545_LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO ; Italia, 1976. Regia di Pupi Avati.
Autentico gioiello della produzione italiana, La casa dalle finestre che ridono è un
film che legittima la sua piena appartenenza all’horror grazie a momenti di assoluto terrore che irrompono nella
narrazione lenta e rarefatta. Se lo prendiamo come film in sé stesso, quello di
Pupi Avati è un lavoro di prim’ordine: misurato nell’ambientazione e nella
costruzione della trama, riesce a creare inquietudine già con il montaggio,
l’uso efficace delle inquadrature e la morfologia dei volti dei personaggi. Notevoli
poi le scene di suspense suggerita,
ovvero quando l’attesa si concretizza con quel calibrato pizzico di ritardo che
garantisce la pelle d’oca alta un centimetro allo spettatore. Ma è anche quando
accelera che il regista dà sfoggio di una visionarietà violenta ma al contempo
sobria, che non sfocia mai in quel senso
di posticcio, tipico di moltissimi esempi del thriller all’italiana in voga ai tempi. L’artificiosità degli
effetti speciali, in cui troppo spesso autori celebrati del nostro cinema di genere incappano, è accuratamente
evitata da Avati che, per altro, non lesina ad infierire colpi ad effetto
quando è il momento. Quindi La casa dalle
finestre che ridono è certamente un bel film d’atmosfera e di paura; ma
l’aspetto più interessante, ed inquietante, dell’opera è un altro. Perché il
film di Avati è spiazzante anche per un motivo più profondo, che rimette in
discussione tutto il nostro punto di vista, se così si può chiamare, nei
confronti del cinema dell’orrore nel belpaese.
Se il gotico italiano degli anni
sessanta affermava una volontà del cinema di casa nostra di riprendersi la
facoltà della narrativa di genere,
dando ovviamente corpo alle sensazioni più angoscianti, negli anni settanta il
cosiddetto giallo, il thriller
all’italiana interpretato da Dario Argento e compagni, aveva anche una matrice
più smaccatamente sociologica. Materializzava gli effetti della contestazione
sessantottina, anticipando la violenza dilagante nei successivi anni di piombo, mettendo al centro della
scena la borghesia e, soprattutto, gli usi e costumi del modello capitalista,
la vita metropolitana dell’uomo moderno. Simbolo di questo approccio possono
essere la celeberrima bottiglia di J&B scotch whisky che si vedeva in ogni
film, le eleganti e snelle figure femminili e soprattutto l’ambientazione
cittadina.
Gli efferati delitti si consumavano quasi sempre in città: Torino,
Roma, Venezia, spesso anche all’estero. Se da un lato c’era l’immedesimazione
dello spettatore (e del regista prima di lui), nel modello occidentale
raccontato dal cinema hollywoodiano, il rischio era che l’orrore,
l’inquietudine, fossero intesi come propri della società evoluta. La cosa era
certamente funzionale, perché lo spettatore italiano era abituato
all’immaginario della società occidentale borghese, proprio per averlo appreso
dal cinema americano. Ma l’Italia, negli anni settanta, era un paese
dove la popolazione, in maggioranza, viveva ancora in provincia, se non in
campagna, certamente in capoluoghi che poco avevano a che fare con le moderne e
lussuose residenze teatro degli omicidi del cinema giallo. In questo senso si creava una sorta di separazione, tra la
vita di tutti i giorni e quanto visto sullo schermo che, per quanto realistico
e credibile, non risultava poi così affine al comune spettatore. E’ in questo
contesto che arriva La casa dalle
finestre che ridono.
Certo, non era il primo film dell’orrore italiano
ambientato in campagna, sia chiaro; ad esempio qualche anno prima c’era stato Non si sevizia un paperino di Lucio
Fulci, che sceglieva un paesino del mezzogiorno per la sua tragica storia.
Avati invece opta per la bassa pianura padana, un’area del nord, nient’affatto
arretrata dal punto di vista socioeconomico, solamente rurale e legata alle
tradizioni culturali del nostro passato. E per questo il film risulta così
disturbante: perché vedendolo, ci si sente se non a casa propria, perlomeno in
quella dei nonni, degli zii, o di qualche parente, insomma. L’ambientazione è
molto famigliare, è la vera Italia, almeno lo è per la maggior parte degli
italiani, quella che Avati mostra sullo schermo. E il fatto che il terrore sia
seminato, a seconda delle interpretazioni, da un prete, da due donne, da
persone anziane, rafforza ulteriormente il concetto: il male è dentro di noi, perché è nelle nostre radici, nella nostra
cultura, nelle nostre tradizioni. Qui non c’è quel passaggio, per cui dopo aver
visto la macelleria tipica del cinema dell’orrore italiano nelle lussuose ville
postmoderne, ci si poteva tranquillizzare rientrando nelle nostre umili e più
spartane dimore. No, La casa dalle
finestre che ridono potrebbe essere proprio casa nostra.
E adesso non andate fuori a controllare che sulle vostre
persiane non sia dipinto un sorriso.
Francesca Marciano
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