595_UN MALEDETTO IMBROGLIO ; Italia, 1959. Regia di Pietro Germi.
Pietro Germi, regista di classe sopraffina, interpretò tre
dei suoi film: l’ultimo fu Un maledetto
imbroglio, del 1959. In
seguito si calerà ancora nei panni d’attore, ma solo per la regia di altri. Può
naturalmente essere un caso, ma certamente Un
maledetto imbroglio si presta bene ad essere letto come una sorta di congedo, da parte di Germi, per un certo
tipo di partecipazione diretta all’attività di cineasta. Un maledetto imbroglio è tratto da un
romanzo di Carlo Emilio Gadda, Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana che, con le poche migliaia di copie
vendute, era però un best-seller nell’Italia del dopoguerra. E in parte già dal
cambio di titolo si può intuire come Germi trasformi il soggetto da romanzo
pretenzioso nella sua complessità linguistica a pragmatico film che richiama i
classici americani, proprio secondo la sua poetica. La difficoltà di
districarsi nella ingarbugliata trama gialla è così mutata da barocco pretesto
per raccontare una società viziosa nello specchio di un mondo corrotto in ogni
suo ramificazione, senza via di uscita, senza speranza, con una intrinseca
maggior insofferenza, proprio come nei noir
di Hollywood. Germi, nel film, è il commissario Ingravallo: un personaggio che
sembra preso di peso da uno dei citati polizieschi americani e, forse,
rappresenta simbolicamente anche il tentativo dell’autore di dare il suo
contributo, pratico, concreto, nel movimento cinematografico italiano. E questa
è una chiave di lettura interessante, che trova molte sponde che potrebbero in
effetti confermarla.
Innanzitutto già il titolo: l’Italia, del dopoguerra (ma
si potrebbe dire per esteso in senso generale) è davvero un maledetto imbroglio. Anche solo dal punto di vista linguistico:
sebbene la sua versione per lo schermo non abbia la ricercatezza formale del
romanzo di Gadda, anche nel film di Germi alcuni personaggi faticano a
comunicare tra loro (via radio, via telefono e anche di persona). Il problema,
per Germi, sembra anche essere che l’Italia non è un paese che può essere preso
seriamente, nemmeno al cinema: Anzaloni (Ildebrando Santafe), la vittima del
furto con cui comincia la storia o il maresciallo Saro (Saro Urzì) perennemente
intento a mangiare panini, non sono personaggi credibili in un giallo che ha
come epicentro narrativo un efferato omicidio.
Questa discrepanza è evidenziata
subito, già dai titoli di testa, con Un
maledetto imbroglio scritto a caratteri cubitali sulle immagini di piazza
Farnese a Roma, fontana in primo piano e bianco e nero della pellicola
fortemente contrastato: fin qui tutto perfetto per ambientare un noir coi controfiocchi. Sennonché la
musica e soprattutto l’uso del dialetto nel testo della canzone che accompagna
i credits iniziali, Sennò mi moro (di Carlo Rustichelli e
Pietro Germi, interpretata da Alida Chelli), fanno pensare a qualunque cosa
tranne che ad un poliziesco all’americana. Ingravallo prova a portare avanti
l’indagine come un commissario che si rispetti di un poliziesco di Hollywood,
con lo stesso piglio deciso e risoluto con cui Germi aveva fino allora
affrontato col suo cinema la società italiana. Ma si deve arrendere: qui non ci
sono intrighi o complesse vicende da risolvere.
Banali storie di corna,
viziosità diffuse, meschinità, personcine miserabili che si tradiscono una con
l’altra: quasi impossibile cavarci niente di serio. E in quel quasi, c’è forse
la buona fede dell’autore di turno: in Italia, finché il regista ci si illude,
forse si può anche fare un cinema di
genere serio, ma quando si renderà conto della sciatteria diffusa, non sarà
più credibile. E così, dopo In nome della
legge o Il brigante di Tacca del Lupo,
dove Germi manteneva un’attinenza seria al genere avventuroso, in Un maledetto imbroglio, è già costretto
a virare sulla commedia se non ancora nella farsa grottesca. Ma si potrebbe
fare altrimenti, se uno dei motori
dell’intrigo giallo è un personaggio come Valdarena, interpretato dal vitellone Franco Fabrizi?
Per non dire
dell’ambientazione principale, tipica della commedia
dell’arte, con l’attempato e rispettabile marito (Claudio Gora) che si
invaghisce della giovanissima domestica (Cristina Gaioni) che la bella moglie (Eleonora
Rossi Drago) incautamente si porta in casa. O del bizzarro Anzaloni,
preoccupato dell’apparenza più che della sostanza, anche quando quest’ultima è
costituita dalla merce rubata in casa sua. Ma se Germi tratta con malcelato
fastidio questa società, che nel 1959, a Roma, si prepara a essere immortalata
nella dolce vita felliniana, un
trattamento diverso lo riserva a quella protagonista del neorealismo. Che però è rappresentata dalla sola Assuntina (Claudia
Cardinale), perché il suo bellimbusto Diomede (Nino Castelnuovo) pur provenendo
dallo stesso strato sociale, ha già adottato i sistemi di quella borghesia che già se la spassa sulle sponde del
Tevere.
Mentre la poveretta fa i mestieri presso le facoltose famiglie, Diomede
arrotonda prestando i suoi servizi
alle turiste americane. Curiosamente, la colpa
più importante, in un film che almeno formalmente rimane un giallo imbastito su
un omicidio, è proprio del ragazzo, ovvero di colui che tradisce la propria
natura neorealista, per inseguire il modello di vita della classe agiata. Al commissario Germi non resta che arrestare Diomede, mettendo
sostanzialmente fine al neorealismo ma
arrendendosi, di fatto, alla dolce vita
borghese, da raccontare, d’ora in poi, col tono sarcastico della commedia
satirica. Alla povera Assuntina, l’ultimo omaggio: la chiusura, nella rincorsa
disperata, la vede nei panni della Magnani di Roma città aperta, capolavoro di Rossellini. Il neorealismo è
finito, ma senza che sia cambiato poi molto.
Claudia Cardinale
Cristina Gaioni
Eleonora Rossi Drago
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