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sabato 31 maggio 2025

SVEZIA INFERNO E PARADISO

1676_SVEZIA INFERNO E PARADISO, Italia, 1968. Regia di Luigi Scattini 

«Tutte le scene del film sono state girate dal vero o ispirate e riferite alla realtà. Ogni riferimento a fatti o a persone NON è casuale». Questa provocatoria didascalia, posta all’inizio di Svezia inferno e paradiso può essere forse indicativa degli intenti puramente sensazionalisti della pellicola. Diversamente, se non si prende il film di Luigi Scattini come una sorta di battuta goliardica, ci sarebbe da rimanere stupefatti da quello che si vede ma, soprattutto, quello che si sente nel commento che accompagna le immagini. In questo senso, una conferma che ci sia una precisa volontà di scandalizzare gratuitamente gli spettatori, ce la offre il fatto che a leggerlo sia chiamato un attore affermato come Enrico Maria Salerno. Qualche dubbio – anzi, molto più di qualche –sull’opportunità della cosa rimane e, in effetti, stupisce che un interprete dalla fama di Salerno si sia prestato ad un simile gioco. Al contrario, l’artista milanese, che tra l’altro era un abile doppiatore e quindi abituato a lavorare solo con la voce, pare gettarsi anima e corpo nell’impresa risultando a tratti particolarmente indisponente. Il suo intento è di incarnare la figura del qualunquista che sputa sentenze un tanto al chilo, e, come commento in una sorta di documentario, seppure ci si trovi nella freschissima scia dei film-collage di Jacopetti, lascia spiazzati. Il tema più urgente, che il testo affronta subito, è quello della disinibizione sessuale della donna svedese, che ha le prime esperienze giovanissima e, per evitare conseguenze, fa ricorso all’uso di contraccettivi di varia natura. Questo aspetto, che è il principale motivo che ha spinto i produttori ha realizzare il film, è trattato con paternalistico moralismo dal commento. “Anche loro (alcune intraprendenti donne svedesi NdA), come la nostra Eva (la protagonista del precedente segmento narrativo NdA), credono di essere felici, di avere scoperto l’amore, mentre hanno soltanto conosciuto il sesso e sarebbe difficile spiegare loro che è una cosa tanto, tanto, diversa”. Non si capisce bene, e per quale motivo, persone che lo stesso documentario ci informa provenire da uno dei paesi più progrediti al mondo, non siano in grado di comprendere argomentazioni tutto sommato nemmeno troppo complesse. Ma si è detto: Scattini ha voglia di provocare e sia lui che la produzione ne sono ben consapevoli, dal momento che si assicurano di evitare ogni distribuzione del lungometraggio in Svezia. 

Il regista può quindi scatenarsi senza remore: prima assistiamo allo stupro di una giovane da parte di alcuni teppisti motorizzati, poi agli anziani abbandonati in una casa di riposo definita poco elegantemente «Cimitero degli elefanti». Si passa quindi al problema dell’alcolismo, con alcuni disperati che si mangiano il lucido da scarpe che pare, contenga piccole quantità di alcool, a quello della droga e a quello dei suicidi. Ogni tanto qualche battuta letta da Salerno coglie anche nel segno: ad esempio, per sottolineare la scarsa funzionalità della famiglia tradizionale nel paese, il commento interpreta in maniera contraria al consueto il dato, in genere valutato positivamente, secondo il quale in Svezia i figli lasciano la casa paterna in tenera età, segno della loro intraprendenza. Considerato il tempo che i bambini trascorrono fuori casa, la voce fuoricampo evidenzia semmai che più che lasciarla presto non vi abbiamo mai abitato realmente. Ma i passaggi di questo livello, perlomeno intrisi di una evidente ironia, sono pochi, e a dominare è in realtà, un moralismo di grana grossa che, forse, Salerno si sarà anche divertito a recitare. Tuttavia non vi sono espliciti segnali che si tratti di una bonaria presa in giro, anche per via della natura degli argomenti trattati, sesso a parte, si va, come detto, dalla droga, alla coppia incestuos ai suicidi anche di giovanissimi. In effetti, inseguito all’uscita del film, i problemi non mancarono: alcuni giornalisti svedesi trovarono una copia del film nella loro ambasciata di Parigi, lo portarono in patria e, con qualche anno di ritardo, il film approdò sulla televisione nazionale. La cosa non passò affatto inosservata, suscitando sdegno generale dell’opinione pubblica svedese; i protagonisti dei vari filmati, poi, avevano avuto la rassicurazione che la pellicola non sarebbe mai approdata in Svezia, e si trovarono invece sugli schermi domestici in situazioni spesso imbarazzanti. Si scatenò un caso diplomatico, accompagnato da proteste ufficiali e divieto per Scattini di recarsi in Svezia per alcuni anni. Il film –ispirato dall’omonimo libro di Enrico Altavilla– è, nel complesso, un campionario di luoghi comuni misto a scene palesemente artefatte, si prenda quella del ladro di automobili come esempio, che, in sostanza, ruota sempre intorno alla questione sessuale, scusa valida per mostrare sullo schermo l’avvenenza delle ragazze nordiche. Va detto, per correttezza, che le scene di nudo non sono particolarmente esplicite –praticamente mai integrali– pertanto sorprende la pubblicità del film sui giornali che –accanto ad un quanto mai ottimistico «il film che si vorrebbe non finisse mai!»– specificava «severamente vietato ai minori di 18 anni». Direttamente dal blog ufficiale di Luigi Scattini, si possono apprendere alcune curiosità interessanti per comprendere la natura ambigua dell’operazione nel suo complesso.

“Per gli italiani, soprattutto i giovani, la Svezia rappresentava il mito, i sogni proibiti di una generazione attratta dall’Inferno e dal Paradiso: l’emancipazione della donna, i sindacati, il nudismo, il benessere economico… è così che decisi di partire con una troupe ridotta per andare a scoprire questo mondo meraviglioso”. E già si può notare come, nei ricordi del regista, il post è del 12 agosto 2008, vi sia posto solo per elementi positivi del paese scandinavo. Scattini però poi precisa: “Non fu facile girare certe scene in Svezia, anche perché, per la prima volta, veniva messa a nudo una realtà che gli svedesi stessi cercavano di nascondere”. Curioso poi il successivo passaggio: “Infatti, il film fu accolto molto male in Svezia quando uscì. Gli svedesi ne fecero addirittura un caso diplomatico, con proteste ufficiali e minacce che mi impedirono di tornare in Svezia per parecchi anni.  Il film fu trasmesso dalla televisione svedese la notte di Natale, grazie alla complicità di alcuni giornalisti che cercavano lo scandalo a tutti i costi”. In sostanza, un regista di shockumentary, per sua stessa ammissione questo era il suo secondo film all’interno del genere, si lamenta del fatto che i giornalisti svedesi lo ripaghino poi della stessa moneta. Insomma, il bilancio dell’opera è ampiamente deficitario, ma, volendo chiudere in chiave positiva, c’è la colonna sonora di Piero Umiliani davvero memorabile. Nella versione ufficiale, oltre alle musiche del compositore, sempre adeguate alle immagini, troviamo i suggestivi brani You tried to warm me e Sleep Now Little One, cantati da Lydia MacDonald. Interessanti anche la versione in inglese di Il ragazzo della via Gluck (Berretta, Del Prete, Celentano, 1966) e L’incidente dei The Primitives (Mogol, Cauley, King, Jones, Cunningham, Alexnder, Calwel, 1968). Naturalmente, il pezzo più noto del film, anzi, nettamente più famoso anche del film, è Mah-Nah-Mah-Nah, di Pierlo Umiliani, reso in seguito celebre dalla divertente interpretazione dei pupazzi del Muppet Show.  


  

         

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giovedì 29 maggio 2025

AMERICA PAESE DI DIO

1675_AMERICA PAESE DI DIO, Italia, 1966. Regia di Luigi Vanzi

I Mondo movie, fino ad allora, si erano concentrati prevalentemente sui paesi esotici, dall’Africa all’Asia e per le isole sparse per gli oceani. Erano infatti quei paesi diversi per cultura, tradizioni e sviluppo, che fornivano maggiori spunti ai produttori degli shockumentary, i documentari sensazionalisti. Certo, anche i paesi occidentali avevano avuto il loro spazio, se si pensa che, proprio dal vecchio continente, con Europa di notte, era partito tutto quanto. Anche gli Stati Uniti, soprattutto grazie alla vivace vita notturna, avevano fornito materiale per i cosiddetti Mondo-sexy, il filone piccante del genere, quello che aveva appunto preso piede in principio, proprio sulle orme del citato capostipite di Alessandro Blasetti. Luigi Varzi aveva già dato il suo contributo, era stato in effetti tra i primi a seguire le orme del veterano del cinema italiano, e con il suo Il mondo di notte aveva allargato l’obiettivo su tutto quanto il globo, introducendo uno sguardo universale in questo particolare tipo di film. Stavolta fa un’operazione, in un certo senso opposta, concentrando cioè il suo obiettivo unicamente sugli Stati Uniti d’America. In effetti, se da un lato il paese a stelle e strisce era, già in quegli anni, la potenza imperialista per antonomasia, all’interno dei propri confini riusciva a mantenere una sorta di isolazionismo per cui, si può ben dire, che costituisse un mondo a sé stante. La struttura del lungometraggio, alla cui regia e a volte accreditato anche Agostino Sansone, è la solita dei Mondo movie, ovvero una serie di segmenti filmati di diversa natura e argomento. Il montaggio di Mario Serandrei, già in sala taglio per Europa di notte e Il mondo di notte, garantisce una sorta di continuità stilistica con il genere. In questo caso, oltretutto, si era, probabilmente, pensato ad evitare di annoiare lo spettatore con approfondimenti troppo specifici; il risultato diviene in parte controproducente, perché proprio l’eccessiva frammentazione e la mancanza di nessi strettamente logici, fanno scemare l’interesse in più di un’occasione. Nei suoi film, Jacopetti era geniale nel mantenere desta l’attenzione, cucendo i vari spezzoni con una miriade di intrecci e rimandi, ora in sintonia ora in distonia. Per America, paese di Dio, viene chiamato addirittura Italo Calvino per scrivere il commento, recitato poi dalla voce italiana più autorevole in abito cinematografico, quella di Emilio Cigoli, abituale doppiatore di John Wayne, Jean Gabin e tantissime altre star, di Hollywood e non. Il risultato non è negativo, ma nemmeno entusiasmante. Gli elementi gettati sullo schermo sono tanti, come detto mai approfonditi a dovere, comunque, perlomeno introdotti con efficacia: si va dai bianchi in condizione di estrema povertà, definiti già all’epoca White-trash, divenuti in seguito famosi per essere l’elettorato che porterà Donald Trump alla casa bianca, all’interessante considerazione che, in America, essere poveri è ritenuta una colpa. In quegli anni Sessanta, la povertà era ancora diffusa ma, curiosamente, non rappresentava la maggioranza del paese, ma una cospicua minoranza, diversi milioni di individui. È chiaro che questo rappresentava un problema quasi senza soluzione: se in un generico paese democratico, essere poveri voleva dire far parte della maggioranza, questo era perlomeno una leva su cui potersi fare valere in ottica politica. Negli Stati Uniti i poveri, essendo minoranza, non avevano quindi neanche voce in capitolo in sede di elezioni. Del resto, secondo la convinzione religiosa più diffusa, quella protestante, la ricchezza era un premio del proprio lavoro –più precisamente, «il successo è il segno tangibile della Grazia di Dio»– e, quindi, chi, oltretutto nel paese delle opportunità, non riuscisse ad emergere, era anche ritenuto giusto che rimanesse in condizione di miseria. In tema religioso il documentario accenna agli Amish, una comunità anabattista particolarmente integralista, poi si passa ai mussulmani neri, con annessa riflessione sulla condizione economica non certo agevole della comunità afroamericana. Interessanti, in questo ambito, il riferimento ai Fatti di Watt, la sommossa nel quartiere di Los Angeles. Al di là dell’episodio che scatenò il putiferio, la questione alla base era quella razziale: dopo sei giorni di duri scontri con le forze dell’ordine, sul terreno rimasero 34 morti e qualche migliaio tra feriti e arrestati. Negli States, una tale violenza, in una situazione simile, era sconosciuta, al tempo –estate del 1965– e verrà superata unicamente nel 1992 con quella che è nota come la Rivolta di Los Angeles. Tra gli altri argomenti trattati da America paese di Dio, val la pena di ricordare la decadenza dell’Appalachia, una volta resa ricca dai giacimenti di carbone, il movimento della «beat generation», tra il Greenwich Village e San Francisco, e le proteste contro la guerra in Vietnam. A questo punto, la domanda sorge lecita: ma America il paese di Dio, è un Mondo movie o un documentario serio, in tutto e per tutto? È un Mondo movie senza alcun dubbio. E a confermarcelo, non sono solo le scene degli strip-tease, o le inquadrature maliziose sul fondoschiena di qualche bella fanciulla. La sequenza della marchiatura del bestiame, e soprattutto del taglio delle corna ai vitelli, con tenaglia o seghetto –quest’ultima davvero pesante– è un pugno allo stomaco degno di Jacopetti.      



         

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martedì 27 maggio 2025

CANNIBALI DOMANI

1674_CANNIBALI DOMANI, Italia, 1983. Regia di Giuseppe Maria Scotese

Per inquadrare a dovere il valore di un film come Cannibali domani di Giuseppe Maria Scotese, occorre ricordare che il tema ecologico era già ben presente nei primi anni Ottanta. È vero che, ai tempi, in Italia ma non solo, ci si era già più che avviati a grandi falcate nel «decennio pneumatico» –nel senso di vuoto– ma certi argomenti erano conosciuti, semplicemente si preferiva guardare altrove. Scotese si era già dimostrato, anni prima, un autore attento alle tematiche sociali, soprattutto, ma non solo, con il notevole Il pane amaro, film che, in un certo senso, Cannibali domani rievoca e riprende. Tuttavia dal 1968, anno di uscita de Il pane amaro, erano passati quindici anni; nemmeno tanti, ad onor del vero, ma l’Italia era cambiata radicalmente. Dal periodo della rivoluzione sessantottina si era arrivati, attraversando gli ‘anni di piombo’, ai favolosi anni Ottanta, di cui la vittoria nel ‘mundial ‘82’ degli azzurri del calcio era la ciliegina di una torta che stava ancora finendo di essere farcita di glassa zuccherosa. Insomma, l’idea di un Mondo movie che utilizzasse la forza espressiva del «genere» per denunciare la diffusa ingiustizia sociale, sembrava quasi ovvia –ma ci aveva pensato il solo Scotese, onore al merito – quando nelle piazze infuriavano le proteste studentesche ed operaie. Rispolverare il «genere» più biasimato del cinema italiano, quando ormai era finito nel dimenticatoio, per imbastire la sua tragica Ballata per un pianeta –questo il titolo originale scelto dal regista nato a Monteprandone– in piena euforia nazionale era, al contrario, un azzardo bello e buono. Viene quasi da comprendere, quel noleggiatore italiano che, stando a quanto dichiarato dallo stesso Scotese [Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 30], volle cambiare il titolo cercando di spacciare il film per una versione eighties di Mondo cane. In realtà, come spiega lo stesso regista, questo solerte distributore fece un pessimo servizio al film: chi si aspettava un revival jacopettiano rimase deluso, mentre i potenziali spettatori che avrebbero potuto apprezzare il documentario, se ne tennero alla larga temendo un ritorno di uno shockumentary tra i più ortodossi. Tuttavia, se dobbiamo dirla tutta, l’idea di questo anonimo noleggiatore non fu del tutto campata in aria: in primo luogo si può notare come il riferimento ai cannibali nel titolo, rimanda ad un «genere» derivante, in un certo senso, dai Mondo, che, a differenza di questi ultimi, al tempo era ancora in voga e garantiva una sorta di effetto traino. E fin qui, si potrebbe trattare soltanto di una mossa scaltra e astuta, in linea con gli interessi economici di chi vede una pellicola unicamente come un qualcosa da far fruttare economicamente. Ma non fu del tutto così: perché i cannibali, Scotese, ce li infilò davvero, in Cannibali domani, in modo, duole un po’ dirlo, non proprio in linea con il resto del suo lavoro. L’impressionante scena in cui alcuni africani trascinano un corpo, lo cucinano e poi se lo mangiano a pezzi, il regista sostiene –nella citata intervista all’indispensabile Daniele Aramu e pubblicata su Mondorama– l’avesse comprata per 500 dollari da un mercenario che aveva fatto la guerra nel Congo. Era davvero necessaria, questa tremenda sequenza?  

È una domando retorica, o quasi, perché è chiaro che, se l’autore ritiene una scena necessaria, lo è, almeno ai fini della libertà artistica d’espressione, tuttavia è un passaggio che lascia un po’ di scetticismo: lo stesso Aramu, nell’intervista, si premura di chiedere a Scotese se le fosse venuto il dubbio che potesse essere un falso. Nella risposta, il regista risponde argomentando le sue deduzioni secondo cui la scena era vera, ma, in sostanza, non può fornirne prova concreta. Insomma, qualche perplessità sull’autenticità del passaggio rimane, così come su certi primi piani da angolazioni diverse dei ragazzini che sniffano la benzina, ed è un vero peccato perché il senso di Cannibali domani è autentico, anche se non lo fosse per intero il lungometraggio. Tra i passaggi memorabili, e ancora oggi dopo oltre quarant’anni sorprendenti, c’è la vicenda di St. George, Utah, negli Stati Uniti, cittadina situata vicino al luogo dove gli americani sperimentavano le bombe nucleari e subì per anni la contaminazione radioattiva. Oggi l’Area 51 è divenuta un’attrazione turistica, ma certi aspetti della sua storia non sono mai stati oggetto di grande pubblicità, come dimostra un articolo del 1966 sulla rivista Time disponibile sul sito della nota pubblicazione. “La scorsa settimana il chirurgo generale William H. Stewart della sanità pubblica degli Stati Uniti Service ha annunciato i primi risultati dello studio intensivo. Nessun cancro è stato trovato, ha detto. Ci sono diversi casi di tiroide infiammata, e proporzionalmente più di questi sono tra i bambini di St George che tra i bambini di Safford. Ha aggiunto il Dr. Stewart: l’infiammazione della tiroide sembra essere aumentata di recente in molte parti molto separate degli Stati Uniti, e non vi è alcuna prova che le radiazioni, da fallout o altre fonti, abbiano nulla a che fare con esso”. Questo quando, anche negli anni Sessanta, era già ben noto che lo iodio radioattivo, uno degli elementi più attivi nella ricaduta, è assorbito dalla tiroide, causando problemi serissimi soprattutto negli infanti.
Il resto del documentario si concentra prevalentemente sul cosiddetto Terzo Mondo, sebbene Scotese non manchi di ribadire che inquinamento e sovraffollamento, due dei temi portanti di Cannibali domani, siano propri anche delle aree più industrializzate e delle grandi megalopoli dell’occidente. In ogni caso, tra i passaggi più atroci da guardare ci sono gli effetti delle carestie dovute alla siccità nel Sahel, la fascia di confine tra il deserto del Sahara, le foreste tropicali e le savane, o la povertà delle popolazioni indie delle Americhe. Un discorso a parte merita l’India vera e propria, di cui sono mostrati il sovraffollamento che mette in condizioni di estrema indigenza la stragrande maggioranza degli abitanti, pur avendo, il paese asiatico, una popolazione bovina numericamente esorbitante. Qui le questioni religiose diventano un ostacolo concreto alla sussistenza dignitosa e questo, per un popolo che è la culla della spiritualità, è un aspetto che lascia sgomenti. Un passaggio fortemente emotivo è poi il pellegrinaggio hindu ad Allahabad, il bagno di massa nel Gange, il fiume sacro, un evento già mostrato da Scotese ne Il pane amaro. Emozionanti, sebbene in modo diverso, anche le aberranti scene in cui alcuni bambini vengono mutilati e storpiati deliberatamente per andare a chiedere la carità ed essere, a causa delle malformazioni indotte, più convincenti e, quindi, remunerativi. La voce di Dario Penne non regala nulla allo spettacolo, e rimane sobria cercando di non scadere nel moralismo, cosa comunque non semplice visto i temi trattati. Il confine tra morale e moralismo è, infatti, soggettivo e non è facile mantenere una linea asciutta senza rischiare di passare, per alcuni, come indifferente; per altri, di contro, i passaggi più sentiti possono sembrare retorici. Tuttavia il commento è sicuramente uno dei punti a favore del film, che, nel complesso, se fa sensazione, è perché è la situazione a farla e, oggi, quarant’anni dopo, possiamo concretamente dire che Scotese non fu affatto un allarmista gratuito. Il ritmo del film è compassato, ma inesorabile, accompagnato dall’adeguata musica di Marcello Giombini che di rifà alle melodie dell’America Latina. La ballata Hijos del sol, cantata da Charo Cofré e Hugo Arevalo, racchiude la tristezza dei nativi americani, popoli a cui è stato sottratto, più che la terra natia, il futuro. Il fotogramma su cui scorrono i titoli di coda di Cannibali domani, con il fitto skyline di una moderna metropoli, è emblematico: neppure lo sguardo può trovare scampo di fronte all’incombere del cemento della civiltà occidentale. 


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domenica 25 maggio 2025

WE WILL NOT FADE AWAY

1673_WE WILL NOT FADE AWAY Ucraina, 2020. Regia di Alisa Kovalenko

Cinque anni di attività bellica insistente e martellante, dal 2014 al 2019, potevano lasciar intendere che il destino della gente del Donbas, fosse quello di rimanere completamente tagliati fuori dal mondo. La Guerra del Donbas è stata tremenda e ne vediamo gli effetti nell’eppur splendide scene di We will not fade away, documentario con una storia da raccontare di Alisa Kovalenko. Immagini stupende, nonostante le macerie e la devastazione inquadrate, merito dell’ottima fotografia della Kovalenko e Serihiy Stetsenko. Il significato del titolo, in inglese anche nell’edizione originale, è Noi non svaniremo, che sembra un po’ la preoccupazione di Andriy, Liza, Lera, Ruslan e Illia, i cinque adolescenti protagonisti del film. Se l’Ucraina è già una terra di confine, tra l’Europa e il Russkiy Mir [Mondo Russo], in quest’ottica il Donbas ne è il punto ancora più estremo. Nel film, i giovani protagonisti utilizzano un linguaggio più colorito, per esprimere il concetto, ma il significato è la palpabile sensazione di essere completamente tagliati fuori dal «villaggio globale». Tra cinquant’anni, ipotizza uno di loro, il nostro paesino non esisterà più. Insomma, Alisa Kovalenko cerca di farci comprendere la preoccupazione dei suoi giovani concittadini che non riescono a vedere un futuro per le loro vite. E questa era la situazione, a Stanytsia, Oblas't di Luhans'k, Donbas, Ucraina, nel 2019, quando la Kovalendo cominciò a girare il suo film. Un’opera anche complessa, se si considera che il centro del racconto è rappresentato da un viaggio in Himalaya per i cinque adolescenti. Il che è un momento clamoroso, un sogno che si concretizza per questi ragazzi, che sembra davvero che possano sfidare e vincere il proprio destino. Andare sull’Himalaya, grazie all’intercessione di Valentin Sherbachov, un famoso esploratore ucraino, non è cosa che capiti a chiunque e che un desiderio tanto ambizioso venga esaudito per i nostri baldi giovanotti del Donbas potrebbe essere una svolta decisiva. Il che, sarà vero solo in parte. Perché, si è detto, i tempi di realizzazione del film sono stati lunghi e, nel frattempo, era cominciata l’invasione su larga scala che ha fatto sembrare la Guerra del Donbas combattuta fin lì un semplice aperitivo bellico. “Cinquant’anni e qui non ci sarà più niente”, diceva preoccupato uno dei ragazzi, senza rendersi conto di quanto fosse ottimista. E, forse, quando pensavano a Stanytsia come l’«ass-hole» del mondo, perché non se la filava nessuno, non immaginavano che fosse una condizione di cui poter aver rimpianto. La Kovalenko è una regista brava e sensibile, le sue immagini sono belle e poetiche, la musica –Wojciech Frycz, Blink-182,  Radiohead– è evocativa, il film lavora bene sul piano emotivo. E quando, dalla didascalia finale, apprendiamo che di due dei cinque ragazzi, i due rimasti nella zona sotto occupazione, non si hanno più notizie, l’emozione cristallizza in tristezza e sconforto. 






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venerdì 23 maggio 2025

MOTHER OF APOSTLES

1672_MOTHER OF APOSTLES Ucraina, 2020. Regia di Zaza Buadze

Dopo l’interessante Call Sign Banderas, il regista georgiano Zaza Buadze continua a raccontare la guerra russo-ucraina con un’altra opera, nel complesso più che interessante. In effetti Mother of Apostles ha avuto moltissimi riconoscimenti nei vari festival sparsi per il mondo, il sito IMDb riporta 65 vittorie e 17 candidature, tuttavia alcune recensioni manifestano qualche perplessità sul film. Il che non è certo un fatto insolito, è evidente ma, per capirci, quello di Buadze non è un lungometraggio ermetico o rarefatto, di quelli che piacciono ai critici dei festival o dei cineforum e annoiano lo spettatore che vuole solo divertirsi un po’. Mother of Apostles è un film drammatico con ambientazione bellica a cui non mancano passaggi adrenalinici e, con queste premesse unite al «mestiere» di Buadze, la «pancia» del pubblico dovrebbe essere soddisfatta. Invece probabilmente è proprio lì, nel gradimento popolare, che il film del regista georgiano fatica un po’: la vena lirica che contraddistingue la protagonista, Sofia (un’intensa Natalka Polovynka) –la madre degli Apostoli del titolo– e di conseguenza tutta quanta l’opera, ha fatto un po’ storcere la bocca ad alcuni. Anastasia Sokhach sul sito ITC.ua sintetizza così le sue perplessità: “Il problema principale e molto evidente del dramma Mother of Apostles è il desiderio del regista di dare santità al suo film. Se all’inizio può essere percepito come un gesto di rispetto per l’immagine della madre in raccoglimento, dopo le due ore di visione del film, si ha l’impressione che ci troviamo di fronte a un tentativo molto reale di filmare l’icona”. Si tratta di un’osservazione in parte condivisibile che sottolinea però un elemento intrigante, ovvero come il ruolo della religiosità –in un Paese che per anni ha dovuto professare l’ateismo di Stato e si stava inserendo nel contesto mondiale di secolarizzazione sociale– sia d’aiuto a fronte dell’immane tragedia bellica. Sul sito Zaxid.net si mettono in rilievo altri aspetti poco funzionali del film: “Le incongruenze della trama sono fastidiose e mettono fuori combattimento l’atmosfera creata dalla recitazione. Sembra anche che il regista non riesca a decidere il «genere». Sembra vergognarsi di fare un film d’azione. (…) E il dramma interpretato dai suoi attori non riesce a venir fuori, costringendo i suoi attori a compiere improvvisamente alcune azioni illogiche e immotivate”. Queste critiche, non particolarmente lusinghiere, sono solo parziali e non riguardano l’opera complessiva; la scelta di riportarle come spunto di partenza, per l’analisi del film, può suscitare qualche legittima perplessità. 

Perché cominciare dai commenti negativi per una recensione su un film che si ritiene, nel suo complesso, positivo? Per la natura del lungometraggio di Buadze, che si pone alti obiettivi, in parte li centra ma probabilmente non coglie il bottino pieno; in questi casi, il rischio è che la delusione metta in ombra quanto di buono c’è nell’opera. Per questo è, forse, più indicato cominciare dai difetti del lavoro, in modo da poter poi affrontare gli aspetti positivi con una consapevolezza già adeguatamente sintonizzata. Venendo agli appunti segnalati: il problema delle incongruenze è legato a quanto il racconto riesca a trascinare lo spettatore; non è semplice orchestrare una cosiddetta «sceneggiatura di ferro», spesso neppure il cinema americano, maestro di questa caratteristica, è rigoroso in senso assoluto. In effetti il recensore mette in rilievo come gli errori narrativi guastino il clima in precedenza creato; si tratta, quindi, di un’osservazione soggettiva, in quanto nel caso in cui il racconto riesca a rapire completamente lo spettatore il problema diventa, di conseguenza, meno rilevante. Buadze è un ottimo narratore e questa caratteristica, che contraddistingue Mother of Apostles, mitiga gli effetti delle sviste della sceneggiatura; tra l’altro i colpi di scena, soprattutto nella fase cruciale del racconto, sono più d’uno, a testimonianza del ritmo della sceneggiatura. Probabilmente più centrata la seconda osservazione del commento di Zaxid.net, perché Mother of Apostles, in effetti, rimane un po’ troppo sospeso tra i «generi», tra l’essere un film drammatico o bellico, ma questo lascia uno spazio alla componente mistica –evidenziata dalla recensione citata in precedenza, quella di ITC.ua– che, piaccia o non piaccia, è l’elemento distintivo dell’opera di Buadze. In questo senso sono da intendersi la professione della protagonista, una ricercatrice ed interprete di antica musica tradizionale ucraina, e le esecuzioni di questo genere di brani da parte della stessa Sofia. Il regista georgiano conosce i segreti del cinema mainstream e questi non sono dettagli marginali ma sottolineano il momento cruciale del racconto. Ma, a questo punto, urge dare qualche informazione sulla trama che, in un film di forte spinta narrativa, ha un ruolo preminente. La vicenda è ispirata da quanto è accaduto il 14 luglio 2014 nel Donbas: un aereo con aiuti umanitari è stato abbattuto dalle milizie separatiste. Il pilota è il figlio di Sofia, la quale non accetta le vaghe informazioni ricevute e parte alla sua ricerca: un ruolo che, come detto, Natalka Polovynka conosce bene avendolo interpretato già in Unavailable e Tera di Nikon Romanchenko e, nel quale, profonde grande umanità. La donna arriva nel Donbas in autobus e durante il viaggio fa conoscenza con Fedir Melnyk (un Bogdan Benyuk di grande spessore) che l’aiuta nella ricerca e le offre ricovero. Le coincidenze del soggetto, che sono utili agli snodi della trama, sono in linea con il classico racconto americano, omaggiato in modo palese dal libro che sta leggendo Fedir sul pullman. Si tratta del primo volume di una serie dedicata a James Fenimore Cooper contenente il leggendario L’ultimo dei Mohicani: ci sono altre citazioni ai pellerossa, nei dialoghi del film, e per il cinema di Zaza Buadze si è già visto il personaggio di Call Sign Banderas, Indeyets, interpretato da Oleg Oneshchak, che ne era un evidente omaggio. Il rimando al western, come «genere», è quindi un’urgenza del regista georgiano ma è un’intuizione talmente appropriata che si può estendere a tutta quanta la crisi russo-ucraina: quella contro la Russia è una guerra che segna l’epica dell’Ucraina e che sta forgiando –purtroppo come sempre avviene in questi casi– col ferro e col sangue, un’identità nazionale assai più forte e autonoma dalle influenze di Mosca. 

Nella concitata ricerca del figlio, Sofia, con l’aiuto di Fedir e di Semen (Sergey Derevyanko), un infiltrato di Kyiv tra i secessionisti, trova e riesce a liberare un membro dell’equipaggio sopravvissuto, che viene poi consegnato agli agenti ucraini. Ma la ricerca continua e la donna arriva nei pressi del luogo dell’impatto dell’aereo: qui vale la pena sottolineare lo sforzo produttivo degli autori del film che, per allestire questo scenario, hanno realizzato il più grande «oggetto cinematografico» in scala reale della storia del cinema ucraino, almeno secondo il sito 5.ua. Siamo quindi al dunque: Sofia arriva alla casa di Sonya (Svetlana Osipenko), una madre come lei che sta piangendo il figlio, un miliziano rimasto ucciso dai manifestanti di Euromaidan. Le donne sono simili, hanno anche un nome quasi identico e, in effetti, sono una lo specchio dell’altra, stanno su opposte barricate ma sono unite dal dolore materno. In realtà Sofia culla la speranza di trovare il figlio vivo ma, l’arrivo di Illya (Serhii Medin), marito di Sonya, toglie ogni illusorio dubbio alla protagonista: l’uomo ha seppellito personalmente i corpi dei due piloti. È un colpo tremendo per Sofia, che non ha nemmeno il tempo di riprendersi perché nella sperduta casa piombano i cattivi del film, rivali tra loro nella caccia ai sopravvissuti dell’aereo: «Coyote» (Aleksandr Pozharskiy), un losco secessionista –il cui ambiguo soprannome è significativo oltre ad essere un altro rimando al western, «genere» evidentemente caro al regista– e lo spietato mercenario russo Mahin (Stanislav Stokin). Secondo alcuni critici la caratterizzazione dei filorussi è troppo faziosa: ad esempio la già citata Anastasia Sokhach del sito UTC.ua sostiene che “i personaggi del Donbas sono mostrati in modo unilaterale e stereotipato”, il che è vero solo in parte, basti citare Sonya e suo marito Illya. C’è, in effetti, un contesto generale piuttosto duro ma è anche vero che ci si trovi in zona di guerra e, comunque, in un’area non particolarmente emancipata. La giornalista interpreta in chiave razzista o quantomeno discriminatoria una ricostruzione che Buadze opera, però, su basi più che altro narrativo-significative, come si può intuire dalle sue stesse parole: “La donna si ritrova improvvisamente in un mondo completamente estraneo e aggressivo, dove tutto è pieno di ostilità, odio, incomprensione e riluttanza a comprendere gli altri. In questo inferno, non cerca solo suo figlio, ma ha nel cuore un grande amore e un carattere misericordioso, cambia tutti quelli che incontra sulla sua strada. E, cosa più importante, si trasforma: trova un potere veramente sacro, combatte una guerra insensata e, nei suoi occhi, la disperazione, l’insicurezza e la paura rinascono nell’eterno spirito madre della terra, che riporta a casa i figli, vivi o morti”. Dichiarazioni a parte, anche stavolta, come in Call Sign Banderas, il regista Buadze lavora in modo dettagliato soprattutto sui «cattivi» della sua storia: per Mahin, poco da dire, è un uomo malvagio a tutto tondo, e si veda la naturalezza con cui elimina a sangue freddo Sonya e Illya per comprenderne il grado di crudeltà. 

È l’unico personaggio di rilievo russo: qui, sì, ci potrebbe stare il discorso della giornalista citato poc’anzi, se non fosse che la situazione geopolitica complessiva sembri poter giustificare ampiamente tale scelta narrativa. In ogni caso, nelle file dei cattivi c’è anche Kolia (Yuri Kulinich), miliziano luogotenente di Coyote, separatista dal cuore tenero che è un ulteriore elemento che sconfessa l’ipotesi di eventuale partigianeria di Mother of Apostles. In ogni caso, il personaggio chiave del film è, come prevedibile, Coyote. La sua entrata in scena, nel racconto, lo connota subito negativamente: è il classico stereotipo del separatista bellicoso e senza scrupoli. Poi ricompare, nella casa vicina al luogo dell’impatto dell’aereo, con un colpo di scena: è il fratello di Sonya e riconosce subito Sofia nella donna che, travestita da infermiera, aveva fatto evadere un prigioniero. La situazione, come già accennato, precipita, e Mahin, sempre più in contrasto con Coyote per questioni di leadership, uccide Sonya e Illya, lasciando il rivale a mettere sotto terra i parenti. Durante la sepoltura, Sofia, rimasta in disparte nella fase calda del passaggio narrativo, accompagna la scena con un canto funebre, proseguendo anche quando Coyote le si avvicina faccia a faccia. Riuscirà il canto della Madre degli Apostoli a toccare il cuore di un uomo cattivo quanto Coyote? Da questo punto comincia il momento migliore del film e, in questo particolare narrativo –l’ambiguità e le difficoltà degli sviluppi dei personaggi– Buadze è addirittura strepitoso. La logica del racconto renderebbe plausibile una conversione di Coyote che, con tutti quei lutti personali, sorella, cognato, nipote, ha appena espiato le proprie colpe. In effetti l’aitante miliziano non si vendica sulla donna, al cui arrivo sulla scena potrebbe imputare parte dei suoi guai, ma utilizza invece Sofia come sorta di Cavallo di Troia, riuscendo ad ingannare Mahin e ad ucciderlo: qual è il significato di ciò? Eliminando l’ingerenza russa si può trovare armonia tra ucraini dell’est e dell’ovest? Il dubbio rimane, finché Coyote si siede sulla poltrona di Mahin, chiarendo che il suo intento era unicamente assumere il ruolo di comandante della regione. Sofia viene fatta rinchiudere e, sebbene ricompaia sulla scena Semen, l’infiltrato di Kyiv, è il «secessionista buono» Kolia a dare una sferzata decisiva alla trama, liberando la donna e stordendo brutalmente Coyote. Il secessionista cattivo esce quindi di scena così, in modo totalmente negativo? Sofia, intanto, ha raggiunto il luogo della tragedia e trova, finalmente, suo figlio, o meglio ne trova la tomba, scavata da Illya. Terminato il momento lirico, siamo con Semen e Kolia che arrivano al vicino insediamento separatista e l’accoglienza che li attende non è delle migliori: evidentemente le notizie sul loro tradimento sono circolate. Per i due militari la situazione è più che drammatica e solo un miracolo potrebbe salvarli, ad esempio l’arrivo di Coyote. In effetti il truce separatista, pur se malconcio, arriva in loro soccorso e fa saltare il banco, ma al termine dell’eccellente scena di pura azione adrenalinica, rimangono tutti sul terreno: i separatisti, Semen, Kolia, e anche lui è ferito mortalmente. Prima di spirare, si è però meritato un ultimo faccia a faccia con la Madre degli Apostoli, di ritorno dalla tomba del figlio. Una santa e un cattivo, una donna e un uomo, una ucraina dell’ovest e un ucraino dell’est: una sola umanità.  




    
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mercoledì 21 maggio 2025

NESSUNO DEVE SAPERE

1671_NESSUNO DEVE SAPERE Italia, Germania, 1972. Regia di Mario Landi

Nel settembre del 1972, Il Padrino di Francis Ford Coppola [Il Padrino, Francis Ford Coppola, 1972] era uscito anche nelle sale cinematografiche italiane; un film che aveva portato alla ribalta internazionale l’argomento mafioso. Peraltro, nel Belpaese, Pietro Germi, Francesco Rosi, Elio Petri, Giuseppe Ferrara, Damiano Damiani, tra gli altri, avevano già dato corpo ad un filone cinematografico che poteva assurgere a rango di vero e proprio «genere». Curiosamente minore l’attenzione al fenomeno che aveva fin lì prestato la nostrana televisione; che al tempo, in Italia, voleva sostanzialmente dire Rai, l’emittente di stato che più che un emittente era una vera e propria istituzione nazionale. Nell’ottobre del 1972 era stato trasmesso Joe Petrosino, uno sceneggiato storico-biografico per la regia di Daniele D’Anza, ambientato prevalentemente a New York ma con passaggi in Sicilia e strettamente connesso all’argomento mafioso di origine italiana. Intanto, contemporaneamente, in quello stesso ottobre ’72, nella Germania Ovest andava in onda una coproduzione tra le tedesche Taurus e Westdeutscher Rundfunk e l’italiana Rai: Blutige Straße, uno sceneggiato televisivo di oltre quattro ore e mezza ambientato in Calabria. Nessuno deve sapere, questo il titolo italiano dell’opera, verrà trasmesso nello Stivale solo nel corso del 1973, nonostante fosse stato realizzato nel 1971 e comunque pronto per la messa in onda l’anno successivo, come evidenziato dai palinsesti tedeschi dell’epoca. Un ritardo nella messa in onda, un po’ clamoroso per la verità, che è, o sembra essere, semplicemente il primo di una serie di episodi che ha sempre messo Nessuno deve sapere in ombra, in secondo piano, quasi a voler intendere il titolo in senso metalinguistico. Uno sceneggiato che è meglio non sia visto, insomma. Un’impressione mantenuta vivida tutt’ora dalla perdurante difficoltà di visione dell’opera, sia in DVD che su qualche piattaforma streaming; e dire che la Rai ne gestisce una, Rai Play, che offre un’ampia scelta tra gli sceneggiati d’epoca. Questo, soprattutto, in considerazione dell’eccelso valore del film di Mario Landi, regista di Nessuno deve sapere, che va ascritto senza alcun timore di smentita tra le produzioni meglio riuscite del citato genere mafioso. Lo sceneggiato venne girato completamente in esterni, cosa non ancora del tutto abituale per questo tipo di produzioni televisive, e Landi fa un utilizzo del mezzo di ripresa in linea con i criteri cinematografici –le zoomate, i carrelli all’indietro, i movimenti di macchina– che impreziosiscono il linguaggio tecnico dell’opera. Le ambizioni del regista siciliano sono dichiarate anche da evidenti riferimenti al cinema «di genere» italiano, ad esempio con lo spazio riservato agli inseguimenti in auto, un topos dei poliziotteschi, e l’attenzione prestata alle vetture coinvolte, in questo caso spicca la Maserati Indy del protagonista, è la conferma che non si tratta di scene inserite per mere esigenze narrative. La bottiglia di J&B whisky, che compare distintamente in un paio di occasioni, è il sigillo di garanzia sull’operazione di affiliamento di Nessuno deve sapere al cinema «di genere» italiano, essendone il liquore dalla bottiglia verde con etichetta gialla e rossa il riconosciuto marchio di fabbrica. Questi rimandi non sono sterili virtuosismi cinefili ma la dichiarazione d’intenti di Landi, che stempera efficacemente il clima narrativo di Nessuno deve sapere che, diversamente, rischierebbe di essere troppo cupo e pessimista. C’è la necessità, sentita da parte dell’autore, di essere credibile e fedele alla realtà storica, ma c’è anche la volontà di lasciare uno sguardo ottimista, di non annegare tutto quanto in un fatalismo senza speranza. Questa difficoltà nel ricercare un punto di equilibrio tra istanze diverse, e forse anche contrastanti, si evidenzia anche nel linguaggio parlato nello sceneggiato: una stretta aderenza al dialetto locale avrebbe infatti reso l’opera intelleggibile dal pubblico nazionale. La presenza nel racconto di numerosi protagonisti provenienti dal nord Italia, permette di utilizzare sostanzialmente sempre l’italiano come lingua «ufficiale» del film, con le varie cadenze e inflessioni dei vari personaggi di turno. L’argomento è, infatti, la costruzione di un’infrastruttura autostradale in Calabria ad opera della Mondial-Strade, una società di Milano, che subappalta quindi i lavori ad imprese locali. A questo punto subentra il tema legato alla criminalità organizzata, con cosche mafiose che si contendono la concessione dei lavori, facendo ricorso al tritolo e causando la morte di un guardiano di un cantiere. Pietro Rusconi (Roger Fritz), il giovane ingegnere arrivato dal capoluogo lombardo per dirigere i lavori, ne rimane sconvolto ma non intende assolutamente accettare queste intimidazioni; anzi, vuole andare a fondo della questione, e scoprire chi sono mandanti ed esecutori del crimine, a costo di dare le dimissioni dal suo incarico in azienda. 

Il ragionier Meneghini (Corrado Olmi), che gestisce il cantiere, cerca di farlo desistere, in luogo ad un maggior pragmatismo d’interessi; suo zio Giovanni (Claudio Gora), titolare dell’azienda, da Milano si precipita in loco per schiarire le idee al nipote. Intanto i mafiosi locali si disputano l’appalto e la supremazia territoriale: don Nico Crifodo (Renato Baldini), boss mafioso in carica e titolare della Sud Strade, scoraggia a suon di esplosivo i fratelli Cosenza (Gianni Ottaviani e Giuseppe Scarcella), concorrenti venuti da fuori, da Castrovillari. Ma Crifodo ha le ore contate: don Sante Badalamessa (il grande Salvo Randone), il vecchio padrino tradito a suo tempo proprio da Crifodo, è tornato per riprendere il suo ruolo e saldargli il conto. In controluce a queste vicende criminose, la trama prevede una robusta ma sobria trama sentimentale: Maria (Stefania Casini), sensibile ma immatura ragazza calabrese, si invaghisce di Pietro, il giovane venuto dal nord, scatenando la gelosia di Mario Cuturi (Antonello Campodifiori), amico di infanzia e ora geometra del cantiere. In seguito arriva sulla scena anche Daria (una spumeggiante Gaia Germani), fidanzata di Pietro oltre che superficiale esponente della borghesia milanese capace tuttavia di alcuni tra i momenti più acuti e interessanti dell’intero film. Sono infatti i dialoghi i passaggi che rendono davvero profondo l’approccio di Nessuno deve sapere al tema trattato: sul momento, dopo il primo episodio, l’attacco alla società calabrese, così legata ad un sistema dove la violenza e la prevaricazione siano la norma, sembra durissimo. Ma nel corso del racconto, il quadro si delinea con maggiore dettaglio. Nella terza puntata, ad esempio, c’è un bel dialogo tra Pietro e il sindaco Cesare Cuomo (Adolfo Lastretti) che chiarisce meglio la situazione: “Ma l’avete guardato bene, questo paese”, attacca la sua arringa il primo cittadino, “industrie qui non ce ne stanno, lavorare la terra ormai non basta più e si fatica per niente, per un pezzo di pane, e non potete neanche immaginare quanto ci costa. E poi domani? La gente ormai non ce la fa, e per questo continua a scappare. Ma questi sono mali antichi. Adesso insieme ai mali c’è la delusione che ci avete dato voi”. “Noi?” chiede stupefatto l’ingegner Rusconi. “Certo”, continua il sindaco, “il Nord. L’industria. La civiltà. Ci s’era allargato il cuore alla speranza. Arriva la strada, arriva lavoro. E invece il lavoro serve a rinforzare, a dare altro potere a chi ci succhia il sangue. E noi che dobbiamo pensare? Quello che penso io quando ho visto come agisce la vostra impresa. Voi li aiutate. Con voi la parte marcia mette radici nel cemento, nell’asfalto”. Poi la discussione si sposta sulla differenza dei cittadini di fronte alla legge. Ancora Cuomo alle prese con lo stupore del giovane lombardo: “Perché lei non la sa differenza che c’è tra uno del nord e uno di qui?” Pronta la replica dell’ingegnere: “No. Di fronte alla Legge non c’è nessuna differenza”. “Lo dite voi” controreplica il sindaco, “Per essere considerato buon cittadino dello stato italiano, uno del nord deve rispettare la Legge e farla rispettare. Deve pagare le tasse eccetera eccetera. Ma per considerare buon cittadino uno del sud si richiede, oltre a tutto questo, che rischi la vita, sua e dei suoi famigliari, i suoi beni e tutto quello che ha”. 

In effetti, la Mondial-Strade, per eseguire i lavori aveva indetto formalmente un appalto, del quale si erano interessanti anche i Cosenza, arrivando da fuori paese; i quali, prima di partecipare, avevano chiesto all’ingegnere se fosse il caso. Pietro Rusconi, in totale buona fede, li aveva invitati a fare la propria offerta che sarebbe stata presa in esame con serietà e rispetto. Meneghini prima, suo zio poi, gli avevano imposto si scegliere l’impresa del paese, la Sud Strade, senza creare problemi. Per chiarire: il tritolo sotto la macchina dei Cosenza era uno di quei problemi. E anche la successiva esplosione nel cantiere della Sud Strade, quella che aveva causato la morte del guardiano, era un altro di quei problemi. Oltre ad essere da ascrivere alla logica delle faide tra le cosche e, in questo senso, accusando apparentemente i Cosenza. In realtà, a quel punto, stava rientrando in gioco Badalamessa che aveva un vecchio conto da regolare con Crifodo. Le parole del sindaco erano sacrosante, questo è chiaro; ma, in un certo senso, anche le spiegazioni dello zio Giovanni, più che le vaghe giustificazioni di Meneghini, non erano del tutto campate in aria. Il problema della Mafia, o della Ndrangheta, come viene definita esplicitamente da Maria nel primo episodio, deve essere risolto principalmente dal basso, dalla popolazione civile. Naturalmente le istituzioni e le influenze dall’esterno, come le imprese del nord, devono collaborare in senso onesto e rispettoso delle regole, ma occorre un cambio di mentalità costruttivo da parte dell’individuo che per primo subisce le conseguenze di questa situazione. Difficile stabilire se questa conclusione sia giusta o quantomeno realizzabile: è, peraltro, quella che emerge dal finale di Nessuno deve sapere, opera che segue la regia di Mario Landi, siciliano di Sicilia, terra di Mafia anch’essa come la Calabria. Infatti, Pietro Rusconi, l’emancipato uomo del nord, che arriva con la Maserati e cerca di risolvere le questioni di petto, ponendosi addirittura sopra la Legge, si veda il rapimento del piccolo Pietruccio, viene spedito a New York. Un luogo evidentemente a lui più consono e dove potrà far valere le sue qualità in un contesto adeguato. I problemi di Nessuno deve sapere, simbolicamente quelli della Calabria, deve risolverli altrettanto simbolicamente il geometra Mario Cuturi, uno del posto. Emancipato e istruito, ma del posto. A cui spetta, a parziale ricompensa per la bella gatta da pelare che gli autori rifilano, la prevedibile storia sentimentale con Maria, sua storica fidanzata, che ormai ha dimenticato Pietro. Questo finale, in qualche modo ottimista, compensa adeguatamente l’atmosfera cupa che lo sceneggiato assume spesso, soprattutto nel suo prendere il periodico congedo di puntata quando Domenico Modugno intona la struggente ma tremendamente evocativa Amara terra mia. Ma tutto il commento sonoro è notevole, opera di Ennio Morricone, del resto. Altrettanto efficaci sono le immagini, per quanto spoglie e minimaliste, che mostrano alcuni viadotti autostradali in cemento armato e che, accompagnate dal malinconico motivo della sigla, introducono ogni episodio. Nessuno deve sapere: un capolavoro che si intuisce sin dal primo fotogramma.       




Stefania Casini 


Gaia Germani 




lunedì 19 maggio 2025

100% OFF

1670_100% OFF, Ucraina, 2023. Regia di Sashko Protyah

Dal punto di vista formale, il mediometraggio 100% Off di Sashko Protyah, composto da filmati di differenti formati e integrato dai disegni animati di Natasha Tzeliuba, più che sperimentale, si potrebbe definire «sfidante». Una sfida, quella dei due cineasti ucraini che fanno parte del collettivo Freefilmers, non solo formale ma radicale, sia nell’aspetto del film che nel suo opporsi concettualmente tanto all’oppressione russa che al sistema capitalistico a cui ha aderito l’Ucraina. Il tema, intorno al quale ruotano le immagini, i dialoghi e le affascinanti animazioni, sono i saccheggi avvenuti a Mariupol' nella primavera del 2022, quando la città portuale fu costantemente sottoposta a bombardamenti. Certamente quello dei saccheggi, delle ruberie e delle vili speculazioni è un fenomeno che, in questi casi, affligge puntualmente i luoghi già colpiti da queste tragedie. È successo a Mariupol', è successo in altre mille città bombardate dalla guerra, ed è successo perfino dove sono i terremoti o altre calamità naturali a portare distruzione. Non è, però, tanto l’inclinazione dell’uomo a dare il peggio di sé quando le circostanze sono pessime ad interessare gli autori del film. Anche perché questa tendenza è bilanciata, e lo abbiamo visto proprio nell’altro lavoro di Protyach, My favorite job, da una forza uguale e contraria, ovvero quella di coloro si prodigano per aiutare il prossimo in queste situazioni. Ci sono un paio di passaggi che è utile citare per cogliere, probabilmente, il vero senso di 100% Off: il più esplicito è quello che chiude il film, interamente illustrato dai poetici disegni di Tzeliuba, nel quale si racconta come Kiusha, con il compagno e il cane, si avventurino nella città in macerie alla ricerca di latte per i bambini. C’è da aver paura, visto il contesto, ma in tre si possono fare almeno un po’ di coraggio l’un l’altra. Di latte non se ne trova ma, ad un certo punto, accanto ad un carro armato in fiamme, scorgono una stazione di servizio distrutta dal bombardamento. Tra gli scaffali rovesciati e in rovina, Kiusha riesce a trovare intatta una bottiglia di liquido infiammabile per caminetti, che andrà bene per accendere il fuoco, dal momento che la legna che hanno è tutta bagnata. È anche questo un saccheggio, sembra provocatoriamente chiedere nella sua chiusa Protyah? Formalmente sì, che si può dire. Eppure è chiaro che, a fronte di una tragedia immane –un numero incalcolabile di vittime, di traumi, di dolore, di sofferenza– voluta e ottenuta scientemente, il recupero –si può davvero parlare di saccheggio? seriamente?– di una bottiglia di alcool può avere una qualche –anche concettuale, simbolica, quel che si vuole– rilevanza? Ma, qui –adesso qui sì– entra in gioco il punto di vista morale della questione: se saccheggiare, in taluni casi, è tollerabile, chi stabilisce quali siano questi casi? Una guerra? Una carestia? La sopravvivenza? E che tipo, che livello, di sopravvivenza? È qui che i contorni si fanno sfumati e le regole del sistema capitalistico vanno in crisi. Ma c’è un altro momento, forse ancora più consono, per cogliere il nocciolo della questione. Ad un certo punto, scherzando, in un dialogo, si osserva come, per sopravvivere alla guerra, sia necessario vivere in una zona dove ci siano parecchi supermarket. Da notare anche il successivo riferimento all’«algoritmo» che, nella logica della battuta, avrebbe generato questa conclusione. L’algoritmo è forse il più grande totem della società capitalistica attuale, un concetto o riferimento che giustifica le peggiori nefandezze in virtù di una presunta scientificità che ne santifichi i presupposti. La realtà è che non serve l’algoritmo fittizio di 100% Off e nemmeno serve vivere in una città bombardata, per comprendere come la logica capitalistica sia contraria alla sopravvivenza di ciascuno, a meno che non risponda al profilo del consumatore ideale. In genere, nella mia attività di scrittura, non faccio riferimenti personali ma, per una simile occasione, farò un’eccezione. Vivo in Italia, in una cittadina perfettamente servita di ogni genere di servizio e infrastrutture; se non che, io personalmente abito in una frazione lievemente periferica. Particolare irrilevante se hai la patente, l’auto o, volendo anche la bicicletta. Ma una mia vicina di casa è sola, se non per il suo cagnolino e, forse mi è venuta in mente proprio guardando Kiusha camminare col suo cane. In ogni caso, la mia vicina è una donna anziana, non guida, non ha l’auto, non ha la bicicletta, né può andarci, vista l’età e la pericolosità delle strade. Nella mia frazione c’è una chiesa, memoria di un tempo in cui il Bettolino era una comunità, piccola ma con tutti i servizi necessari e indispensabili a ciascuno, a portata di cammino. Oggi è rimasto un panetterie, tre ristoranti –che in Italia non si morirà mai di fame– il British college e due saloni di parrucchiere. Non c’è una farmacia, un fruttivendolo, un’edicola, un macellaio; certo, a cinque minuti d’auto sono raggiungibili numerosi supermercati e centri commerciali, con buona pace della mia vicina e del suo cagnolino che, finché ne hanno la forza, vanno in giro a piedi. Parafrasando il buon vecchio Bogey ne L’ultima minaccia: «È la libertà, bellezza!». Almeno quella in chiave capitalista.

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sabato 17 maggio 2025

MY FAVORITE JOB

1669_MY FAVORITE JOB, Ucraina, 2022. Regia di Sashko Protyah

Mediometraggio sperimentale, My favorite job, racconta di come alcuni autisti volontari aiutino i civili ad evacuare da Mariupol, presa brutalmente d’assalto dall’invasione su larga scala russa. I protagonisti sono Ania e Yura, che raccontano le loro peripezie per attraversare i posti di blocco, con i militari filorussi particolarmente suscettibili di fronte all’operato dei volontari. La situazione è particolarmente tragica, ma i due attivisti la stemperano con massicce dosi di ironia nera, indispensabile per reggere l’urto dell’orrore bellico. Sashko Protyah, fa un gran lavoro assemblando filmati di formato diverso, interviste e scene dell’Ucraina distrutta dai pesantissimi bombardamenti, alle quali integra alcuni passaggi in computer grafica (Vova Morrow). Il problema principale, infatti, era filmare proprio dove si concretizzava parte della missione di Ania e Yura, ovvero il percorso tra  Mariupol' e Zaporizhzhya, disseminato di posti di blocco presidiati da militari russi particolarmente suscettibili a qualsiasi attività di documentazione della faccenda. L’aspetto quasi onirico di queste sequenze, enfatizzato da alcune scelte registiche –l’oscurità, una sorta di velata foschia, gli occhi demoniaci dei soldati, nere sagome minacciose– alimentano l’aspetto orrorifico della guerra. Nel finale, una carrellata sui volti delle persone messe in salvo da Ania e dai suoi volontari, ne propone le immagini ingrandite 5600 volte: non si riesce a coglierne le espressioni, così come è impossibile comprendere la tragedia che hanno dovuto sopportare. Se i soldati russi sono rappresentati come veri e propri diavoli, gli evacuati rischiano di essere fantasmi di loro stessi, come mostrato dagli sfuggenti ritratti conclusivi. Un destino atroce e ingiusto. Il titolo dell’opera fa riferimento alle parole di  Yura che, ad un certo punto, è bandito dalle terre occupate in quanto accusato di spionaggio: se vi verrà catturato, verrà passato per le armi senza troppe cerimonie. Yura, che aveva già perso il suo appartamento, non sembra farne drammi –ma è solo una diversa forma di sarcasmo per sopportare quest’ennesima ingiustizia– e si limiterà a dare una mano restando nei territori liberi dall’occupazione. La domanda che viene posta, a questo punto, è se il volontario non provi anche una sorta di sollievo, non dovendo recarsi nuovamente nei luoghi più pericolosi, avendo cioè una scusa valida per non farlo, una sorta di giustificazione morale. Ma Yura è consapevole di quello di cui l’han privato e risponde in modo sibillino: “È stato come perdere il tuo lavoro preferito” significa, infatti, vedersi privato della libertà. Non è importante se questo sia più o meno sicuro, se comporti più o meno rischi per la tua incolumità. La libertà non è questione di sicurezza ma, piuttosto, è un diritto inalienabile e, quella ucraina, è esattamente l’obiettivo da colpire e distruggere dall’Operazione Militare Speciale putiniana. 

LA STUDENTESSA E L'ORSO è uno studio sulla guerra russo-ucraina attraverso il cinema. 


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