609_UN UOMO, UNA CITTA'. Regia di Romolo Guerrieri.
Alcuni aspetti di Un uomo, una città di Romolo Guerrieri, film del 1974, lo rendono particolarmente interessante. Ad esempio l’idea, già anticipata dal titolo, di fornire uno spaccato di vita cittadina della Torino dei primi anni settanta, vista con gli occhi del commissario Michele Parrino (Enrico Maria Salerno). La storia del film non vede, infatti, il funzionario di polizia alle prese con un caso particolare ma, piuttosto, con una serie di situazioni, di indagini che si sviluppano con personaggi ricorrenti, che bene rendono l’idea dell’aria che tirava nel capoluogo piemontese nel periodo tanto tribolato a cavallo tra i giorni della contestazione e gli anni di piombo. La grande cura con cui vengono descritti i vari personaggi tradisce forse l’origine letteraria dell’opera: Il commissario di Torino, romanzo da cui Guerrieri ha tratto il suo film, è scritto a quattro mani dai giornalisti di cronaca Riccardo Marcato e Pietro Novelli. Dal commissario Parrino, al giornalista Paolo Ferrero (Luciano Salce), al brigadiere Polito (Gipo Farassino), all’aitante agente Balestrieri (Francesco Ferracini) sono tutte figure ben tratteggiate. Meno riuscite quelle femminili: un po’ sprecate sia Paola Quattrini nei panni di Anna, la fidanzata del commissario, che Françoise Fabian in quelli di Cristina, madre di un ragazzo coinvolto in un giro losco, di cui lo stesso commissario si invaghisce. C’è poi anche Tino Scotti nella parte del cavalier Battista, uno strampalato vecchietto che non si rassegna ad essere pensionato e vive nel culto della fabbrica Fiat e del suo padrone, l’Avvocato.
E’ una caduta di tono, una macchietta che viene troppo in fretta a noia perché non riesce a celare minimamente il moralismo qualunquista travestito da critica sociale tanto in voga all’epoca, e che permea tutta quanta la pellicola. Gli sberleffi distribuiti con nonchalance sia alla borghesia nobiliare della Torino-bene che al più popolano genere cinematografico poliziottesco, rivelano come gli autori non riescano a nascondere la propria paternalistica supponenza, che viene allo scoperto completamente quando Salerno guarda ripetutamente in macchina, rivolgendo la predica anche all’incredulo spettatore e non solo alla povera Cristina. Il tema sociale tanto sentito da Guerrieri è la questione meridionale che a Torino era particolarmente evidente; si trattava certo di un problema concreto ma non è ribaltando i luoghi comuni il modo in cui si può fare chiarezza, al massimo si crearono luoghi comuni contrari, come in effetti accadde (e ancora accade) troppo spesso nel cinema italiano. Non tutti i meridionali immigrati sono criminali, ma nemmeno si può mostrare che lo sono praticamente tutti i figli della borghesia. Perlomeno se si pretende di pontificare moralisticamente, cosa che, purtroppo, è il limite più evidente del film di Guerrieri. Il quale, per altro, nemmeno lo vuole nascondere, chiarendo i suoi intenti nella morale della canzone dell’osteria o nel citato sguardo nell’obiettivo del suo protagonista. Un peccato di superbia sempre in agguato, nel cinema (così come nella cultura) degli anni ‘70 del belpaese, che finisce per sciupare questo Un uomo, una città, un poliziesco con l’ambientazione tipica di una commedia (con tanto di musica adeguata) che, con un rigore maggiore, avrebbe potuto ambire ad essere un noir italiano sul modello dei polar francesi. Purtroppo Guerrieri snobba il poliziottesco (‘bella minchiata’ in commento ad un titolo giornalistico che lo invoca) ma non dimostra qui una cifra autoriale per fare qualcosa di più ambizioso.
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