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sabato 29 agosto 2020

TOTO' DIABOLICUS

624_TOTO' DIABOLICUS; Italia 1962. Regia di Steno.

Chissà poi se il famoso fumetto Diabolik, uscito nelle edicole nel novembre di quello stesso 1962 che, nel mese di aprile, aveva visto nelle sale Totò Diabolicus, sia stato poi ispirato dal film di Steno. L’assassino che compare nel lungometraggio indossa una completa calzamaglia nera, con la sola scritta Diabolicus sul petto; insomma, difficile credere che questo non abbia influenzato le sorelle Giussani, nella creazione del loro eroe. Tra l’altro, ad un certo punto, si scopre che uno dei personaggi del film indossava una maschera per camuffarsi ed assumere un’altra fisionomia, uno degli stratagemmi più usati dal re del terrore del fumetto italiano. Coincidenze, forse, ma se, come è certamente possibile e anche probabile, la cosa ha qualche rimando concreto, è quantomeno interessante. L’Italia, si sa, è un paese del tutto particolare, e le cose spesso qui funzionano in modo inverso che al consueto: ad esempio, in questo caso, potremmo avere un fumetto nero, serio (nel senso che su Diabolik non si scherza per niente) che viene ispirato da quella che, a prima vista, sembra la sua parodia cinematografica. In genere succede esattamente il contrario: da una serie di fumetti o di film d’avventura, dell’orrore, o comunque di tono drammatico, si coglie lo spunto di enfatizzare adeguatamente alcuni toni per ricavarci una versione che sdrammatizza e la mette sul ridere. Qui sembra che sia successo il contrario; certo, nel caso, probabilmente le sorelle Giussani hanno solo colto quelle potenzialità drammatiche che Steno aveva un po’ trascurato, intento a seguire le multiple (ben sei) interpretazioni di Totò. 
In effetti il film è un po’ scialbo dal punto di vista narrativo e, anche vista la mole di sceneggiatori (tra gli altri Marcello Fondato, Giovanni Grimaldi e Bruno Corbucci) era lecito attendersi qualcosa di più. E poi anche il cast lavora sotto tono: Raimondo Vianello è incolore, Luigi Pavese e Mario Castellani si limitano al compitino, mentre le prime donne, la francese Béatrice Altariba e l’americana Nadine Sanders, fanno giusto una comparsata con funzioni di mero arredo. D’altra parte il principe della risata occupa tutto quanto lo spazio recitativo disponibile, con risultati spesso ottimi ma lasciando più di qualche perplessità. Notevole la gag del chirurgo nella sala operatoria, più di routine le altre interpretazioni, con una non adeguata resa nel doppiaggio: così così sia Carlo Croccolo che presta la voce a Laudomia, un’interpretazione femminile di Totò meno efficace di altre, che Renato Turi che si occupa di quella, sempre opera dell’attore napoletano, del monsignore. Ma è l’incipit con la voce propria di Totò, stranamente afona e un po’ roca, (nella parte in cui il comico è Galeazzo) a sembrare quasi fastidiosa. Stucchevole, poi, il solito qualunquismo tipicamente italiano che Steno interpreta benissimo (e a cui anche Totò si presta evidentemente volentieri) per cui il galeotto Pasquale Bonocore non tradisce i compagni fintanto che è povero, ma quando sa di avere ereditato una fortuna, diventa subito un informatore della polizia. Il passaggio è fastidioso non per fare del moralismo, ma perché sottintende alcuni luoghi comuni come fossero condivisibili: in primis il fatto che sia giusto non tradire i complici ma, soprattutto, il concetto che il ricco sia opportunista a prescindere, come se la moralità di una persona non dipendesse dalle proprie scelte ma sempre e solo dall’opportunità che gli si paventano. E la ciliegina sulla torta di questo eclatante esempio di italico pensiero è la scena finale, con l’arrivo del vero nemico dell’abitante del belpaese, l’esattore delle tasse. Simbolicamente doppiato dallo stesso Vinicio Soffia autore della risata di Diabolicus, l’inviato dell’erario si presenta nell’ultima scena, a chiedere conto (in pratica nelle vesti di un ladro) delle imposte che gravano sul Bonocore, ora divenuto ricco. Insomma, un individuo in prigione per complicità in una rapina, scarcerato per aver collaborato, ma solo dopo aver avuto l’eredità e quindi non certo per essersi pentito, erede di una fortuna nobiliare e quindi per niente meritata, dovrebbe avere, secondo Steno, il coraggio di ritenere il pagare le tasse come un furto. Purtroppo, non è questa parte satirica del film.






Béatrice Altariba

Nadine Sanders


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