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mercoledì 15 luglio 2020

DUELLO A BITTER RIDGE

599_DUELLO A BITTER RIDGE (The Man from Bitter Ridge); Stati Uniti, 1955. Regia di Jack Arnold.

Nel 1955, il giovane regista Jack Arnold, dopo aver ottenuto la qualifica di autore esperto in genere fantastico (con già tre eccellenti esempi all’attivo, Destinazione… Terra! e i primi due film con la Creatura della Laguna Nera) e non aver invece sfondato con il thriller (tra cui il flop Delitto alla televisione), si cimenta col western. L’approccio di Arnold al genere sembra dimesso: l’uso di colori fortemente accesi fin dai titoli di testa e la prima non esaltante sequenza della rapina alla diligenza, potrebbero lasciar intendere un testo disimpegnato per non dire infantile. Il cinema western del tempo, oltre ai classici, vedeva in effetti una florida produzione di B-movie, film visti più che altro da giovanissimi che si appassionavano alle storie dei cow-boy. Duello a Bitter Ridge si presenta quindi esattamente come uno di questi western di serie-B: al centro della storia c’è il buono, alto, forte, bello, con un aspetto soprattutto pulito. Questo ruolo, nel film, è appannaggio di Lex Baker che interpreta Jeff Carr, un investigatore che deve fare chiarezza in merito ad una serie di rapine, tra le quali quella citata che apre il film. Ma Arnold non è mai un autore banale, quindi il suo western di serie-B smette subito di essere una scontata carrellata di luoghi comuni del cinema di genere, perché la situazione è meno chiara di quanto ci si aspetti. Si è detto del tema delle rapine alle diligenze; essendo un prodotto di genere, ma non un giallo, è presto chiaro che il colpevole sia Ramse Jackman (John Dehner), tipico cattivo dai modi rispettabili che qui vuole addirittura essere eletto come nuovo sceriffo di Tomahawk, il paesino al centro della scena. Ma, in un quadro narrativo che sembra abbastanza semplice e prevedibile, Arnold introduce un tema poco frequentato dal cinema western, come l’intolleranza diffusa nella frontiera, terra di vaccari, per gli allevatori di pecore. 

Qui gli allevatori di pecore sono talmente mal sopportati che si sono organizzati in modo del tutto indipendente tanto che, al loro pseudo villaggio, hanno addirittura una scuola autonoma. Definiti rinnegati, forse per aver rinnegato la vita all’interno della comunità, sono apertamente accusati di compiere le rapine, pur senza alcuna prova: questo è l’anello di congiunzione tra le due tracce che, a questo punto, cominciano a confluire in un unico tema narrativo. Al che Arnold sdoppia ancora il racconto, affiancando una pista sentimentale alla vicenda avventurosa (definizione più appropriata visto la scarsa sponda investigativa che offre il blando intrigo). Tra gli allevatori di pecore c’è Cora (Mara Corday) una bella ragazza che incendia subito l’interesse del nostro protagonista, il baldo Jeff. Sulla giovane però, aveva già messo gli occhi il capo dei pecorai, Alec (Stephen McNally) e ora si apre un’altra contesa, stavolta tra i due pretendenti di Cora. Arnold sviluppa questi continui fronti che si aprono nella trama, facendoli convergere armoniosamente nel tracciato principale, senza perdere i fili secondari anzi, ripartendo gli spazi narrativi in modo molto democratico. Ad esempio, nel finale Alec, sebbene con molto rammarico, deve cedere il passo a Jeff, che riesce a far breccia nel cuore di Cora; ma, se il suo personaggio perde la disputa amorosa, Arnold gli concede il palcoscenico principale nello scontro a fuoco. E’ infatti il capo dei pecorai a saldare il conto al cattivo, mentre Jeff si deve accontentare, per altro con uno stratagemma di buona fattura, di chiudere i giochi con l’ultimo rimasto dei fratelli poco svegli del boss criminale.


In un genere classico, come il western, che aveva però già un’origine alternativa, Arnold prova comunque a gettare il suo sguardo fuori dal coro. E non è impresa semplice, in un genere, quello della frontiera, che in gioventù aveva già abbondantemente celebrato i banditi come fossero eroi: dai film su Jesse James, al Ringo di Ombre Rosse, agli outlaw della terra dei senza legge, i film che rovesciavano le carte in tavola erano quasi la norma. Quando poi il genere era maturato, raggiungendo la sua epoca classica, i ruoli si erano stabilizzati, mantenendo però la matrice turbolenta dei suoi eroi, che era anche la migliore definizione della maniera americana di intendere le cose. 

Arnold, che nel cinema fantastico aveva già dimostrato uno sguardo lucido e critico capace di ribaltare il punto di vista canonico, rivaluta il ruolo degli allevatori di pecore, che nessuno, o quasi, si era mai sognato di considerare interessante. Va detto che lo spunto in questione è preso solo per parlare di una categoria ghettizzata e perseguitata, ma non sono approfondite le ragioni del contrasto tra gli allevatori di pecore e quelli di vacche. Evidentemente ad Arnold non interessano le questioni specifiche, ma si concentra sull’inclinazione umana di schierarsi uno contro l’altro, senza provare a capirsi e a comprendersi. 

Inoltre, il suo sguardo sempre acuto, e in questo caso anche ironico, è riscontrabile nelle scene in cui, in mezzo alle dozzine di cartelli elettorali per la carica di sceriffo inneggianti a Jackman e recanti il suo motto legge e ordine, si scatena un autentico putiferio. Da sempre l’epopea western è considerata la culla di un modo di intendere la figura sociale di riferimento, che sia il sindaco o il governatore, piuttosto autoritaria. Che nell’ovest si andasse per le spicce, era anche comprensibile, visto l’ambiente selvaggio; era però curioso come, molto spesso, una volta raggiunto il potere, coloro i quali si erano costruiti una posizione sociale di rilievo a suon di revolverate, divenivano paladini di ordine e disciplina. 

Come appunto in Duello a Bitter Ridge.
Quello di Arnold è comunque un western un po’ atipico, le cose vanno come devono andare d’accordo, ma l’autore sembra che ci voglia dire che in genere ci si sia dimenticati di qualcuno, nell’epica del Far West. Degli allevatori di pecore si è già detto, ma anche il ruolo femminile è subito rimarcato nella storia, con Cora che salva la vita un paio di volte al protagonista e dimostra un senso civico sconosciuto a molti uomini del film. Per altro il finale ci dice, abbastanza esplicitamente, che il ruolo della donna non è certo quello della pistolera, anche perché perfino il protagonista maschile rinuncia lui stesso all’uso delle armi. La violenza diffusa nell’ovest è quindi criticata ma, sia chiaro, c’è anche rispetto per il vecchio west,  incarnato nella figura di Walter Dunham (Trevor Bardette), lo sceriffo ancora in carica. Tuttavia il protagonista che, contrariamente dal solito, non va verso ovest ma piuttosto da San Francisco, California, ritorna verso la frontiera, ossia verso est, sembra davvero voler dare uno sguardo all’indietro: fare una sorta di bilancio, del resto è un investigatore ma anche una specie di contabile. Tornare indietro: negli Stati Uniti, il paese che va sempre avanti, senza fermarsi mai; sembra quasi una bestemmia. Ma chi, se non Jack Arnold, poteva rovesciare il motto go west, e spingersi quasi a fare un esame di coscienza al western, e quindi all’America, già negli anni 50?    





Mara Corday















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