portaoggetti, anche se ci troviamo in un film di fantascienza? Le certezze vengono meno, le immagini ci costringono a pensare che siano frutto delle allucinazioni di cui è ormai preda il protagonista ma non abbiamo un conforto terzo, un testimone attendibile.
Non lo è mai la macchina da presa di Cronenberg che si fa trascinare dalla follia del suo protagonista. Mostrandoci, nei fatti e con metodi cinematografici, lo stato confusionale in cui questi versa e condividendolo, almeno in piccola parte, con noi. E’ questa la grandezza di Videodrome e, di conseguenza, di Cronenberg. Il cinema, il cinema di Cronenberg, non azzarda mai la pretesa di essere oggettivo, di essere verità; ed è questo che ci lascia inquieti. Che ci costringe a formulare ipotesi, che l’autore è bravo a lasciare in campo, per giustificare quello che è successo.
Il rischio non è nelle immagini mostrate, violente o meno che siano, se si lascia la facoltà allo spettatore di farsi un’idea propria. Il rischio è che la televisione degli anni 80 (o i social network del nuovo millennio) con la loro capacità di soddisfare la reiterazione degli sguardi, delle visioni, questo tempo non lo lascino. Che, in cambio, offrano la pretesa di verità delle proprie immagini; quante volte abbiamo sentito dire da qualcuno, per certificare l’autenticità di un fatto, è una cosa vera, è successa veramente, l’ho vista alla televisione, mentre ora ci dobbiamo sorbire la versione aggiornata l’ho visto su internet.
La videodipendenza è stata raramente filmata in modo tanto implacabile, ma Cronenberg la usa più che altro per mostrare la differenza con il cinema; si è detto, Videodrome, è metacinema e il regista nato a Toronto produce praticamente con esso il suo manifesto. Gli stessi elementi che stordiscono, intorpidiscono, instupidiscono, gli spettatori televisivi (mancanza di logica e coerenza nelle comunicazioni) inquietano e disturbano se visti da un’ottica onesta, che non fornisce pretese di presunte verità. Videodrome non è perciò tanto il film di Cronenberg e nemmeno il circuito di sadici torturatori di Pittsburg, ma è il cosiddetto circo mediatico nel quale siamo (ancora e più di prima) immersi.
Ma l’aspetto più spiazzante di Videodrome è che uno degli elementi che più lo hanno reso celebre, la dottrina della Nuova Carne, a cui il protagonista aderisce religiosamente e i cui riferimenti sono disseminati nella storia, con risvolti cruciali su essa, rimane vago, indefinito. Certo, il rapporto con il corpo e le sue mutazioni è parte integrante nel cinema di Cronenberg ma c’è il rischio che i tanti tagli voluti dallo stesso regista in sala di montaggio, per sua stessa ammissione, abbiano finito per svuotare di contenuti fondamentali questa aspetto della storia. Cosa professa, la Nuova Carne? Qual è il senso della trasformazione, forse la necessità di adeguarsi fisicamente allo strapotere del mezzo televisivo? O c’è forse bisogno di un nuovo tipo di spettatore, che sia consapevole dell’ingannevolezza del mezzo televisivo, come sostiene ancora Gianni Canova nel suo Castoro Cinema dedicato al regista canadese? Chissà, forse, più semplicemente, la risposta la possiamo trovare proprio vicino a noi, molto vicino a noi, troppo vicino a noi. Nello smartphone che non ci abbandona mai e che è diventato, di fatto, una propaggine della nostra mano. La Nuova Carne.
Deborah Harry
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