556_I FRATELLI KARAMAZOV ; Italia 1969. Regia di Sandro Bolchi.
Spesso, nelle trasposizioni audiovisive di romanzi, si dice
che il risultato non sia degno dell’originale su carta. Il che è anche
pacifico, essendo un romanzo, in linea generale, concepito per essere un testo
scritto e, quindi, che vada a sfruttare le peculiarità della letteratura, una
per tutte la tempista di fruizione. La Rai ,
nel periodo tra gli anni 50 e 70, trovò una formula soddisfacente, quella degli
sceneggiati, sfornando una serie di
capolavori. Uno degli autori i cui romanzi furono prediletti come soggetti a
cui attingere, fu il geniale scrittore russo Fëdor Dostoevskij. Nel 1969 fu la
volta di I fratelli Karamazov sotto la
regia dell’affidabile Sandro Bolchi, per un’opera che si presentò con i crismi
del colossal televisivo. Il cast schierato era impressionante per numero e
qualità degli interpreti, la maggior parte dei quali di solida formazione
teatrale. Gli sceneggiati Rai dell’epoca, per limiti tecnici e economici, non
consentivano, infatti, di emulare le raffinatezze tipiche del cinema. In
particolare il taglio al montaggio, soprattutto per quel che concerneva le
riprese d’interni, era un processo delicato per via del supporto magnetico e
veniva limitato al minimo indispensabile. In pratica si otteneva una serie di piani-sequenza
in cui, ad animare la scena e a dargli ritmo, serviva l’attitudine teatrale
degli attori sullo schermo. Anche per via della grana dell’immagine, si
trattava di una registrazione, che conferiva alle immagini una sfumatura quasi
onirica, il risultato era praticamente ipnotico. L’origine nobile dei testi,
nel caso de I fratelli Karamazov l’autore,
come noto, era il maestro Dostoevskij, era garanzia non solo sulla qualità
generale dell’opera, ma anche nello specifico dei personaggi e dei loro
rapporti, che sullo schermo davano luogo a lunghe scene zeppe di dialoghi che
ammaliavano lo spettatore irretendolo in modo ineludibile.
L’autore russo aveva
la sublime capacità di cogliere l’animo umano nel profondo e questo gli
permetteva, in seguito, tutta una gamma di esagerazioni comportamentali possibili,
senza che venisse mai meno la credibilità dei suoi personaggi. E’ anche per
questa sua caratteristica che le rappresentazioni degli sceneggiati Rai dei
suoi scritti furono tanto fortunate: gli interpreti di alto rango ingaggiati
interpretavano al meglio sia la natura umana dostoevskijana e, con la loro enfasi teatrale, assecondavano anche
le esternazioni estreme che i ruoli richiedevano. Ne I fratelli Karamazov spicca su tutte quella di Umberto Orsini per
Ivàn Karamazov: la sua allucinata interpretazione, in particolar modo nel
finale, ci lascia nel totale sgomento. Ivàn incarna, semplificando (ma
rifacendoci al trattamento televisivo), la componente razionale di Dostoevskij,
laddove Dmitrij (nello sceneggiato Corrado Pani) è l’individuo con le sue
passioni umane e Aleksèj (Carlo Simoni) ne è la vena spirituale: ma com’è
quindi possibile che la follia e l’isteria che esplodono nel finale siano
connesse proprio al paladino della ragione, che avrebbe prevedibilmente dovuto invece
negarle? Qui sta la grandezza dell’autore russo, in queste apparenti
contraddizioni che sono, al contrario, il risultato dell’estrema capacità di
cogliere il vero nocciolo della natura umana, andando fino al profondo senza curarsi
degli aspetti secondari e marginali.
Nelle suggestive immagini dello
sceneggiato Rai facciamo quindi questo viaggio quasi psichedelico, ma di una
psichedelica lenta, avvolgente, suadente, ed inesorabile. Il rapporto tra i tre
fratelli, le passionalità di Dmitrij, l’acume di Ivàn, la serafica serenità di
Aleksèj, in particolar modo in relazione con il padre Fëdor (Salvo Randone,
magistrale), un uomo losco e intrallazzatore, sono l’architettura portante del
racconto. Poi c’è Smerdjakov (Antonio Salines), il Karamazov illegittimo, sorta
di anima oscura di freudiana natura, che cerca in tutti i modi di insinuarsi a
livello degli altri e, come accennato, trova sorprendentemente la sponda
proprio nel più razionale dei tre. Non mancano, e come potrebbe in Dostoevskij,
le figure femminili, tra cui la principale è Grušenka (una splendida Lea Massari).
E’ la donna dostoevskijana per
eccellenza, che rigurgita voglia di vivere da ogni poro della pelle e che,
nelle sue derive più lussuriose, può anche destare qualche perplessità; ma va
detto che il suo atteggiamento è legato anche al ruolo in cui, nella società
del tempo, era relegata la donna (sebbene non così diverso da quello attuale).
Nel corso della storia emergeranno, infatti, sue qualità umane insospettabili, perlomeno
dopo il primo approccio. Un po’ lo stesso percorso dell’altra donna della
vicenda, Katerina (Carla Gravina), lei certamente più conforme alla norma ma
non meno discutibile in molte sue scelte. Nel finale avrà comunque modo di
ravvedersi. C’è una sincera ammirazione, anche per le componenti più vitali, diciamo così, della figura
femminile, tipiche di Dostoevskij e che, con merito, la
Rai del canale nazionale, per uno sceneggiato rivolto quindi alla totalità del
pubblico televisivo, non andò a moderare o, peggio, censurare. Dal punto di
vista narrativo la storia è un crescendo che culmina con il processo, e la
suspense per il verdetto va ad alimentare la tensione narrativa completando,
anche sotto questo aspetto, l’opera, che si può così ben fregiare del titolo di
capolavoro.
DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I FRATELLI KARAMAZOV
a cura di Antonio Gatti
Quando il romanzo comincia a uscire, a puntate, sulle pagine
del Messaggero Russo, era
il 1879: Dostoevskij entrava nella fase finale della sua vita. Erano ormai
lontani gli anni in cui il grande autore viveva vagabondando per la Russia e per l’Europa,
obbligato dalle ristrettezze economiche a scrivere pagine su pagine, pubblicate
coi mezzi e sulle riviste più disparate. L’enorme successo dei capolavori Delitto e Castigo, L’Idiota e I demoni, gli
permetteva ora di vivere agiatamente a San Pietroburgo e dintorni. I trionfi
letterari gli avevano conferito quella fama che sfocerà nel 1880 nel tripudio
della folla in occasione del suo discorso in onore di Puskin. L’autorità morale
della quale godeva in quel periodo lo rese un punto di riferimento per una
larga fetta del pubblico letterario russo e non solo per questioni puramente
letterarie, ma anche morali, politiche, religiose: come disse il suo grande
biografo Joseph Frank, in quel periodo Dostoevskij vestì il manto del profeta. Ma proprio
durante questi anni, accanto al riconoscimento della sua grandezza da parte dei
lettori dentro e fuori la
Russia , Dostoevskij dovette affrontare anche la prospettiva
del tramonto della sua vita, quando gli venne diagnosticato un enfisema
polmonare. Questi elementi -il raggiunto benessere materiale, l’autorità morale
della quale godeva, e l’avvicinarsi della morte- concorsero probabilmente tutti
a convincere Dostoevskij a tirare un po’ le somme di tutti i grandi temi
sviluppati nei romanzi precedenti in un’ultima grande opera, che avrebbe
costituito in qualche modo l’ultima parola al mondo del profeta, dello
scrittore, dell’uomo. I Karamazov appunto. Sfondo del romanzo, e spina dorsale di esso, è un tema che
Dostoevskij aveva già messo in campo più volte, specie ne L’Idiota e ne I Demoni: cosa accade all’uomo
quando tronca le sue radici, quando strappa i legami con la sua famiglia, con
la sua patria, con la sua cultura. Con il suo Dio.
E’ libertà quella che consegue? O un destino ancora peggiore della schiavitù?
Questa volta Dostoevskij affronta il tema in maniera diretta, violenta: il rinnegamento delle proprie origini avviene nella maniera più drastica possibile, col parricidio. Un tema per l’epoca forte, basti pensare all’entusiasmo col quale un altro spregiudicato indagatore delle dinamiche psicologiche interne all’uomo e al suo ambiente familiare, Freud, commentò il romanzo. I protagonisti sono i Karamazov; una famiglia attraverso la quale Dostoevskij vuole rappresentare le pulsioni e le aspirazioni interne di ciascun uomo, così forti eppur così contradditorie. Chi di noi non è mai stato l’impulsivo Dimitrij, mai in grado di calcolare le conseguenze delle sue azioni, pronto solo a vivere il qui e ora nella maniera più totale possibile, sia nel bene che nel male? Chi di noi non è mai stato, nello stesso tempo, l’ombroso Ivan, pronto a mettere tutto in discussione con la sua logica, la quale sembra concludere che, in fondo, non ci sia nulla per cui valga la pena combattere davvero, e che questa stessa conclusione sia un privilegio per pochi eletti “uomini superiori” (ricordiamo che pochissimi anni dopo la pubblicazione dei Karamazov, Friedrich Nietzsche, un altro grande estimatore di Dostoevskij, presenterà al mondo lo Zarathustra, col suo concetto di “superuomo nichilista”)? Ma anche, chi di noi non è mai stati stato un Aleksej (Alëša), che nonostante tutto il male e lo schifo che vede svolgersi sotto i suoi occhi, vuole continuare a credere che il bene trionferà comunque, alla fine? E, infine, chi di noi non è stato anche Smerdjakov, con il suo risentimento, col suo bisogno di riversare la responsabilità del proprio astio, delle proprie azioni, su un capo? Questi non sono solo personaggi, ma sono i contraddittori, conflittuali aspetti della natura umana, che cercano eternamente di parlarsi dentro di noi, anelando l’uno di essere “superiore all’altro”, ma fallendo sistematicamente in entrambi gli scopi.
Questa volta Dostoevskij affronta il tema in maniera diretta, violenta: il rinnegamento delle proprie origini avviene nella maniera più drastica possibile, col parricidio. Un tema per l’epoca forte, basti pensare all’entusiasmo col quale un altro spregiudicato indagatore delle dinamiche psicologiche interne all’uomo e al suo ambiente familiare, Freud, commentò il romanzo. I protagonisti sono i Karamazov; una famiglia attraverso la quale Dostoevskij vuole rappresentare le pulsioni e le aspirazioni interne di ciascun uomo, così forti eppur così contradditorie. Chi di noi non è mai stato l’impulsivo Dimitrij, mai in grado di calcolare le conseguenze delle sue azioni, pronto solo a vivere il qui e ora nella maniera più totale possibile, sia nel bene che nel male? Chi di noi non è mai stato, nello stesso tempo, l’ombroso Ivan, pronto a mettere tutto in discussione con la sua logica, la quale sembra concludere che, in fondo, non ci sia nulla per cui valga la pena combattere davvero, e che questa stessa conclusione sia un privilegio per pochi eletti “uomini superiori” (ricordiamo che pochissimi anni dopo la pubblicazione dei Karamazov, Friedrich Nietzsche, un altro grande estimatore di Dostoevskij, presenterà al mondo lo Zarathustra, col suo concetto di “superuomo nichilista”)? Ma anche, chi di noi non è mai stati stato un Aleksej (Alëša), che nonostante tutto il male e lo schifo che vede svolgersi sotto i suoi occhi, vuole continuare a credere che il bene trionferà comunque, alla fine? E, infine, chi di noi non è stato anche Smerdjakov, con il suo risentimento, col suo bisogno di riversare la responsabilità del proprio astio, delle proprie azioni, su un capo? Questi non sono solo personaggi, ma sono i contraddittori, conflittuali aspetti della natura umana, che cercano eternamente di parlarsi dentro di noi, anelando l’uno di essere “superiore all’altro”, ma fallendo sistematicamente in entrambi gli scopi.
Nel romanzo vediamo questo eterno moto nel tentativo dei
fratelli Karamazov di interagire fra di loro, di stringere amicizia, alleanza,
senza però mai riuscirci e fallendo nel prevenire la catastrofe che incombe
sull’intera famiglia. Questo aspetto è colto molto bene anche dallo
sceneggiato: Bolchi e gli attori riescono efficacemente a far intuire allo
spettatore questo anelito dei Karamazov alla fratellanza, all’unione
spirituale, anelito frustrato ogni volta a causa della superiorità morale che
ognuno di essi, persino l’innocente Alëša, pretende di avere
sull’altro. In questo è veramente bravo specialmente Umberto Orsini, Ivan nello
sceneggiato, che riesce a trasmettere tutto il suo dolore nel non essere
riuscito a far breccia nel cuore profondo di Alëša. Il conflitto interiore
dell’uomo, simboleggiato dai Karamazov, cerca di superare sé stesso aspirando a
una libertà totale, nella quale “tutto è consentito”, anela a un universo
quindi dove ogni scelta sia legittima in quanto, fondamentalmente, non si deve
rendere conto a nessuno, nemmeno a sé stessi. Per ottenere questa libertà è
necessario, però, troncare prima tutti i legami col proprio passato, con le
radici: è necessario il parricidio per unire i Karamazov. Possiamo notare come
se Smerdjakov è l’autore materiale del delitto, e Ivan si attribuisce la
responsabilità morale, Dimitrij ne è in un certo senso l’istigatore, in quanto
dà origine alla controversia familiare, e Alëša non riesce a impedirlo. Tutti i
Karamazov sono coinvolti, in misura diversa, nel parricidio. Tutte le pulsioni
umane più profonde anelano al regno del “tutto è concesso”, della libertà
morale e etica assoluta. Ce lo grida in faccia Ivan quando chiede a tutti, noi
compresi, “chi non desidera la morte
del proprio padre?”
Non è un lavoro facile, per il regista Sandro Bolchi, questo
sceneggiato. Molti monologhi, lunghi, appassionati. Personaggi molto sopra le
righe. Il risultato è però eccellente. C’è un sacrificio per me, come vedremo,
doloroso di un aspetto del romanzo, ma per tutti gli altri aspetti lo
sceneggiato legge veramente nel cuore del libro. Gli attori sono bravissimi,
impressionante il già citato Umberto Orsini, magistrale il suo monologo
sul Grande Inquisitore. Ma anche
Corrado Pani rende al meglio il sanguigno Dimitrij, forse la figura più
spontanea del romanzo, Antonio Salines entra nei panni di Smerdjakov con tutto
il suo allucinato, rancoroso comportamento, e Salvo Randone interpreta in
maniera perfetta il padre Fedor, un padre che noi vediamo solo attraverso gli
occhi dei figli, come ridicolo, oppressivo, fastidioso, sorpassato. Qualcosa
che impedisce la “libertà” insomma, che persino entra in competizione, qualcosa
di cui ci si deve liberare. Ma, quindi, è proprio così? Per ottenere il tanto anelato
“tutto è concesso” è necessario passare per il parricidio? Per la negazione delle proprie radici? Se seguiamo
il filo del romanzo, il parricidio non porta alla libertà, ma alla morte e alla
follia. Smerdjakov si impiccherà (morendo quindi coi piedi separati dalla terra
russa, che egli ha rinnegato); Ivan alla fine in un folle monologo si
attribuirà la responsabilità morale del delitto. No, la soluzione non è il
“tutto è concesso”; questo è al contrario un peso insopportabile per l’uomo; se
tutto è concesso nulla allora vale la pena; gli istinti non sono liberati, ma
al contrario affondano nell’indifferenza o nella follia.
Dostoevskij dà un’alternativa al parricidio; una soluzione
che ne è precisamente il contrario. Essa si trova indicata in molti luoghi del
romanzo, ma con più chiarezza nella vita dello starec Zosima, purtroppo solo
accennata nello sceneggiato. Questa alternativa al parricidio è l’accettazione
delle contraddizioni e dei peccati, non solo propri ma di tutti. E’ la difficilissima
palestra dell’amore, che Dostoevskij identificava specialmente nel
cristianesimo ortodosso, amore per tutto il creato, specie per i
peccatori, amore anche – e qua è la parte più difficile- per sé stessi nella
serena accettazione delle proprie origini, delle proprie pulsioni, della
propria individualità. Solo così si potrà accedere a quella vera libertà che
consiste nella visione della consistenza divina del Creato, come dice un
illuminante colloquio contenuto nel capito dedicato alla vita del padre Zosima: «È vero ‑gli risposi ‑
tutto è bello e buono, perché tutto è verità. Guarda il cavallo, questo nobile
animale che vive accanto all'uomo, o il bove, triste e austero, che gli dà il
nutrimento e lavora per lui, guarda i loro musi: quanta mansuetudine, quanto
attaccamento all'uomo, che spesso li picchia senza pietà, quanta bontà e quanta
fiducia, e quanta bellezza nei loro musi! E poi, è commovente pensare che loro
non hanno nessun peccato, perché tutto al mondo è perfetto, tutto è innocente,
meno l'uomo, e Cristo è con loro prima che con noi». «Ma è possibile ‑ mi
chiese il giovane ‑ che Cristo sia anche con loro?». «E come potrebbe essere
diversamente? ‑ gli risposi. ‑ Il Verbo è per tutti; ogni creatura, ogni
essere, ogni fogliolina tende verso il Verbo, inneggia a Dio e piange le sue
lacrime al Cristo, e lo fa senza saperlo, con il mistero della sua esistenza
innocente.
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