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sabato 18 aprile 2020

LA CASA ROSSA

553_LA CASA ROSSA (The Red House); Stati Uniti 1947. Regia di Delmer Daves.


A dirigere La casa rossa troviamo quel Delmer Daves che, al tempo, dopo l’ottimo esordio (Destinazione Tokio, 1943) stava prendendo le misure con il mestiere di regista: è il 1947 e con il successivo La fuga, strepitoso noir dello stesso anno, si avrà un’ulteriore conferma della pasta del cineasta nato a San Francisco. Probabilmente, nella valutazione di La casa rossa, i meriti di Daves, che pure ci sono, finiscono un po’ offuscati dalla monumentale interpretazione di Edward G. Robinson. L’attore di origine rumena era al suo apice, avendo interpretato proprio in quegli anni in modo magistrale alcuni tra i maggiori capolavori del tempo (La donna del ritratto e La strada scarlatta di Fritz Lang o La fiamma del peccato di Billy Wilder, giusto per capirci). Ne La casa rossa Robinson dà vita ad un personaggio, Pete Morgan, mite in apparenza ma tremendamente malsano e che dietro la maschera di buon padre adottivo nasconde l’animo criminale e pervertito. La statura di Robinson, come attore, si può intuire anche dal fatto che La casa rossa è il primo film della sua casa di produzione (in società con Sol Lesser) ma l’interprete non ne approfitta per ritagliarsi un ruolo appariscente quanto, piuttosto, per prendersi la possibilità di dare maggiore intensità al proprio lato ambiguo. Qui va messa a referto l’abilità di Daves, che poi si ritroverà spesso, in modo alquanto inconsueto, nei suoi western, di esplorare gli aspetti torbidi della comunità americana senza varcare i limiti della censura. La casa rossa è un film di difficile definizione: figurativamente si presenta come un noir di ambientazione rurale (e quindi atipico), ha però i presupposti del thriller carico di tensione e alcuni spunti degni di un horror

Di nuovo va rimarcata la bravura di Daves in regia per la capacità di armonizzare queste diverse anime, aiutato in questo da autori di primissimo rango come Miklós Rózsa alle musiche e Bert Glennon a cui si deve la fotografia in bianco e nero. Il Pete interpretato da Robinson è un attempato fattore un po’ malmesso (ha una gamba di legno) che vive con la sorella Ellen, (l’inquietante  Judith Anderson; ricordate la governante in Rebecca, la prima moglie, 1940, di Alfred Hitchcock?) e Meg (Allen Roberts), una sorta di figlioccia adottiva. Una ben strana famiglia, quindi: non marito e moglie ma fratello e sorella e una ragazza che è adottata non si sa bene a che titolo. In realtà Meg è figlia della donna amata da Pete, ma questo è già parte del terribile mistero celato ne La casa rossa, un’abitazione nascosta nel bosco che l’uomo non permette a nessuno di visitare e di cui nega perfino l’esistenza. 


E quando qualcuno parla di attraversare quel bosco, con l’inconsapevole rischio di imbattersi nella misteriosa costruzione, ad esempio Nath (Lon McCallister), emerge la natura ambigua, duplice, di Pete che si trasforma da amabile contadino in inquietante e pericoloso individuo. Nella capacità di mostrare una doppia anima Robinson è naturalmente superlativo e Daves, coautore anche della sceneggiatura, rincara la dose disseminando la storia di indizi per segnalare la natura duplice della vicenda oltre che del personaggio cardine. I pochi interpreti della storia formano una serie sorprendente di coppie che rimarcano infatti il tema: Pete, già duplice di suo, vive in coppia con Ellen, che ha pure un’anima ambigua; e sono fratello e sorella e non coniugi, altro elemento che ha un che di torbido, date le circostanze. 

Idealmente l’uomo avrebbe voluto accoppiarsi con la madre di Meg; donna che non compare effettivamente nella storia, essendo già morta, se non nei ricordi e nella follia di Pete, che la rivede nella figlia. Meg e sua madre costituiscono quindi un abbinamento, oltre che naturale anche nella pazzia di Pete; la madre aveva chiaramente un altro uomo, il padre della ragazza, coppia nella vita (e nella morte). Dal canto suo Meg forma un'altra coppia andando a soffiare Nath, il ragazzo che dava una mano a Pete, alla fidanzata Tibby (una già sontuosa Julie London). Meg e Tibby sono quindi la coppia di ragazze che si contendono Nath; ma c’è anche Teller (Rory Clahoun), l’aitante guardiano del bosco proibito che flirta con Tibby e si scontra con Nath. 


E se questa chiave di lettura può sembrare una forzatura, visto che è nella natura umana l’attitudine di accoppiarsi, va sottolineato come l’intreccio si soffermi ad abbinare anche i personaggi meno importanti, come ad esempio il dottore, di cui si specifica avesse un’intesa con Ellen mentre la madre vedova di Nath, (Ona Munson) per poter uscire da una storia a cui sarebbe stata forse d’intralcio, viene spinta a maritarsi proprio dal figlio. E poi la gamba che Meg si rompe che va a fare il paio con quella di legno di Pete, ci indica che si, il tema del doppio è forzato ma nel senso di malsano, quasi incestuoso, visto che l’uomo si spaccia per padre adottivo della giovane ma ne rivede in lei la figura della donna amata. La storia, già dal colore evocato dal titolo, ricorda in qualche passaggio la fiaba di Cappuccetto Rosso, con il bosco a rappresentare il pericolo. Ma al centro del bosco c’è una casa, una costruzione umana, vero epicentro della tragedia; il pericolo è quindi legato all’indole umana e non alla Natura ed è rappresentato dal terribile segreto che Pete serba dentro di sé. E i veri protagonisti della storia Nath e Meg, mentre nel bosco cercano la strada che porta alla casa rossa, trovano anche quella che li unisce attraverso la moltitudini di combinazioni, di differente natura, che i personaggi della storia intessono. L’umanità è una giungla peggiore di qualunque foresta. E molto più pericolosa.  




           
Allene Roberts



Ona Munson


Julie London







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