547_I GIOIELLI DI MADAME DE... (Madame de...); Francia, Italia, 1953. Regia di Max Ophüls.
“Solo superficialmente
si può dire che è superficiale.” Queste parole, dette dal generale André
(Charles Boyer) si riferiscono al rapporto tra lui e la moglie, l’incantevole Madame citata del titolo, la Contessa Louise (Danielle
Darrieux, assolutamente perfetta) di un casato che non verrà mai nominato per
tutta la durata del film di Max Ophuls. I
gioielli di Madame de…, così come il titolo originale Madame de… e tantissimi spunti sparsi per il film, sottolineano che
della protagonista della storia non sapremo mai il cognome. La fronda del
titolo nobiliare ad ornare il nome proprio, ma della radice, il nome di
famiglia, non v’è traccia. Ma la frase del generale Andrè potrebbe essere presa
a titolo per l’intero cinema di Max Ophuls, l’enchanteur,
che dietro l’incanto delle sue immagini di sublime e raffinata bellezza
nascondeva si un vuoto, ma più che rivelare la superficialità del suo sguardo (superficiale solo superficialmente,
appunto) metteva un disagio degno di un raffinato horror d’alta scuola. In
genere, a proposito di Ophuls, si fa riferimento alla sua sublime capacità
formale: tutto il suo lavoro con la macchina da presa, il suo seguire i
personaggi con insistiti piani-sequenza,
veri o simulati che siano, il suo zizagare,
i volteggi, le panoramiche. La sua messa in scena è avvolgente e finisce per
suggestionare lo spettatore; del resto l’han chiamato l’incantatore mica per nulla.
Ma qui occorre stare attenti, perché il
punto focale non è così scontato, la cura formale è importante ma non nel modo
in cui si è soliti intenderla benché non sia nemmeno una falsa traccia: è lì
che c’è il cuore del problema, nella superficialità del nostro mondo, ma non lo
è nella maniera superficiale in cui troppo spesso la si liquida. Da buon
prestigiatore, il regista tedesco distoglie si la nostra attenzione con la sua
inebriante mise en scéne ma quello
che cerca di celare ai nostri occhi è proprio quello che ci ostenta d’innanzi.
Bastano un paio di dettagli, in effetti devil
is in the details in Ophuls come in pochi altri casi, per cogliere questo
aspetto: mentre Louise cerca qualcosa da vendere nel suo lussuoso guardaroba
stracolmo di abiti ed accessori eleganti, per racimolare qualche spicciolo, le cade un sobrio volumetto nero con una bella
croce in copertina, davvero fuori posto insieme alle voluminose pellicce.
E’ un
libretto di devozioni e, nella caduta, finisce incorniciato tra le scarpine col
tacco della contessa: il sacro ai piedi del profano, letteralmente. Che dire
poi, dei gioielli, che sono il vero e
proprio deux ex machina che mette in
moto un meccanismo narrativo ben congeniato ma che si può tranquillamente
trascurare perché, pur se svolto in modo mirabilmente tanto perfetto quanto
improbabile, è del tutto secondario alla questione principale. Gli orecchini,
perché di questo si tratta, sono a forma di cuore: un oggetto tanto
superficiale, stanno appesi alle orecchie, ovvero sono, in sostanza, appendici
di altre appendici, hanno però nella loro forma l’indizio che ci dice che è
proprio lì il cuore del discorso. E
qui si potrebbe già percepire un certo disagio, ma a patto di essere tipi svegli e di non essersi lasciati
eccessivamente trasportare dal clima apparentemente leggero dell’opera; ma avremmo
colpevolmente trascurato quei dettagli, come una semplice sosta in una chiesa
per una preghiera davvero inopportuna, con l’ulteriore orpello fuori luogo del
fedele inginocchiato in prima panca che si volta per ammirare il passare
dell’elegante e seducente figura di Madame
manco fossimo in un bar di periferia. E’ un disagio sottile, strano, a cui
bisogna far mente locale, perché da buon incantatore, Ophuls, col suo I gioielli di Madame de… è certamente
riuscito nel suo incantesimo.
Così, se pur in avvio avevamo forse sorriso della
sciocca svagatezza della deliziosa Contessa Louise, alla fine della storia siamo
finiti anche noi in quel limbo sognante in cui la gran dama confinava i suoi
tanti spasimanti. Crudeltà della speranza:
così viene argutamente definita e se noi, spettatori, non possiamo che nutrire
l’illusione cinematografica di quella speranza, per gli uomini tenuti abilmente
in sospeso da Louise le speranze non sono poi maggiori. Il gioco è mantenere
tutto in perfetto equilibrio, mai concedersi concretamente, ma volteggiare
leggiadre come quando si danza ad un ricevimento del gran mondo della Bella Epoque. E’ come nel ballo più
lungo e significativo del film, quello tra Louise e il più intraprendente dei
suoi amanti, il barone Donati (un De Sica in gran spolvero). Ipnotizzati
dall’eleganza formale di Ophuls, quasi non ci si accorge che, durante il valzer,
le immagini cambiano come cambiano i vestiti e quindi le occasioni di ballo tra
i due personaggi, mentre i dialoghi tra loro si fanno via via più stringati e
la danza sempre più frenetica a simboleggiare il crescendo di quella vera passione
fino allora del tutta avulsa dalle loro vite.
Non è un piano-sequenza unico, ma piuttosto una serie in cui i segmenti sono
armonizzati tra loro in modo da racchiudere il succedersi degli incontri e la
derivante escalation emotiva e
sentimentale della storia d’amore tra i due, condensando in un unico valzer i diversi
episodi mondani. E, alle loro spalle, la sala progressivamente si svuota: è un
passaggio cruciale, ora sono al centro di un vuoto ma non sono più loro stessi
il vuoto. Ma di questo non è facile rendersene subito conto: siamo ancora
rimasti, noi spettatori, troppo incantati dal fascino leggiadro della contessa.
E’ davvero una dama di gran classe. Certo, è anche una donna frivola, amoreggia,
ma solo in punta di fioretto, con tanti uomini, sebbene sia sposata col
generale Andrè; vero è che anche l’uomo ha un’amante, e forse più di una.
Comunque il comportamento della donna è sempre sconveniente: in avvio pensa
bene di vendere i suoi orecchini, i gioielli a cui da riferimento il titolo
italiano, che il marito le aveva fatto come dono di nozze, nientemeno. Le serve
del denaro da sperperare per fare la bella vita oltre a quella che le concede
il pur facoltoso consorte.
Non è un bell’inizio; e nemmeno nel passaggio in
chiesa citato, quando si ferma a chiedere un’intercessione alla piccola santa affinché favorisca la
vendita degli orecchini al negozio di gioielleria, ci fa una gran figura. Per
non parlare delle reiterate bugie, distribuite a destra e a manca, o gli
svenimenti simulati. Eppure, quando nel finale, il generale metterà la parola
fine nel duello con un colpo di pistola che spaccerà il Donati, e di riflesso anche Louise, quel riflesso
arriverà fino a noi, lasciandoci un velo di tristezza. Certo, la donna era
cambiata, ora non era più l’aristocratica dama futile di prima, ora amava
davvero il barone. Ma, cosa ci lascia davvero tristi? E’ questa la magia
dell’incantesimo terrificante di Ophuls. Ci si può fermare in superficie e
pensare che sia un peccato, nell’ottica del film, che una donna bella e ora
anche saggia come Louise muoia per amore.
Che il generale si scopra
insofferente dei tradimenti della moglie proprio quando questa ha smesso di
tradirlo, e vada a far fuori il Donati solo per ferirla (mortalmente). Ma può
far dispiacere, il dispiacere legato alla visione di un film, naturalmente,
vedere una donna che si lascia morire per amore ma che, in ogni caso, aveva
rinunciato ad ogni pretesa di felicità? La crescita di Louise, la sua
maturazione, le impediva, a quel punto, di tradire il marito; col Barone era
quindi finita in ogni caso. Certo, poteva vivere di ricordi, come quando
ritorna per un attimo in possesso degli orecchini un’ultima volta, e risente la
musica dei balli con l’ambasciatore italiano interpretato da De Sica.
E il
marito sadicamente la costringe a disfarsene subito, togliendole anche
l’illusione legata a quel ricordo. Ma via, siamo sinceri. Non può essere questa
la vita che lo spettatore rimpiange, nel suo dispiacersi per il tragico finale.
E’ lì che vengono in mente le parole di Ophuls all’attrice Danielle Darrieux, e
nel farlo, ci corre anche un brivido lungo la schiena.“Il vostro compito, cara Danielle, sarà duro. Voi dovrete, armata del
vostro charme, della vostra bellezza, eleganza e intelligenza che tutti
ammiriamo, incarnare il vuoto, l’inesistenza. Non riempire il vuoto, ma
incarnarlo. Diverrete sullo schermo il simbolo stesso della futilità passeggera
spogliata di interesse. E bisognerà farlo in modo tale che gli spettatori siano
presi, sedotti e profondamente turbati dall’immagine che rappresentate. Senza
questo paradosso avremo un filmetto da boulevard, cosa che non è nostra
abitudine”.
Eccolo, dunque, l’incantesimo di Max Ophuls: portare allo
scoperto la nostra metà superficiale, la nostra natura effimera che, al
contrario di come la definiamo, non poniamo solo in superficie ma coviamo anche
segretamente nel nostro intimo. Perché quello che ci turba, e deve farlo
profondamente, è che quello che rimpiangiamo alla fine de I gioielli di Madame de… sono proprio quei comportamenti della
Contessa che abbiamo apertamente condannato. Chissà, forse in uno dei tanti
specchi in cui si riflette il film, potremmo aver visto riflesso anche il
nostro volto.
Danielle Darrieux
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