In fondo, la regista Margarethe Von Trotta deve essersi
sentita lei stessa come la protagonista del suo film biografico, Hannah Arendt. In modo proporzionale,
chiaro; però, affrontare un tema ancora non del tutto sanato come l’Olocausto,
prendendo come interprete un personaggio difficile ed elevato come la filosofa
nata in Germania nel 1906 a
cui è dedicato il titolo dell’opera, non è certo il modo per rendersi
facilmente comprensibili al pubblico. Ma ha naturalmente ragione la
Von Trotta: c’è bisogno di qualcuno che
scommetta sulla voglia degli spettatori di sforzarsi, di capire e magari non
riuscirvi del tutto, anche perché il cinema non ha la profondità riflessiva o i
tempi prolungati alla bisogna di
altre forme di comunicazione. Ma poche forme d’arte hanno la capacità del
cinema di instillare un dubbio, magari sottotraccia, mentre la storia
principale scorre e intrattiene. Hannah
Arendt racconta del periodo in cui la studiosa tedesca di origine ebraica
seguì per conto del periodico New Yorker il
processo al criminale nazista Adolf Eichmann, in Israele. La capacità
straordinaria di cogliere l’essenza delle cose della Arendt la farà passare alla Storia come l’autrice della
definizione l’incarnazione assoluta della
banalità del male, riferita a Eichmann, il contabile del Terzo Reich. E già
questa intuizione, ovvero il fatto che i nazisti non erano dei geni del male e
nemmeno dei diavoli, ma piuttosto personcine mediocri che approfittavano della
situazione per non avere problemi, non pensare, non riflettere, ma
semplicemente essere parte di un sistema che decidesse per loro, era ovviamente
straordinaria.
Ma
la Arendt
non era tipa da compromessi o da calcoli su quello che era meglio dire o non
dire; e nemmeno si accontentava di essere già, con il suo concetto sulla
banalità del male, una delle persone più
acute in circolazione. No,
la
Arendt diceva quello che andava detto, senza sconti, e questa
sua profonda onestà intellettuale, oltre a permetterle di avere una capacità di
analisi superiore, aveva anche controindicazioni. A volte quello che diceva,
o meglio scriveva, poteva essere
scomodo, ad esempio. In quegli articoli per il
New Yorker, scritti nei primi anni sessanta e da cui fu tratto
l’illuminante saggio
La banalità del male,
la Arendt
dovette affrontare anche il tema dei capi delle comunità ebraiche.
Secondo la
studiosa, se gli ebrei non si fossero fidati dei loro leader, che collaboravano
nell’organizzazione dei rastrellamenti coi nazisti per aver in cambio salva la
vita, si sarebbero potuti salvare circa la metà delle persone finite nei campi
di sterminio. Un’accusa grave, che
la
Arendt però sosteneva fosse uscita dalle deposizioni del
processo, e che indignò l’opinione pubblica israeliana e mondiale visto che, al
tempo, si cercava con forza di ribadire la legittimità del processo e delle
ragioni dello stato di Israele. Ma non era certo nelle intenzioni della
scrittrice accusare il popolo ebraico: si trattava semplicemente di capire come
un fenomeno terrorizzante come l’antisemitismo organizzato dai nazisti avesse
condizionato anche il comportamento di quegli ebrei che avevano visto
l’opportunità di scampare all’Olocausto. Riflessioni molto lucide, analitiche,
che la capacità di estraniarsi dall’essere parte in causa (
la Arendt era ebrea e venne
rinchiusa in un campo di prigionia) rendeva quasi fredde e distaccate.
Ed è
un’accusa che venne fatta, alla studiosa, quella di non avere umanità; forse
per questo
la Von Trotta
quasi eccede, nel suo film, con i siparietti da romantica situation-comedy tra
Hannah (nel film Barbara Sukova) e il compagno. Gli scherzi con le amiche, le
occhiatacce, le insinuazioni, le allusioni, negli scampoli di vita quotidiana…
sembra quasi di assistere ad una versione di
Sex and the City della mezza età. E il film è piuttosto eterogeneo,
visto che ci sono poi sequenze più serie, alcune anche vibranti, come la lezione
nell’aula gremita, nel finale, oppure direttamente le immagini storiche del
processo Eichmann. Un film composto da differenti momenti, sottolineato anche
visivamente dalla natura delle immagini. Articolato, tridimensionale, come
doveva essere Hanna Arendt nella realtà: una donna anche sentimentale, capace
di amare e soffrire, ma nella sua professione in grado di studiare lucidamente
e formulare poi le sue teorie con grande rigore e notevole acume. Nel cast da
ricordare Julia Jentsch, già vista anni prima nel ruolo di Sophie Scoll in
La rosa bianca (2005, regia di Marc
Rothemund).
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