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martedì 25 agosto 2020

HANNAH ARENDT

622_HANNAH ARENDT; Germania, Lussemburgo, Francia 2012Regia di Margarethe von Trotta. 

In fondo, la regista Margarethe Von Trotta deve essersi sentita lei stessa come la protagonista del suo film biografico, Hannah Arendt. In modo proporzionale, chiaro; però, affrontare un tema ancora non del tutto sanato come l’Olocausto, prendendo come interprete un personaggio difficile ed elevato come la filosofa nata in Germania nel 1906 a cui è dedicato il titolo dell’opera, non è certo il modo per rendersi facilmente comprensibili al pubblico. Ma ha naturalmente ragione la Von Trotta: c’è bisogno di qualcuno che scommetta sulla voglia degli spettatori di sforzarsi, di capire e magari non riuscirvi del tutto, anche perché il cinema non ha la profondità riflessiva o i tempi prolungati alla bisogna di altre forme di comunicazione. Ma poche forme d’arte hanno la capacità del cinema di instillare un dubbio, magari sottotraccia, mentre la storia principale scorre e intrattiene. Hannah Arendt racconta del periodo in cui la studiosa tedesca di origine ebraica seguì per conto del periodico New Yorker il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, in Israele. La capacità straordinaria di cogliere l’essenza delle cose della Arendt la farà passare alla Storia come l’autrice della definizione l’incarnazione assoluta della banalità del male, riferita a Eichmann, il contabile del Terzo Reich. E già questa intuizione, ovvero il fatto che i nazisti non erano dei geni del male e nemmeno dei diavoli, ma piuttosto personcine mediocri che approfittavano della situazione per non avere problemi, non pensare, non riflettere, ma semplicemente essere parte di un sistema che decidesse per loro, era ovviamente straordinaria. 
Ma la Arendt non era tipa da compromessi o da calcoli su quello che era meglio dire o non dire; e nemmeno si accontentava di essere già, con il suo concetto sulla banalità del male, una delle persone più acute in circolazione. No, la Arendt diceva quello che andava detto, senza sconti, e questa sua profonda onestà intellettuale, oltre a permetterle di avere una capacità di analisi superiore, aveva anche controindicazioni. A volte quello che diceva, o meglio scriveva, poteva essere scomodo, ad esempio. In quegli articoli per il New Yorker, scritti nei primi anni sessanta e da cui fu tratto l’illuminante saggio La banalità del male, la Arendt dovette affrontare anche il tema dei capi delle comunità ebraiche.
Secondo la studiosa, se gli ebrei non si fossero fidati dei loro leader, che collaboravano nell’organizzazione dei rastrellamenti coi nazisti per aver in cambio salva la vita, si sarebbero potuti salvare circa la metà delle persone finite nei campi di sterminio. Un’accusa grave, che la Arendt però sosteneva fosse uscita dalle deposizioni del processo, e che indignò l’opinione pubblica israeliana e mondiale visto che, al tempo, si cercava con forza di ribadire la legittimità del processo e delle ragioni dello stato di Israele. Ma non era certo nelle intenzioni della scrittrice accusare il popolo ebraico: si trattava semplicemente di capire come un fenomeno terrorizzante come l’antisemitismo organizzato dai nazisti avesse condizionato anche il comportamento di quegli ebrei che avevano visto l’opportunità di scampare all’Olocausto. Riflessioni molto lucide, analitiche, che la capacità di estraniarsi dall’essere parte in causa (la Arendt era ebrea e venne rinchiusa in un campo di prigionia) rendeva quasi fredde e distaccate.
Ed è un’accusa che venne fatta, alla studiosa, quella di non avere umanità; forse per questo la Von Trotta quasi eccede, nel suo film, con i siparietti da romantica situation-comedy tra Hannah (nel film Barbara Sukova) e il compagno. Gli scherzi con le amiche, le occhiatacce, le insinuazioni, le allusioni, negli scampoli di vita quotidiana… sembra quasi di assistere ad una versione di Sex and the City della mezza età. E il film è piuttosto eterogeneo, visto che ci sono poi sequenze più serie, alcune anche vibranti, come la lezione nell’aula gremita, nel finale, oppure direttamente le immagini storiche del processo Eichmann. Un film composto da differenti momenti, sottolineato anche visivamente dalla natura delle immagini. Articolato, tridimensionale, come doveva essere Hanna Arendt nella realtà: una donna anche sentimentale, capace di amare e soffrire, ma nella sua professione in grado di studiare lucidamente e formulare poi le sue teorie con grande rigore e notevole acume. Nel cast da ricordare Julia Jentsch, già vista anni prima nel ruolo di Sophie Scoll in La rosa bianca (2005, regia di Marc Rothemund).   

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