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domenica 9 agosto 2020

IL MERAVIGLIOSO PAESE

614_IL MERAVIGLIOSO PAESE (The Wonderful Country); Stati Uniti 1959. Regia di Robert Parrish.

Un film che, nel complesso, dà l’idea di non essere propriamente riuscito, questo Il meraviglioso paese, nonostante le premesse ci fossero tutte. In ogni caso il regista Robert Parrish merita la giusta attenzione perché i suoi film, riusciti o meno, possono sempre nascondere qualche risvolto sorprendente. Da un punto strettamente visivo il film ha tutto per funzionare: a partire dagli attori di alto livello, come Robert Mitchum nella parte del protagonista (Martin Brady), spalleggiato da Julie London (Helen Colton) e Gary Merrill (il maggiore Colton). Essendo un western, è quasi scontato che siano belle anche le ambientazioni, con un qualcosa di documentaristico durante la festa messicana; e naturalmente valida anche la regia dell’esperto Parrish. Insomma gli ingredienti c’erano, ma la ricetta usata non sembra produrre la giusta alchimia: in primo luogo per mancanza di ritmo, il che è un fatto sorprendente visto che Parrish prima che regista era stato un montatore di grande capacità. E non è solo l’andamento lento a nuocere alla visione dell’opera ma proprio l’assenza di cadenza, di direzione, di coerenza della storia raccontata dalle pur innegabilmente belle immagini. Com’è detto Il meraviglioso paese è un western, e allora la sua debole efficacia può quasi essere simbolicamente intesa dal rapporto tra il protagonista e il suo cavallo: il film comincia con Brady che cade rovinosamente dal suo destriero e si rompe una gamba. La vicenda raccontata (traffico d’armi attraverso il confine) ha così un intoppo e lo spettatore finisce in attesa insieme al convalescente Brady.

Poi finalmente la storia riparte, prendendo una piega diversa, e procede fino a che si interrompe di nuovo per l’infezione allo zoccolo del cavallo, che costringe Brady ad un altro stop. Da cui la storia partirà nuovamente in un’ulteriore altra direzione: stavolta arriveranno gli Apaches a rianimare un po’ la questione, ma con risultati troppo deboli. Insomma, tutti questi problemi nell’andare a cavallo non si erano mai visti al cinema e, chissà se davvero in modo involontario, illustrano bene le difficoltà fruitive di questo film. Nemmeno il titolo sembra essere troppo convincente: probabile che il meraviglioso paese citato siano gli Stati Uniti e non il Messico, anche se il regista indugia maggiormente su quest’ultimo, sia per aspetti coreografici (divertenti le scene della festa) che solidali (il ranchero ospitale). Vero è che anche nella cittadina americana di Puerto il nostro protagonista viene curato e rivestito, ma è probabilmente per la separazione tra il potere politico e quello militare rispetto al paese latinoamericano il motivo di merito degli Stati Uniti elogiato dal titolo dell’opera. Ma l’aggettivo meraviglioso (wonderful, nell’originale) appare comunque esagerato, a meno di non riferirsi all’ovest americano in termini di ambientazione naturale. Sia come sia, alla fine, le circostanze convincono anche Brady che l’aria a nord del Rio Grande gli sia più salutare e quindi lo vediamo chiudere il racconto tornando in patria. Manco a dirlo avrà ancora problemi col cavallo, colpito in un’ultima imboscata; e finalmente l’uomo si deciderà ad andare a piedi. Che sia quindi il cavallo, in qualità di simbolo per eccellenza di libertà, certo ma anche uno degli emblemi della conquista del west e quindi dell’America stessa, ad esserne al contempo il vero limite? Che nella forsennata corsa all’ovest (go west), di cui il cavallo fu forse lo strumento principale, sia nascosta la fragilità dell’America?



Julie London




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