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martedì 1 dicembre 2020

DA CORLEONE A BROOKLYN

677_DA CORLEONE A BROOKLYN . Italia1979. Regia di Umberto Lenzi.

Guardando il cast di Da Corleone a Brooklyn viene quasi scontato definire questo buon poliziottesco dello specialista Umberto Lenzi, come l’occasione di incontro/scontro tra Maurizio Merli e Mario Merola. Il primo è nella sua classica parte del commissario, in questo caso chiamato Giorgio Berni ma dalla personalità non troppo dissimile dai Betti o dai Tanzi di altri polizieschi all’italiana interpretati. Merola, il re della sceneggiata, si produce invece in una prestazione più contenuta del solito, con l’anomalia che lascia un po’ perplessi che lo vede interpretare un mafioso palermitano a cui ogni tanto sfugge l’inflessione napoletana nella parlata. E’ certamente un peccato veniale, nell’economia complessiva del film, sia chiaro, ma è anche un indice di eccessiva approssimazione che da un regista come Umberto Lenzi sarebbe lecito pretendere fosse evitato. Ma è anche l’ennesima conferma dei limiti delle produzioni italiane del cinema di genere: opere potenzialmente quasi sempre di buon livello, ma troppo spesso vanificate da sciatteria o scarsa cura dei dettagli. Tuttavia, ritornando al confronto tra Merli e Merola, anche stavolta, come recita il detto tra i due litiganti il terzo gode, a spuntarla è il personaggio che si inserisce tra la coppia di protagonisti: Biagio Pelligra che interpreta Salvatore Scalia. La posizione sospesa tra i due è esemplificata dal ruolo che Scalia ha nella storia: è il pentito che deve testimoniare contro Michele Barresi, il boss mafioso interpretato da Merola. E’ quindi un cattivo passato, volente o nolente, dalla parte dei buoni; e quindi si trova giusto in mezzo alle figure del commissario interpretato da Merli e di Merola nella parte del mafioso. 

Pelligra è un habitué del poliziottesco, spesso in ruoli marginali di bassa manovalanza criminale. Stavolta Lenzi gli ritaglia uno spazio maggiore e Pelligra non si lascia scappare l’occasione: pur senza strafare, ci regala un personaggio interessante che, per una volta, rende un minimo tridimensionale anche la figura del villan comprimario, di seconda importanza, del poliziesco all’italiana, abitualmente appena abbozzata. Da parte sua il personaggio di Berni ricalca un po’ stancamente la tipica personalità prevista dal genere: dalla durezza con cui interpreta il ruolo di funzionario di polizia, ai problemi con la moglie, che sembra ancora esserne legata sentimentalmente ma è stufa della sua professione. 

Sia Lenzi, come regista, che Merli, come attore, si sono forse accorti che un simile personaggio ha poco da aggiungere, alla soglia degli anni 80, in parte perché si è detto coi precedenti film quello che c’era da dire, in parte perché stanno cambiando i presupposti sociali. E forse si intuisce la volontà di lasciare un po’ di spazio anche ad altre figure del genere narrativo, abitualmente sempre oscurate dalla prepotente personalità del commissario di ferro di turno. In questo senso, la prestazione sottotono di Merola, pur se in sé positiva e anche migliore di quanto ci si potesse attendere, è da sottolineare. 

E’ come se perdesse l’occasione a favore di Scalia, nella trama del film un suo sottoposto, che invece la coglie, quell’occasione. Peraltro la descrizione di Barresi è ben curata; e c’è qualche passaggio, ad esempio quelli in cui il boss mafioso dispensa una sorta di giustizia sociale nel carcere, difendendo i deboli dalle angherie dei prepotenti, che può essere pericoloso e equivocabile da interpretare. La mafia ha, infatti, questa nomea di essere uno Stato nello Stato, più presente ai bisogni dei cittadini rispetto alle istituzioni ufficiali. Lenzi si limita a mostrare quello che è una situazione reale o quantomeno realistica: spesso i boss mafiosi si prodigano in questi atti di giustizia per aumentare il proprio credito e il proprio carisma presso l’opinione pubblica locale. 

Il regista illustra quindi il contesto in cui si sviluppa il potere e la considerazione della mafia, e non c’è una valutazione morale in questo. C’è invece una valutazione di questo livello nell’opportunismo che contraddistingue Barresi quando non deve recitare la parte del boss accorato, ma rivela la propria indole spietata. E Lenzi sembra quindi piuttosto dirci che, se dobbiamo valutare meglio, se dobbiamo cercare di comprendere anche le ragioni dei cattivi della società italiana, vale la pena riconsiderare il ruolo dei semplici scagnozzi: gente che la vita ha istradato in modo diverso da quello consono e legale, e che non nutre fiducia nelle istituzioni. Ma gente anche con un proprio codice d’onore che, comunque, pur di non accettare un’ingiustizia (l’uccisione della sorella), è disposta ad acconsentire finalmente, pur se come ultima istanza in punto di morte, di affidarsi alla Legge. Il trionfo della Legge non è ottenuto quindi tanto in seguito all’opera del commissario integerrimo, ma del pentito: una rivalutazione del ruolo del cosiddetto infame che, in Italia, non è affatto da sottovalutare.


Laura Belli


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