614_IL MERAVIGLIOSO PAESE (The Wonderful Country); Stati Uniti 1959. Regia di Robert Parrish.
Un film che, nel complesso, dà l’idea di non essere propriamente
riuscito, questo Il meraviglioso paese,
nonostante le premesse ci fossero tutte. In ogni caso il regista Robert Parrish
merita la giusta attenzione perché i suoi film, riusciti o meno, possono sempre
nascondere qualche risvolto sorprendente. Da un punto strettamente visivo il
film ha tutto per funzionare: a partire dagli attori di alto livello, come Robert
Mitchum nella parte del protagonista (Martin Brady), spalleggiato da Julie
London (Helen Colton) e Gary Merrill (il maggiore Colton). Essendo un western,
è quasi scontato che siano belle anche le ambientazioni, con un qualcosa di documentaristico durante la festa
messicana; e naturalmente valida anche la regia dell’esperto Parrish. Insomma
gli ingredienti c’erano, ma la ricetta usata non sembra produrre la giusta
alchimia: in primo luogo per mancanza di ritmo, il che è un fatto sorprendente
visto che Parrish prima che regista era stato un montatore di grande capacità. E
non è solo l’andamento lento a nuocere alla visione dell’opera ma proprio
l’assenza di cadenza, di direzione, di coerenza della storia raccontata dalle
pur innegabilmente belle immagini. Com’è detto Il meraviglioso paese è
un western, e allora la sua debole efficacia può quasi essere simbolicamente intesa
dal rapporto tra il protagonista e il suo cavallo: il film comincia con Brady
che cade rovinosamente dal suo destriero e si rompe una gamba. La vicenda
raccontata (traffico d’armi attraverso il confine) ha così un intoppo e lo
spettatore finisce in attesa insieme al convalescente Brady.
Poi finalmente la
storia riparte, prendendo una piega diversa, e procede fino a che si interrompe
di nuovo per l’infezione allo zoccolo del cavallo, che costringe Brady ad un
altro stop. Da cui la storia partirà nuovamente in un’ulteriore altra
direzione: stavolta arriveranno gli Apaches a rianimare un po’ la questione, ma
con risultati troppo deboli. Insomma, tutti questi problemi nell’andare a
cavallo non si erano mai visti al cinema e, chissà se davvero in modo
involontario, illustrano bene le difficoltà fruitive di questo film. Nemmeno il
titolo sembra essere troppo convincente: probabile che il
meraviglioso paese
citato siano gli Stati Uniti e non il Messico, anche se il regista indugia
maggiormente su quest’ultimo, sia per aspetti coreografici (divertenti le scene
della festa) che solidali (il ranchero ospitale). Vero è che anche nella
cittadina americana di Puerto il nostro protagonista viene curato e rivestito,
ma è probabilmente per la separazione tra il potere politico e quello militare
rispetto al paese latinoamericano il motivo di merito degli Stati Uniti
elogiato dal titolo dell’opera. Ma l’aggettivo
meraviglioso (
wonderful,
nell’originale) appare comunque esagerato, a meno di non riferirsi all’ovest
americano in termini di ambientazione naturale. Sia come sia, alla fine, le
circostanze convincono anche Brady che l’aria a nord del Rio Grande gli sia più
salutare e quindi lo vediamo chiudere il racconto tornando in patria. Manco a
dirlo avrà ancora problemi col cavallo, colpito in un’ultima imboscata; e
finalmente l’uomo si deciderà ad andare a piedi. Che sia quindi il cavallo, in
qualità di simbolo per eccellenza di libertà, certo ma anche uno degli emblemi della
conquista del west e quindi dell’America stessa, ad esserne al contempo il vero
limite? Che nella forsennata corsa all’ovest (
go west), di cui il cavallo fu forse lo strumento principale, sia nascosta la
fragilità dell’America?
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