621_L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI ; Italia, 1971. Regia di Damiano Damiani.
Prima di entrare nello specifico de L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani, una
considerazione: lascia un po’ interdetti il fatto che un tema particolare come
quello dell’uso a sproposito della carcerazione preventiva in Italia, sia
comune a due film usciti simultaneamente nelle sale italiane. Ad affrontare gli
stessi temi dell’opera di Damiani era, in quello stesso periodo, anche Detenuto in attesa di giudizio di Nanni
Loy con Alberto Sordi. Il tenore delle due opere è diverso, ovviamente,
l’Albertone nazionale lascia sempre la firma un po’ farsesca anche nei suoi ruoli impegnati, mentre Franco Nero,
protagonista di L’istruttoria è chiusa:
dimentichi tiene un registro interpretativo più drammatico. Detto di questa
curiosa coincidenza, va registrato che Damiani irrobustisce il suo curriculum
legato all’impegno civile con un altro testo di grande spessore. L’anomalia
italiana nell’uso spesso improprio della carcerazione preventiva permette al
regista friulano un’incursione in un carcere del belpaese che appare
decisamente credibile in quanto lo squallore a cui si assiste (corruzione,
abusi di potere, favoritismi e via di questo passo) ci è purtroppo assai
famigliare. Il carcere, si può dedurre dal film di Damiani, è un semplice
concentratore e amplificatore dei peggiori vizi e difetti dell’Italia, per i
quali, almeno stando al lungometraggio, non sembra esserci soluzione. Nel
racconto filmico la speranza è infatti negata simbolicamente dalla sorte
toccata a Pesenti (Riccardo Cucciolla), testimone di una vicenda ispirata ai
fatti del disastro del Vajont, la cui testimonianza avrebbe dovuto far luce
sulle negligenze e sulle colpe dell’azienda costruttrice di una diga al centro
di un pesante disastro.
I tentacoli della piovra del malaffare italiano
arrivano però anche dentro le mura del carcere e il povero Pesenti viene ucciso
inscenando un suicidio. Damiani forse esaspera, in questo caso, la classica
teoria del complotto, (diffusissima in
Italia e non del tutto a torto) immaginando che il protagonista di questa
storia, l’architetto Vanzi (Franco Nero), sia stato incarcerato con un banale
pretesto al fine di averlo nella cella insieme a Pesenti. Una volta che il
Vanzi fosse riconosciuto estraneo all’accusa pretestuosa di incidente colposo,
la sua affidabile testimonianza che il compagno di cella si fosse suicidato,
avrebbe cancellato ogni possibile dubbio in merito. Del resto il Vanzi è uno
stimato professionista e la sua parola avrebbe appunto avuto un peso non
indifferente, e questo è plausibile, ma in questo passaggio forse Damiani si
lascia prendere un po’ la mano dal
complottismo.
Perché la storia del suo personaggio nel carcere era stata fin lì corposa e
avvincente, del resto Damiani possiede il ritmo del bravo narratore; ma a quel
punto diventa un po’ difficile credere ad un complotto complesso come quello
che avrebbe dovuto prevedere le peripezie carcerarie del Vanzi. A parte queste
perplessità, il film è avvincente dal punto di vista narrativo, anche se
piuttosto deprimente dal punto di vista messo sotto analisi dall’intrinseca
denuncia sociale. Del resto, nel finale, lo stesso Damiani issa la bandiera
bianca di fronte al tipico opportunismo italico. Se dentro il carcere, il suo
personaggio, aveva avuto slanci di eroismo che tutto sommato bilanciavano i
passaggi meno lusinghieri (i tentativi fatti col denaro per corrompere le
guardie o di ottenere favori), quando Vanzi è libero e torna alla sua vita, è
rapidissimo ad appiattirsi sul conformismo borghese che gli appartiene. In
procinto di salpare per la crociera con gli annoiati amici che gli chiedono di
raccontare la sua avventura tra le mura carcerarie, riceve l’inaspettata visita
della figlia di Pesenti, l’attivista che voleva denunciare le colpe del
disastro della diga. La ragazza vuole sapere della fine del padre, non può
credere che si sia suicidato. Ma Vanzi non ha tempo ma una crociera che
l’aspetta e, in Italia, il motto imperante parla proprio di barche e ce lo dice
il testo di una nota canzonetta,
fin che
la barca va, lasciala andare e, soprattutto andrebbe aggiunto
non lasciartela scappare. E
tanti saluti alla memoria del Pesenti, della giustizia e della dignità
nazionale.
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