600_SCANNERS ; Canada, 1981. Regia di David Cronenberg.
All’alba degli anni ottanta, visto il positivo riscontro di Brood (1979),
Brood aveva sancito in modo esemplare la capacità del regista di gestire un film commerciale, peraltro piegandolo perfettamente ai propri stilemi; con Scanners questa abilità nel confezionare un prodotto fruibile al grande pubblico verrà ulteriormente affinata. Scanners è un film che si presenta, sin dalla sua più celebre scena, quella con il soggetto dotati di poteri telepatici a cui esplode improvvisamente la testa, come un film horror fantascientifico basato sugli eccellenti effetti speciali. Ed è vero, l’opera è godibile come un prodotto d’evasione ben costruito e assemblato, sebbene poi non lasci, e questa è la grandezza del regista, affatto tranquillo lo spettatore come era invece prassi del genere. Per la verità, con gli anni settanta si era imposta, nel cinema dell’orrore, la moda del finale aperto, dove il mostro, il male, una volta sconfitto, lasciava intendere di non essere affatto totalmente fuori gioco. Questo, se aveva comunque un senso autoriale, nell’angoscia che correva sottilmente in quegli anni, permetteva ai produttori di mettere già in cantiere un eventuale sequel nel caso gli incassi fossero buoni; cosa che verrà presto d’abitudine nel genere a quei tempi.
Il cinema dell’orrore aveva sin dal principio avuto una funzione sociale catartica e quindi, passato lo spavento, lo spettatore poteva dormire sereno. I film dei settanta provavano quindi a mettergli un po’ di agitazione ma, una volta preso coscienza della consuetudine dei contro-finali, il loro effetto poteva infatti venire diluito quando non ridotto a mero cliché. Se era quindi la norma dell’epoca avere un finale sibillino, Cronenberg si smarca anche da questa prassi (probabilmente senza neppure prendere in considerazione la cosa, sia chiaro) visto che il finale di Scanners lascia un’inquietudine assai più profondamente indefinita e spiazzante.
In ogni caso, allo spettatore abituale dei film horror, viene offerto con Scanners un’opera che non offre la solita prevedibile soluzione ed è quindi anche da qui che si può incominciare a capire il motivo per cui il canadese diverrà un regista di culto a suo modo popolare, mantenendo una cifra assolutamente personale e di altissimo profilo artistico. Ma per cominciare a dirigere Scanners, Cronenberg dovette improvvisare e gli effetti di questo si possono scorgere in una semplicità strutturale del narrato che, da un certo punto di vista, rende il film quasi più funzionale. Volendo vedere, ci sono dei passaggi che, per essere un film di genere, non sono forse vere e proprie incongruenze ma non hanno poi la classica spiegazione che li risolve; si prenda, ad esempio, quando Keller (Lawrence Dane) dice a Kim che gli altri scanners gli hanno rivelato che la ragazza non è una di loro. L’uomo scoprirà in seguito a sue spese come la cosa sia falsa e, da un punto di vista narrativo, in prima istanza la cosa è funzionale perché allo spettatore può perlomeno sorgere un dubbio; ma poi, quando Kim piega col pensiero il braccio di Keller, viene spontaneo chiedersi che cavolo vadano a raccontare in giro gli altri scanners. Nell’economia del film è un dettaglio insignificante, è ovvio, ma rivela come Croneneberg dica il vero, (nel libro intervista di Chris Rodley Il cinema secondo Cronenberg, Nuova Pratiche Editrice, 1994) quando lamenta la mancanza di tempo avuta per lavorare alla sceneggiatura del film.Di contro, come detto, il film risulta quasi più spontaneo, più agile, rispetto ad altri testi del canadese, che ormai padroneggia talmente bene la regia da imbastire comunque, anche in queste condizioni di improvvisazione, una confezione formale notevole. L’impostazione scenografica è eccellente, con un utilizzo degli ambienti che si era già visto nei primi lavori dell’autore: gli spazi chiusi sono raffigurati come una sorta di organismo vivente, i corridoi, le scalinate, gli atri, sembra di girare all’interno di un’immensa creatura, nello stesso modo in cui la macchina da presa si aggirava per l’Arca di Noè, il complesso residenziale al centro de Il demone sotto la pelle.
Ma stavolta l’attenzione di Cronenberg è posta altrove; e l’obiettivo del suo esplorare ce lo mostra, assai efficacemente, l’immagine simbolo di Scanners, con la famosa testa che esplode. L’operazione del regista nato a Toronto è sempre di natura metalinguistica, come le precedenti: il dottor Ruth (Patrick McGoohan) mostra a Cameron (Sthepen Lack), il protagonista del racconto, un filmato, mentre altre volte osserviamo Keller spiare con l’utilizzo di qualche telecamera nascosta. Il cinema, il virus cronenberghiano, è sempre al centro della scena e con il suo dipanarsi si insinua per i corridoi delle aziende chimiche o farmaceutiche presenti nella storia.
In questa occasione, in realtà, non si pone come obiettivo il corpo, di un edificio come di un uomo, ma di questi vorrebbe sondare la mente; e, infatti, protagonisti della storia sono individui dalle facoltà telepatiche. E’ però una penetrazione più ardua: la scena con Cameron legato sul letto di fronte ad una platea di volontari, di cui riesce a percepire ma non a gestire l’enorme flusso di pensieri, sembra voglia mostrare questo tipo di difficoltà. Il regista si affida alle dissolvenze incrociate, alle immagini che sfumano, per illustrare l’altro aspetto che caratterizza il pensiero, la mente umana: impenetrabile, ma al tempo stesso sfuggente, immateriale. Nonostante questa ammissione di trovarsi alle prese con qualcosa di differente e meno sondabile rispetto al corpo, almeno per gli strumenti del suo operare, quelli cinematografici, Cronenberg sembra però convinto, almeno secondo una certa chiave di interpretazione, della similitudine, della stretta attinenza, della connessione saldata, tra mente e corpo. Un corpo si può penetrare per poter accedere al suo interno e questa è una delle motivazioni alla base del suo interesse per il sesso; in questo film, che prova ad analizzare la mente, ci sono comunque un sacco di penetrazioni.Alcune virtuali, quelle telepatiche degli scanners, altre metaforiche come le iniezioni di Ephemerol, ma la più interessante è quella che riguarda Revok (Michael Ironside), il cattivo del film. L’uomo, lo scanner più potente del lotto, si è aperto un buco sulla fronte, proprio tra gli occhi: un folle tentativo di alleviare la pressione che il potere telepatico gli procurava nella testa. Una penetrazione per mettere in contatto l’interno del cranio con l’esterno, quindi, in un certo senso, un tentativo di portare alla luce la psiche. E l’idea di Revok di coprire la cicatrice con un occhio si collega all’atto di guardare, in questo caso guardare dentro le cose, come fa il cinema cronenberghiano quando diventa strumento di analisi.
L’occhio è qualcosa che penetra così come il cinema è qualcosa che penetra: i corpi possono essere penetrati così come le menti, possono esserlo. La penetrazione è collegata alla procreazione, così come i poteri telepatici degli scanners sono conseguenza delle iniezioni di Ephemerol, e così come il cinema di Cronenberg viene creato dallo sguardo penetrante del regista. Tutto questo insistere su questo tema, nel film evidenziato anche dalle porte che si aprono e chiudono e con i personaggi che entrano negli ambienti delle scenografie, si trova in una storia che si distingue per la sua completa mancanza di ogni riferimento sessuale esplicito. Per tagliare la testa al toro, e forse per tranquillizzare la sua attrice protagonista, il regista evita infatti di inserire nella sceneggiatura ogni aspetto non solo sessuale ma anche sentimentale, tanto che fa specie vedere due personaggi giovani e attraenti come Jennifer O’Neil e Stephen Lack ignorarsi completamente da quel punto di vista.
Cronenberg, piuttosto, forse proprio non avendo una storia studiata e calcolata, ma dovendo sbrigarsi a trovare le idee per girare ogni giorno senza sprecare tempo, dà libero sfogo alla sua affascinante e malata fantasia. Lo studio di Pierce (Robert Silverman), lo scanner che trasforma in arte il suo disagio extrasensoriale, è un saggio dell’inventiva e della genialità del cineasta canadese. Scenograficamente è un passaggio di grandissimo fascino visivo, ma ha anche un suo efficace significato simbolico, con la testa enorme in cui Pierce penetra e abita al suo interno. L’artista è quindi colui il quale riesce a rendere concreta, al punto da poterci entrare, la mente umana; dare una forma, non solo tangibile ma addirittura penetrabile, al pensiero. Questo, in Cronenberg, non è il raggiungimento dello scopo ultimo della sua arte, ma il suo principio. Scanners, come detto, è infatti una sorta di remake di Stereo, suo esordio nei lungometraggi, e rappresenta quindi una specie di re-boot dell’autore canadese. Nella sua riflessione sulla natura umana, Cronenberg si muove sempre lungo le coordinate cartesiane psiche/corpo e, naturalmente, questo suo nuovo primo passo nel tentativo di conoscere sé stessi prende in esame la mente, laddove risiede appunto la coscienza di sé. Il regista riconosce la difficoltà dello strumento cinema, sebbene si tratti di uno strumento potente, in questo ambito. Il cinema è l’arte che meglio permette la visione, una visione di immagini in movimento e accompagnate dal suono, quasi una ricostruzione attendibile della realtà. Ma è davvero possibile vedere quello che abbiamo nella testa? Il buco sulla fronte di Revok non sembra una soluzione, anche perché il problema della mente umana non è quello di nascondersi ma di faticare ad essere contenuta. Non serve, quindi, una perlustrazione materiale, che passi attraverso un foro, un pertugio, un modo di indagine che Cronenberg ha già efficacemente messo in scena nei suoi precedenti film. Il finale di Scanners sembra dirci che il problema non è nello strumento, nel cinema. E’ la mente umana ad essere insondabile. Quelli che si scoprono essere due fratelli, Cameron e Revok, sorta di due metà oscure (una meno oscura e l’altra decisamente di più; o no?) in conclusione si uniscono, si fondono, in un solo individuo. La scena della lotta decisiva tra i due è un altro passaggio topico del film, con Cameron che brucia in un fuoco che ne esalta la deriva messianica (la ricerca della verità, la castità nei confronti di Kim oltre al sacrificio finale) mentre a Revok le pupille diventano bianche, anticipando il vero significato del film. La conclusione dello scontro è la sintesi dei due personaggi in un unico individuo dall’aspetto di Revok ma che ha una voce ambigua, più simile a quella di Cameron. Il dettaglio principale è però lo sguardo del nuovo soggetto: dalla fronte dell’uomo è scomparso il terzo occhio mentre le normali pupille sono quelle chiare di Cameron, ma sembrano essere rimaste cieche come era diventato Revok nei momenti finali del combattimento telepatico. Da un intenso primissimo piano sugli occhi l’immagine dissolve infatti in un bianco accecante, prima di passare ai titoli di coda che scorrono come dati sullo schermo di un computer. Anche il cinema alza bandiera bianca, sembra dirci Cronenberg, di fronte all’insondabilità della mente umana. Quanto all’informatica, la mente meccanica, che si prende la briga si congedarci, aveva già subito una pesante lezione nella scena in cui Cameron fa saltare con i suoi poteri telepatici l’intero Centro Operativo. Un altro elemento che si aggiunge alla celeberrima e citata scena del film, per dirci che la mente umana ha davvero una potenza esplosiva. Come il cinema di David Cronenberg.
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