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giovedì 2 aprile 2020

LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO

545_LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO ; Italia, 1976. Regia di Pupi Avati.


Autentico gioiello della produzione italiana, La casa dalle finestre che ridono è un film che legittima la sua piena appartenenza all’horror grazie a momenti di assoluto terrore che irrompono nella narrazione lenta e rarefatta. Se lo prendiamo come film in sé stesso, quello di Pupi Avati è un lavoro di prim’ordine: misurato nell’ambientazione e nella costruzione della trama, riesce a creare inquietudine già con il montaggio, l’uso efficace delle inquadrature e la morfologia dei volti dei personaggi. Notevoli poi le scene di suspense suggerita, ovvero quando l’attesa si concretizza con quel calibrato pizzico di ritardo che garantisce la pelle d’oca alta un centimetro allo spettatore. Ma è anche quando accelera che il regista dà sfoggio di una visionarietà violenta ma al contempo sobria, che non sfocia mai in quel senso di posticcio, tipico di moltissimi esempi del thriller all’italiana in voga ai tempi. L’artificiosità degli effetti speciali, in cui troppo spesso autori celebrati del nostro cinema di genere incappano, è accuratamente evitata da Avati che, per altro, non lesina ad infierire colpi ad effetto quando è il momento. Quindi La casa dalle finestre che ridono è certamente un bel film d’atmosfera e di paura; ma l’aspetto più interessante, ed inquietante, dell’opera è un altro. Perché il film di Avati è spiazzante anche per un motivo più profondo, che rimette in discussione tutto il nostro punto di vista, se così si può chiamare, nei confronti del cinema dell’orrore nel belpaese

Se il gotico italiano degli anni sessanta affermava una volontà del cinema di casa nostra di riprendersi la facoltà della narrativa di genere, dando ovviamente corpo alle sensazioni più angoscianti, negli anni settanta il cosiddetto giallo, il thriller all’italiana interpretato da Dario Argento e compagni, aveva anche una matrice più smaccatamente sociologica. Materializzava gli effetti della contestazione sessantottina, anticipando la violenza dilagante nei successivi anni di piombo, mettendo al centro della scena la borghesia e, soprattutto, gli usi e costumi del modello capitalista, la vita metropolitana dell’uomo moderno. Simbolo di questo approccio possono essere la celeberrima bottiglia di J&B scotch whisky che si vedeva in ogni film, le eleganti e snelle figure femminili e soprattutto l’ambientazione cittadina. 

Gli efferati delitti si consumavano quasi sempre in città: Torino, Roma, Venezia, spesso anche all’estero. Se da un lato c’era l’immedesimazione dello spettatore (e del regista prima di lui), nel modello occidentale raccontato dal cinema hollywoodiano, il rischio era che l’orrore, l’inquietudine, fossero intesi come propri della società evoluta. La cosa era certamente funzionale, perché lo spettatore italiano era abituato all’immaginario della società occidentale borghese, proprio per averlo appreso dal cinema americano. Ma l’Italia, negli anni settanta, era un paese dove la popolazione, in maggioranza, viveva ancora in provincia, se non in campagna, certamente in capoluoghi che poco avevano a che fare con le moderne e lussuose residenze teatro degli omicidi del cinema giallo. In questo senso si creava una sorta di separazione, tra la vita di tutti i giorni e quanto visto sullo schermo che, per quanto realistico e credibile, non risultava poi così affine al comune spettatore. E’ in questo contesto che arriva La casa dalle finestre che ridono


Certo, non era il primo film dell’orrore italiano ambientato in campagna, sia chiaro; ad esempio qualche anno prima c’era stato Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che sceglieva un paesino del mezzogiorno per la sua tragica storia. Avati invece opta per la bassa pianura padana, un’area del nord, nient’affatto arretrata dal punto di vista socioeconomico, solamente rurale e legata alle tradizioni culturali del nostro passato. E per questo il film risulta così disturbante: perché vedendolo, ci si sente se non a casa propria, perlomeno in quella dei nonni, degli zii, o di qualche parente, insomma. L’ambientazione è molto famigliare, è la vera Italia, almeno lo è per la maggior parte degli italiani, quella che Avati mostra sullo schermo. E il fatto che il terrore sia seminato, a seconda delle interpretazioni, da un prete, da due donne, da persone anziane, rafforza ulteriormente il concetto: il male è dentro di noi, perché è nelle nostre radici, nella nostra cultura, nelle nostre tradizioni. Qui non c’è quel passaggio, per cui dopo aver visto la macelleria tipica del cinema dell’orrore italiano nelle lussuose ville postmoderne, ci si poteva tranquillizzare rientrando nelle nostre umili e più spartane dimore. No, La casa dalle finestre che ridono potrebbe essere proprio casa nostra.
E adesso non andate fuori a controllare che sulle vostre persiane non sia dipinto un sorriso.     







Francesca Marciano






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