624_TOTO' DIABOLICUS; Italia 1962. Regia di Steno.
Chissà poi se il famoso fumetto Diabolik, uscito nelle edicole nel novembre di quello stesso 1962
che, nel mese di aprile, aveva visto nelle sale Totò Diabolicus, sia stato poi ispirato dal film di Steno.
L’assassino che compare nel lungometraggio indossa una completa calzamaglia
nera, con la sola scritta Diabolicus
sul petto; insomma, difficile credere che questo non abbia influenzato le
sorelle Giussani, nella creazione del loro eroe. Tra l’altro, ad un certo
punto, si scopre che uno dei personaggi del film indossava una maschera per
camuffarsi ed assumere un’altra fisionomia, uno degli stratagemmi più usati dal
re del terrore del fumetto italiano.
Coincidenze, forse, ma se, come è certamente possibile e anche probabile, la cosa
ha qualche rimando concreto, è quantomeno interessante. L’Italia, si sa, è un
paese del tutto particolare, e le cose spesso qui funzionano in modo inverso
che al consueto: ad esempio, in questo caso, potremmo avere un fumetto nero, serio (nel senso che su Diabolik non si scherza per niente) che
viene ispirato da quella che, a prima vista, sembra la sua parodia
cinematografica. In genere succede esattamente il contrario: da una serie di
fumetti o di film d’avventura, dell’orrore, o comunque di tono drammatico, si
coglie lo spunto di enfatizzare adeguatamente alcuni toni per ricavarci una versione che
sdrammatizza e la mette sul ridere. Qui sembra che sia successo il contrario; certo,
nel caso, probabilmente le sorelle Giussani hanno solo colto quelle potenzialità
drammatiche che Steno aveva un po’ trascurato, intento a seguire le multiple
(ben sei) interpretazioni di Totò.
In effetti il film è un po’ scialbo dal punto
di vista narrativo e, anche vista la mole di sceneggiatori (tra gli altri
Marcello Fondato, Giovanni Grimaldi e Bruno Corbucci) era lecito attendersi
qualcosa di più. E poi anche il cast lavora sotto tono: Raimondo Vianello è
incolore, Luigi Pavese e Mario Castellani si limitano al compitino, mentre le
prime donne, la francese Béatrice Altariba e l’americana Nadine Sanders, fanno
giusto una comparsata con funzioni di mero arredo. D’altra parte il
principe della risata occupa tutto
quanto lo spazio recitativo disponibile, con risultati spesso ottimi ma
lasciando più di qualche perplessità. Notevole la gag del chirurgo nella sala
operatoria, più di routine le altre interpretazioni, con una non adeguata resa
nel doppiaggio: così così sia Carlo Croccolo che presta la voce a Laudomia, un’interpretazione
femminile di Totò meno efficace di altre, che Renato Turi che si occupa di
quella, sempre opera dell’attore napoletano, del monsignore. Ma è l’incipit con
la voce propria di Totò, stranamente afona e un po’ roca, (nella parte in cui
il comico è Galeazzo) a sembrare quasi fastidiosa. Stucchevole, poi, il solito
qualunquismo tipicamente italiano che Steno interpreta benissimo (e a cui anche
Totò si presta evidentemente volentieri) per cui il galeotto Pasquale Bonocore
non tradisce i compagni fintanto che è povero, ma quando sa di avere ereditato
una fortuna, diventa subito un informatore della polizia. Il passaggio è
fastidioso non per fare del moralismo, ma perché sottintende alcuni luoghi
comuni come fossero condivisibili: in primis il fatto che sia giusto non
tradire i complici ma, soprattutto, il concetto che il ricco sia opportunista a
prescindere, come se la moralità di una persona non dipendesse dalle proprie
scelte ma sempre e solo dall’opportunità che gli si paventano. E la ciliegina
sulla torta di questo eclatante esempio di italico pensiero è la scena finale,
con l’arrivo del vero nemico dell’abitante del
belpaese, l’esattore delle tasse. Simbolicamente doppiato dallo
stesso Vinicio Soffia autore della risata di
Diabolicus, l’inviato dell’erario si presenta nell’ultima scena, a
chiedere conto (in pratica nelle vesti di un ladro) delle imposte che gravano
sul Bonocore, ora divenuto ricco. Insomma, un individuo in prigione per
complicità in una rapina, scarcerato per aver collaborato, ma solo dopo aver
avuto l’eredità e quindi non certo per essersi pentito, erede di una fortuna
nobiliare e quindi per niente meritata, dovrebbe avere, secondo Steno, il
coraggio di ritenere il pagare le tasse come un furto. Purtroppo, non è questa parte satirica del film.
Béatrice Altariba
Nadine Sanders
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