619_IL CAVALIERE DELLA VALLE SOLITARIA (Shane); Stati Uniti, 1953. Regia di George Stevens.
Negli anni 50 il mito dell’America riceveva la sua
consacrazione definitiva nel genere western più che in ogni altro
ambito, in particolare in film come questo splendido Il Cavaliere della
Valle Solitaria di George Stevens. Al tempo gli Stati Uniti erano ancora un
paese giovane che necessitava quindi di avere i suoi eroi, i suoi paladini, e
Alan Ladd nei panni di Shane, appunto Il cavaliere della valle solitaria del titolo italiano, altri non
è che la moderna versione di Achille, Sigfrido o Rolando dei poemi epici
europei. Non è certo un caso che tutto il film sia visto dalla prospettiva del
piccolo Joey (Brandon De Wilde), un ragazzino che vede in Shane l’incarnazione
dei propri sogni d’avventura. Stevens rimarca questo aspetto educativo dell’opera,
il suo rivolgersi ad un pubblico giovane, togliendo ogni riferimento sessuale:
Jean Arthur, che interpreta Marian, la madre del piccolo Joey, è bella nel
senso materno del termine. Non che sia brutta, per carità, ma si guarda bene
dal provocare un’evoluzione della situazione che, con l’arrivo di un uomo come Shane
in casa Starrett, sarebbe lecito attendersi (almeno al cinema). E in effetti
qualche allusione c’è, nel film, con lo stesso Joe (Van Heflin), padre del
ragazzo, che si accorge che il confronto con Shane lo mette in inferiorità,
forse addirittura più agli occhi della moglie piuttosto che del figlio. Ma si
tratta di un tema lasciato in disparte, con Shane che si arrabbia subito quando
il cattivo di turno, Rufus Rykers (Emile Meyer) prova a farci un’insinuazione:
non è il tema della storia, quello della rivalità amorosa. Non è ancora tempo,
sembra dire Stevens, per parlare di queste cose, l’America è ancora troppo
acerba, troppo bambina e prima del sesso c’è un altro demone che ogni uomo deve
affrontare nel percorso della propria crescita: quello della violenza.
Oltretutto, il contatto con una terra selvaggia, il Far West, con la sua cronica
mancanza di leggi, istituzioni, istruzione, e il contemporaneo confronto con la
civiltà dei nativi, differente e comunque spesso brutale, resero il problema
della violenza particolarmente sentito. Soprattutto adeguato ad un tempo, quello
degli anni 50, che per l’America, dopo la seconda guerra mondiale, aveva in
fresco carico della memoria collettiva nazionale il ricorso alle bombe
atomiche. Quello della violenza era davvero un problema serio, in America, di
sicuro a quei tempi e forse ancora oggi. Nel film, per il piccolo Joey, il fascino
di Shane è molto legato alla pistola che questi porta al fianco: la pistola,
l’arma da fuoco che più di ogni altra sembra ammaliare i bambini, perché meglio
di ogni altra dà libero sfogo alla volontà di violenza che alberga in ognuno di
noi.
Per Joey la violenza è come il fuoco per la falena e Stevens rimarca in
modo evidente la partecipazione fisica del ragazzino che, guardando di
nascosto, incarna anche quella dello spettatore durante le scazzottate nel
saloon. Apparentemente il film è una storia sui buoni sentimenti con l’eroe che
arriva, salva i poveri oppressi e poi se ne va. In realtà questa è solo la
parte superficiale della vicenda; quello che rimane è l’incredibile fascino che
la violenza ha su di noi, si pensi anche al potere ipnotico che emana il pistolero
cattivo forse più convincente dell’intera storia del cinema western, Jack
Wilson, soprattutto grazie alla magistrale interpretazione di Jack Palance.
Inoltre, pur se viene rimarcato che la violenza è una scelta sbagliata, e Shane
nel finale è costretto ad andarsene, non viene però fornita una soluzione diversa
dall’uso della stessa violenza per risolvere i problemi. Quindi, se da un lato
il film è malinconico con lo struggente addio di Shane rincorso dal ragazzino,
dall’altro non ci fornisce nemmeno una percorribile soluzione alternativa. Siamo gente di natura violenta, sembra dire George Stevens,
ma per quanto possa essere affascinante e apparirci indispensabile, dobbiamo
cercare di lasciare che questa violenza se ne vada via da noi; via, insieme a
Shane, possibilmente senza nostalgia. Ma, guardando la sagoma di Alan Ladd a
cavallo che scompare all’orizzonte, sappiamo già che sarà dura.
Jean Arthur
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