692_IL BIANCO, IL GIALLO, IL NERO . Italia; 1975. Regia di Sergio Corbucci.
Ottimo spaghetti-western, Il bianco, il giallo, il nero è un film che coglie pienamente lo spirito umoristico che quello specifico filone cinematografico prese quasi subito, ma che venne poi sviluppato in modo consistente più che altro negli anni settanta; raramente con risultati efficaci come in questo caso. Del resto Sergio Corbucci era regista di notevole esperienza, sia nel merito del western all’italiana che della commedia (tanto per dire, diresse ben 7 film con Totò), e quindi riuscì a trovare agevolmente una sintesi. E dire che alcuni suoi precedenti western, valga per tutti Django, uno dei capisaldi della versione italiana del genere, avevano ben poco di umoristico, almeno non a livello così esplicito; invece si può dire che Il bianco, il giallo, il nero, seppur è apertamente un film sulla frontiera americana, è nel contempo profondamente comico. Oltre alla duttilità del regista, capace come pochi di cavalcare i due filoni della storia, un contributo importante alla riuscita dell’opera è dato dal cast e, in modo specifico, dai tre protagonisti. I quali corrispondono, a modo loro, ai tre colori evocati dal titolo: il bianco è Blanc de Blanc interpretato da Giuliano Gemma; Tomas Milian è Sakura, un giapponese e quindi il giallo, mentre nei panni di Black Jack, il nero, troviamo Eli Wallach. Si tratta di tre attori che hanno in serbo tanto il registro avventuroso quanto quello comico: Gemma è straordinario in questo tipo di pellicole, dove può far valere l’indiscutibile physique du role mentre, avvalendosi del doppiaggio, elimina i residui limiti legati alla dizione e alla gamma interpretativa; Milian è forse anche eccessivo nel caricare il suo personaggio, ma è poi in grado di reggere la pantomima; a Wallach spetta ovviamente il ruolo un po’ più ingrato, ma è esattamente quello che gli riesce meglio, in questo caso in chiave comica. Alcune costanti del western all’italiana, la violenza, il gioco e i riferimenti scatologici, sono tra gli elementi portanti di Il bianco, il giallo, il nero. L’utilizzo degli ultimi, in sostanza per strappare una risata di bassa lega (pur sotto intendendo una metafora della fine del ciclo vitale del cinema western), è minore rispetto ad altri esempi del western nostrano e forse anche meno di quanto fosse lecito attendersi visto il tono della pellicola.
Anche la violenza, seppur ovviamente presente, è già disinnescata dal ricorso all’uso eccessivo e comico della stessa, valga per tutti la scena in cui il nero e il bianco cavano il giallo, interrato dai banditi fino al collo, tirandolo per le orecchie (che poi gli diventano enormi come accade nei cartoon). E il tono di questa scena, così come l’idea ripetuta (dal giallo e dal pony oggetto della caccia al tesoro su cui verte la storia) di mangiare una chiave per nasconderla e riportarla in seguito fisiologicamente alla luce, ci conduce al terzo elemento citato, che poi è quello su cui poggia completamente il film: il gioco. Già il titolo gioca scopertamente con il terzo film della trilogia del dollaro di Sergio Leone (Il buono, il brutto e il cattivo) ma è la sorprendente filippica sparata dalla moglie di Black Jack subito in avvio, ad essere la preventiva e definitiva chiave di lettura del film. In un unico spassoso discorso vengono citati nell’ordine: Per un (miserabile) pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Vamos a matar companeros, Giù la testa, La resa dei conti, Il mio nome è nessuno, Faccia a faccia, Un dollaro a testa (titolo di lavorazione di Navajo Joe), Il mercenario, O’cangaceiro, Il Mucchio Selvaggio, Un dollaro bucato, Minnesota Clay, … e poi lo chiamarono il Magnifico, C’era una volta il west, Anche gli angeli mangiano fagioli, Corri, uomo corri, Altrimenti ci arrabbiamo, Se Dio perdona, io no!
Il discorso della donna prosegue con un tributo all’importanza del cinema di Sergio Leone: devi diventare leone se vuoi fare la rivoluzione nel mondo del west, al quale Black Jack risponde cavandosi fuori (lui e anche Corbucci) da ogni simile pretesa; la moglie chiude l’incipit con una sorta di proverbio: tanto tra Ringo e Django sono sempre io che me la piango. Come si vede, oltre ad una esibizione di citazionismo, Corbucci gioca con le parole su più livelli, inserendo nel primo titolo un vocabolo estraneo (miserabile) al nome del film citato, quasi a voler depistare, in un primo momento, lo spettatore; oppure utilizzando il nome di lavorazione di una sua pellicola, o citando Il Mucchio Selvaggio che non è uno spaghetti western, o Altrimenti ci arrabbiamo che invece è italiano ma non è un western. Ovviamente, ed è uno degli elementi per cui il film è probabilmente ricordato, c’è poi il giallo, il personaggio interpretato da Milian che, per tutta la lunghezza della pellicola, sbaglia, in quanto giapponese, clamorosamente l’uso dei vocaboli nei discorsi e nei modi di dire, con prevedibili effetti comici spesso anche scurrili (il tema scatologico o comunque di grana grossa che torna fuori) e solo nel finale ne indovina uno (un’assonanza) quando dice: Sakura è sicuro.
Il tema del gioco è poi sviluppato, come già accennato, con la caccia al tesoro raccontata nel film, dove il tesoro da ricercare è un prezioso pony giapponese, o dalle beffe che principalmente il bianco rifila al nero, un po’ fumettistiche, d’accordo, ma in linea col tenore generale. Ma ci sono giochi anche più sottili, quasi metalinguistici, com’è tipico del filone italiano sulla frontiera americana: dapprima la storia presenta una banda di indiani fasulli, banditi travestiti da indiani, apparentemente a ribadire la convinzione di Leone tra gli altri, che i pellerossa non potessero essere mostrati con realismo nel cinema western; in seguito entrano in scena, almeno nella storia raccontata dal film, gli indiani autentici, e bisogna dire che sembrano, tutto sommato, convincenti. Quindi qui Corbucci sembra voler smentire la credenza diffusa che i nativi americani non potessero essere utilizzati con efficacia negli spaghetti western. Un ulteriore tema giocoso è quello del travestitismo: se Milian è vestito da giapponese in modo piuttosto posticcio, per tutto il film, Gemma, come i banditi prima di lui, si traveste da indiano e, per concludere in bellezza, tutte e tre i protagonisti si travestono da donna per entrare nel covo dei banditi.
E questo sembra anche un rimando ad un altro tema degli spaghetti, ovvero la scarsa costanza nelle presenze femminili, ad esempio nella trilogia leoniana. Corbucci scherza ancora: se ci sono poche donne, travestiamo allora gli uomini in abiti femminili. Ma poi, nel finale, il regista tira fuori un’avvenente rossa (Mirta Miller) per far concludere degnamente il film ad un fusto come Gemma, non prima di aver sbertucciato per l’ultima volta Wallach. Supportato degnamente dalle musiche dei fratelli De Angelis, Il bianco, il giallo, il nero è un film divertente che sembrava dimostrare come, in mano alla gente giusta, il genere degli spaghetti western potesse reggere ancora dignitosamente, anche immerso nel registro comico ormai apparentemente ineludibile dopo l’avvento di Trinità. Ma già si trattava di una sorta di canto del cigno.
Mirta Miller
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