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domenica 23 agosto 2020

L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI

621_L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI ; Italia, 1971Regia di Damiano Damiani.

Prima di entrare nello specifico de L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani, una considerazione: lascia un po’ interdetti il fatto che un tema particolare come quello dell’uso a sproposito della carcerazione preventiva in Italia, sia comune a due film usciti simultaneamente nelle sale italiane. Ad affrontare gli stessi temi dell’opera di Damiani era, in quello stesso periodo, anche Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy con Alberto Sordi. Il tenore delle due opere è diverso, ovviamente, l’Albertone nazionale lascia sempre la firma un po’ farsesca anche nei suoi ruoli impegnati, mentre Franco Nero, protagonista di L’istruttoria è chiusa: dimentichi tiene un registro interpretativo più drammatico. Detto di questa curiosa coincidenza, va registrato che Damiani irrobustisce il suo curriculum legato all’impegno civile con un altro testo di grande spessore. L’anomalia italiana nell’uso spesso improprio della carcerazione preventiva permette al regista friulano un’incursione in un carcere del belpaese che appare decisamente credibile in quanto lo squallore a cui si assiste (corruzione, abusi di potere, favoritismi e via di questo passo) ci è purtroppo assai famigliare. Il carcere, si può dedurre dal film di Damiani, è un semplice concentratore e amplificatore dei peggiori vizi e difetti dell’Italia, per i quali, almeno stando al lungometraggio, non sembra esserci soluzione. Nel racconto filmico la speranza è infatti negata simbolicamente dalla sorte toccata a Pesenti (Riccardo Cucciolla), testimone di una vicenda ispirata ai fatti del disastro del Vajont, la cui testimonianza avrebbe dovuto far luce sulle negligenze e sulle colpe dell’azienda costruttrice di una diga al centro di un pesante disastro. 
I tentacoli della piovra del malaffare italiano arrivano però anche dentro le mura del carcere e il povero Pesenti viene ucciso inscenando un suicidio. Damiani forse esaspera, in questo caso, la classica teoria del complotto, (diffusissima in Italia e non del tutto a torto) immaginando che il protagonista di questa storia, l’architetto Vanzi (Franco Nero), sia stato incarcerato con un banale pretesto al fine di averlo nella cella insieme a Pesenti. Una volta che il Vanzi fosse riconosciuto estraneo all’accusa pretestuosa di incidente colposo, la sua affidabile testimonianza che il compagno di cella si fosse suicidato, avrebbe cancellato ogni possibile dubbio in merito. Del resto il Vanzi è uno stimato professionista e la sua parola avrebbe appunto avuto un peso non indifferente, e questo è plausibile, ma in questo passaggio forse Damiani si lascia prendere un po’ la mano dal complottismo.
Perché la storia del suo personaggio nel carcere era stata fin lì corposa e avvincente, del resto Damiani possiede il ritmo del bravo narratore; ma a quel punto diventa un po’ difficile credere ad un complotto complesso come quello che avrebbe dovuto prevedere le peripezie carcerarie del Vanzi. A parte queste perplessità, il film è avvincente dal punto di vista narrativo, anche se piuttosto deprimente dal punto di vista messo sotto analisi dall’intrinseca denuncia sociale. Del resto, nel finale, lo stesso Damiani issa la bandiera bianca di fronte al tipico opportunismo italico. Se dentro il carcere, il suo personaggio, aveva avuto slanci di eroismo che tutto sommato bilanciavano i passaggi meno lusinghieri (i tentativi fatti col denaro per corrompere le guardie o di ottenere favori), quando Vanzi è libero e torna alla sua vita, è rapidissimo ad appiattirsi sul conformismo borghese che gli appartiene. In procinto di salpare per la crociera con gli annoiati amici che gli chiedono di raccontare la sua avventura tra le mura carcerarie, riceve l’inaspettata visita della figlia di Pesenti, l’attivista che voleva denunciare le colpe del disastro della diga. La ragazza vuole sapere della fine del padre, non può credere che si sia suicidato. Ma Vanzi non ha tempo ma una crociera che l’aspetta e, in Italia, il motto imperante parla proprio di barche e ce lo dice il testo di una nota canzonetta, fin che la barca va, lasciala andare e, soprattutto andrebbe aggiunto non lasciartela scappare. E tanti saluti alla memoria del Pesenti, della giustizia e della dignità nazionale.



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