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martedì 11 agosto 2020

NEVADA SMITH

615_NEVADA SMITH ; Stati Uniti, 1966.Regia di Henry Hathaway.

Il grande regista Henry Hathaway, esperto di western, riporta sulla scena del selvaggio ovest quello Steve McQueen che qualche anno prima aveva dato al genere un importante segno di cambiamento nel riuscitissimo I magnifici sette. Con il film di John Sturges lo spericolato attore americano aveva cambiato i connotati al tipico eroe dei film dei cowboys: non più statuari monumenti come John Wayne, Robert Mitchum, James Steward o Gary Cooper, tanto imponenti quanto infallibili, (o quasi). No, McQueen è un eroe diverso: agile, dinamico e meno arroccato su posizioni salde, sia da un punto di vista fisico che morale. Insomma un personaggio più moderno rispetto agli eroi da poema epico che caratterizzano abitualmente i film western. Tra I magnifici sette, ad onor del vero, tutte le figure sono sostanzialmente del tenore di quella di McQueen, ma lui è certamente quello che ha lasciato maggiormente il segno. Hathaway richiama quindi questo personaggio, lo Steve McQueen versione western, per dire la sua sulla trasformazione che il genere sta subendo, a partire forse proprio dal citato film di John Sturges. E siccome nel 1966 di questa mutazione siamo ancora tutto sommato in una fase iniziale, il regista ci propone una sorta di romanzo di formazione del nuovo eroe western: e il risultato è, almeno per certi versi, quasi traumatizzante. Non che il film sia brutto, tutt’altro. Hathaway ci sa fare e McQueen è un attore strepitoso ma quello che ci mostrano ci lascia senza speranza. 
Andiamo però per gradi: che si tratti di un film che mostra l’evoluzione di tale Max Sand (il ruolo interpretato da Steve McQueen, il cui appellativo Nevada Smith salta fuori solo nel finale), è evidente, dalle pose infantili che assume il protagonista all’inizio della pellicola, al suo non saper sparare, non saper leggere, non sapere quasi nulla. Ancora ragazzo il nostro subisce un trauma clamoroso: tre banditi gli uccidono il padre e la madre, una donna indiana. Il personaggio è quindi un sangue misto, altro ostacolo non da poco nella sua crescita. Ma tutto sommato non è questo il tema del film: non sarà l’essere mezzo indiano (o mezzo bianco, per dirlo con le parole dello stesso Nevada) un grossissimo impiccio per lo spigliato ragazzo. L’aspetto più evidente che caratterizza il personaggio interpretato da McQueen, e di conseguenza anche il film di Hathaway, è la determinazione con cui il nostro punta dritto sul proprio obiettivo. Che purtroppo è la sete di vendetta. Nulla lo distoglie dalla sua missione vendicatrice: non i problemi razziali, non quelli economici, non la religione, non il sesso e nemmeno l’amore. Il momento più drammatico è infatti quando Nevada di fatto sacrifica la vita di Pilar (la bella Suzanne Plashette), una ragazza che in fin dei conti aveva fatto innamorare e di cui aveva chiesto aiuto in una missione pericolosissima (difatti fatale per la povera ragazza) al solo scopo di perseguire la sua vendetta. La ragazza, in punto di morte, usa parole durissime nei confronti dell’uomo che non possono essere non condivise; ne tant’è Nevada si azzarda a smentirle. E’ un colpo durissimo, per le speranze dello spettatore, ma lo è ancora di più vedere che dopo quella esperienza, il baldanzoso giovane non intende infatti cambiar strada per lasciare la via della vendetta. Insomma, se il Sogno Americano celebrato dal cinema western è morto, sembra dirci Hathaway, beh, il nuovo eroe è già più morto di lui. Nel cast anche Karl Malden (ottimo nella parte del cattivo subdolo), Brian Keith (il cui possente aspetto rassicurante offre un’ottima parte come padre putativo del ragazzo, richiamando i vecchi eroi classici del western), Arthur Kennedy (valido nel ruolo di cattivo meno cattivo), e Martin Landau (credibilissimo come cattivo psicopatico). Un bel film, quindi, ma certo non ottimista.









Suzanne Plashette





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