Translate

lunedì 9 settembre 2024

IL TESTIMONE

1543_IL TESTIMONE (Svidetel')Russia 2023; Regia di Sergej Volkov.

Sul momento, l’aspetto più interessante de Il testimone di David Dadunashvili è una sorta di effetto collaterale del film che, perlomeno in Italia, si è manifestato in modo eclatante. Innanzitutto si può dire che quello di Dadunashvili non è che sia un capolavoro della Settima Arte; tuttavia rappresenta la possibilità di sentire – o meglio vedere e sentire, dato che è un film – la «campana russa» nel merito dell’escalation nella crisi tra Mosca e Kyïv. Anche unicamente questa motivazione dovrebbe renderci Il testimone una fonte preziosa. Naturalmente esiste il rischio, ed è anche probabile, che, essendo Il testimone una produzione russa, sia intriso della propaganda del Cremlino, ma questa è un’eventualità con cui dobbiamo, grosso modo, convivere sempre. Chi garantisce che le opere prodotte nel mondo occidentale siano obiettive? O, per restare nella questione specifica, chi ci assicura sull’attendibilità dei testi provenienti dall’Ucraina? Non è un mondo facile, quello di oggi; l’unica consolazione è che non lo è mai stato. In ogni caso, grazie all’opera di alcuni attivisti [legati al canale Donbass Italia, almeno stando al sito La Riscossa, http://www.lariscossa.info/il-testimone/, visitato l’ultima volta il 18 agosto 2024] il film di Dadunashvili ha ottenuto una pur sparuta distribuzione nel Belpaese. Senonché, in alcune circostanze, tra cui quella di Bologna, siano incorse alcune difficoltà. Il comune felsineo, appreso che presso la «casa di quartiere» di Villa Paradiso, un luogo istituzionale, era in programma Il testimone, film definito “di propaganda anti-ucraina”, ha diramato, tramite comunicato stampa, la propria contrarietà alla proiezione dell’opera oltre ad una richiesta ufficiale di non procedere alla stessa. Veemente la replica del Coordinamento Paradiso, l’associazione che aveva organizzato l’evento: in ballo c’era –e c’è– la libertà di comunicazione. [Queste informazioni sono reperibili su http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/ visitato l’ultima volta il 18 agosto 2024].
In effetti, il problema sollevato dalla citata organizzazione, e fatto proprio da tutto l’ambiente della odierna «controcultura», non è affatto campato per aria. L’opera di Dadunashvili è, effettivamente, un’opera intrisa di propaganda filorussa, del resto il film è stato realizzato con i contributi del Ministero della cultura russa
[dalla pagina italiana del film di Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Il_testimone_(film_2023)#cite_note-6, visitata il 18 agosto 2024, che rimanda ai siti http://tass.ru/kultura/15970485 e http://"Это фильмы не для заработка с проката". Кинокритик Иван Филиппов объясняет, кто и почем делает к нопропаганду РФ о войне в Украине (currenttime.tv)и] e il Cremlino è al momento impegnato in guerra contro l’Ucraina: normale –non giusto o condivisibile, ma normale inteso come «nella norma»– quindi, che utilizzi ogni mezzo per cercare di prevalere. 


La Storia del cinema è piena zeppa di esempi del genere; e si tratta di film realizzati ad ogni latitudine, sia chiaro. Tutto questo, di per sé, non è, quindi, così insolito; forse è grave, ma dovremmo almeno averci fatto il callo, se non proprio preso le contromisure. Se non dobbiamo credere in modo acritico a tutto ciò che vediamo e leggiamo in un documentario, sulle pagine dei giornali, nei servizi dei notiziari o su internet, men che meno lo si deve fare a fronte di un’opera di finzione come è Il testimone. Questa è, grosso modo, la tesi dei giornalisti che hanno tuonato contro la censura di regime di quei comuni, come Bologna, che hanno ostacolato la libera circolazione del film. Se ne può avere riscontro su alcuni siti, tra cui La Riscossa [http://www.lariscossa.info/il-testimone/ visitato il 18 agosto 2024], Marx21 [http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024] e In The Net [http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/ visitato il 18 agosto 2024]. Esplicito, della denuncia di questi siti, il titolo del citato articolo di Marx21: “Il testimone, il film russo che in Italia non deve essere visto” che, in modo sottointeso, reclama sin da subito il diritto dello spettatore di farsi liberamente una propria idea. E su questo non ci possono essere obiezioni.
Quello che la vicenda ha messo in clamorosa evidenza è la schizofrenica incapacità dell’élite culturale italiana, sia che si tratti di giornalisti, politici, intellettuali o uomini delle istituzioni, di accettare anche solo la presenza di una voce fuori registro. Il mondo occidentale si autodefinisce libero e, in nome di questa libertà, contempla la presenza di alcune dissonanze dal coro –le minoranze di etnia, di religione o nell’ambito di identità e preferenze sessuali– ma su certi argomenti è proibito dissentire dall’ideologia mainstream. Uno degli effetti indesiderati di questa censura preventiva, che vuole mettere a tacere chi prova a raccontare qualcosa di diverso dalla “versione di regime”, è che lascia la possibilità ai dissidenti di paventare chissà quali ragioni anche qualora esse siano infondate. Dal momento che è impossibile essere immuni dalla “propaganda di regime”, vera o presunta che sia, può essere interessante, prima di affrontare il film di Dadunashvili, introdurlo con qualche spunto preso da quella controcultura che ne reclama l’importanza. Così, giusto per non incorrere nel rischio di bollarlo come flop artistico oltre che al botteghino; posto che le notizie circolanti, a proposito del riscontro al box office dell’opera, siano attendibili.


E poi, in effetti, le domande della giornalista Agata Iacono di Marx21 sembrano legittime e spontanee: “Non sanno, forse, che si tratta a tutti gli effetti di un film, cioè di un soggetto scritto e sceneggiato, musicato e recitato da attori, mai spacciato per documentario? E, soprattutto, perché si affannano tanto a boicottare e dichiarare fallita un’opera cinematografica che è stata proiettata per la prima volta in Italia, a Roma, il 22 ottobre e, ad oggi, solo attraverso circuiti alternativi, in piccole salette noleggiate, su iniziativa del Comitato Italiano per il Donbass, con ostacoli di ogni tipo, pressioni politiche bipartisan, censura, divieto di distribuzione nelle sedi istituzionali? Fa così paura questo film?” [
http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024]. Forse, i motivi di questa paura, sono quelli addotti da Simona Maria Frigerio su In The Net: “Un’opera che non gronda della retorica statunitense di un Salvate il Soldato Ryan, ma che mira a regalarci –attraverso un uso della macchina da presa morbido e intimo– la narrazione di fatti recenti, ma da un altro punto di vista. E sebbene il film sia pura fiction, molti riferimenti non lo sono –come avviene spesso nelle pellicole di guerra”. [http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/]. Quindi, si tratterebbe di un film di finzione, ma qualcosa di vero c’è; il che sembra ragionevole. Alessandro Baroni su La Riscossa chiarisce ulteriormente: “Insomma, tutto sommato siamo di fronte a un film che lancia un messaggio di speranza. Agli occhi di Dadunashvili il grosso problema degli europei è l’ignoranza. Un problema reale che si fonda sul ferreo controllo del sistema socialmassmediatico da parte di un’oligarchia finanziaria che non permette alle voci critiche di arrivare al grande pubblico”. [http://www.lariscossa.info/il-testimone/].

Dunque, cosa c’è di tanto inopportuno ne Il testimone, questo film ritenuto scomodo dalla élite e osannato come opera di primissimo livello dai citati siti di controcultura? Perché, a proposito, stando a questi stessi recensori, siamo di fronte ad un lungometraggio da leccarsi i baffi. Scrive, Agata Iacono: “Ma il film non è un film violento, non concede spazi alla cruda realtà dell’orrore e della violenza inutile, inspiegabile, ingiustificabile, com’è la violenza della guerra. Di tutte le guerre. La sfiora, tra scenografie impressioniste e colonna sonora di elevatissima qualità, soffermandosi su un volto di un bambino, un dolore muto, un’assenza, una frase, una carezza dell’anima, un vuoto di tempo e di spazio. «Un capolavoro», hanno gridato in sala con un applauso lunghissimo. È arte: e l’arte è universale, trascende la propaganda. Daniel Cohen sarebbe potuto essere ovunque e in ogni tempo. Lui si salva, intuisce la trappola, il sacrificio, cui era destinata l’intera popolazione del paesino ostaggio dei neonazisti, perché fosse messo in scena un atroce attacco russo. L’epilogo, il finale, è, secondo me, la chicca che fa de Il testimone un film da non perdere. L’illustre e famosissimo violinista belga viene invitato, naturalmente, dalle televisioni europee a raccontare la sua drammatica esperienza. È il testimone. Ma quando prova a raccontare la verità alla TV belga… (per chiarezza di informazione, la recensione termina così, coi puntini di sospensione, NdA). [Agata Iacono, Il testimone, il film russo che in Italia non deve essere visto, da Marx21 letta su http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024]. Simona Maria Frigerio: “Nel confronto tra il protagonista, l’eccellente, spaesato, inconsapevole e umanissimo Karen Badalov –nel ruolo del violinista mr. Cohen– e il suo antagonista (come da tragedia greca) –l’altrettanto bravo Alexander Dyachenko– ciò che ci ha colpiti di più è l’accusa mossa contro un bambino del Donbass che afferma di chiamarsi Misha –e non usa Mykhailo (il corrispettivo in ucraino). Il nazionalismo spinto fino alla pulizia etnica contro i russofoni, del resto, non è diverso dalla «missione biblica» degli israeliani di creare la «grande Israele» attraverso il genocidio del popolo palestinese”. [Simona Maria Frigerio, Perché dà tanto fastidio un film russo? da In The Net, letta su http://www.inthenet.eu/2024/07/19/il-testimone-un-finale-che-e-un-inizio/ visitato l’ultima volta il 19 agosto 2024]. Alessandro Bartoloni non si spinge troppo in là in valutazioni artistiche, ma affronta il testo da un punto di vista tecnico: “Pertanto, non siamo di fronte a un documentario, bensì a un prodotto dell’industria cinematografica che sfida l’egemonia statunitense sul difficilissimo terreno dell’intrattenimento. Lo scopo è quello di agganciare il pubblico non politicizzato, che ascolta le notizie distrattamente e finisce per farsi trascinare dalla corrente. Insomma, il «target» è la grande massa che accoglie e riproduce il «sano e semplice buonsenso» su cui si fonda la narrazione dell’aggressione e dell’aggredito. Il protagonista, infatti, malgrado sia oggettivamente un intellettuale, non sa nulla di quanto accaduto tra Russia e Ucraina negli ultimi anni. Non conosce il colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti, il massacro della casa dei sindacati di Odessa, la guerra in Donbass. E così, quando si ritrova ad avere a che fare con i tagliagole nazisti del battaglione Azov, non ha la minima idea di chi ha di fronte”. [Alessandro Bartoloni, Il testimone, da http://www.lariscossa.info/il-testimone/ visitato il 19 agosto 2024]. Da questi stralci ci si può fare un’idea di come i nostrani attivisti della controcultura abbiano inteso Il testimone. Si potrebbe dare spazio finalmente al film in questione, eppure, proprio la verve dei nostri volenterosi militanti introduce alcuni problemi utili ad inquadrare ancor meglio la faccenda. Ad esempio: perché, stando all’articolo di Agata Iacono, l’arte, salva Il testimone dall’essere film di propaganda, mentre non sembra affatto fare lo stesso con Salvate il soldato Ryan? Perché, nella recensione di Alessandro Bartoloni, si sottolinea come il protagonista non conosca “nulla di quanto accaduto tra Russia e Ucraina negli ultimi anni” e poi si citano unicamente tre eventi che sono, diciamo così, favorevoli a Mosca? Sono gli unici fatti tragici che sono accaduti? La Russia, che ha inviato carri da guerra, aerei da combattimento e soldati armati fino ai denti –su un suolo, questione linguistiche e culturali delle minoranze a parte, che è formalmente un paese sovrano diverso– non ha davvero niente di cui essere rimproverata?
Lo sentite? Lo sentite questo rumore, questo stridere?
Sono le unghie dei nostri cari attivisti che cominciano a scivolare sui vetri.


E ora, passiamo finalmente a Il testimone di David Dadunashvili, film modesto e poco avvincente che dissemina di dettagli atti a propagandare, è davvero il caso di dirlo, una certa idea sulla spinosa questione ucraina. Cominciamo col protagonista, il violinista Daniel Cohen (Karen Badalov), il cui profilo ci rivela subito una serie di indizi. È belga, e questo rimanda direttamente a Bruxelles, sede di varie istituzioni dell’Unione Europea; è, al contempo, di evidente origine ebraica, fatto che aiuterà a rievocare l’Olocausto unitamente alla presenza dei neonazisti ucraini, al numero scritto sulla mano, ai campi di tortura e ai viaggi forzati in treno. Ma è anche un artista, un intellettuale e questo fa di lui il perfetto testimone, quello convocato a cominciare dal titolo e, come tale, ha il privilegio di conoscere la verità. Anche perché l’arte, quando raggiunge la purezza, è sempre vera. Ha quindi ragione Agata Iacono; il problema è che il paragone gode della proprietà commutativa e, se un’opera si tiene a debita distanza dall’arte, è probabile che finisca altrettanto lontano anche dalla verità. Ma procediamo con ordine. Tra i vari appunti che si possono cogliere, c’è lo sfogo dell’agente di Cohen, Bridget (Serafima Nizofima), che, quando il loro viaggio a Kyïv comincia a prendere una piega sinistra, usa parole di disprezzo per gli ucraini. Il passaggio è costruito come se le parole sputate con rabbia dalla donna corrispondano al vero sentimento comune europeo –Bridget si presuppone sia belga, come il suo assistito– nei confronti dei paesi dell’estremo est Europa. Un elemento tipico del cinema russo di propaganda recente: si cerca una giustificazione all’odio –odiamo gli europei perché loro ci odiano– piuttosto che provare reali segnali di distensione. Alcuni di questi dettagli –utili a creare una situazione generale che induca a farsi una certa idea– che corroborano il messaggio centrale più diretto, sono sfumati, o anche solo simbolici. Come l’orsacchiotto di peluche –l’orso è il simbolo per antonomasia della Russia– che accomuna i due ragazzini del film, e che è una delle poche figure di speranza dell’intera opera. Questo cesellato lavoro in sede di scrittura si può cogliere perfino nelle parole del «cattivo», l’ufficiale ucraino Panchak (Alexander Dyachenko). Quando Cohen, prigioniero dei neonazisti ucraini di cui Panchak è il comandante, vede tra gli ostaggi un ragazzino che gli ricorda il figlio, l’ufficiale coglie l’occasione per un paragone “Tutti ricordano qualcuno; qualcuno sembra un figlio; qualcuno somiglia al padre. L’Ucraina è come uno stato”. In pratica, lo stesso Panchak ammette che l’Ucraina non sia un vero stato, gli somigli solamente. Questi particolari che sembrano buttati là un po’ distrattamente, ma sono tutti concordanti con la tesi principale, non sono che dettagli, certo; il loro è un compito di sostegno. Ad alimentare con vigore la tesi su cui è impostata la narrazione di finzione, ci sono tutti gli espliciti rimandi ai nazisti, il Mein Kampf, il quadro con Hitler, la musica composta da Horst Wessel, militare tedesco che compose l’inno nazista, e i già citati rimandi all’Olocausto. Il tutto per ribadire come le formazioni militari e paramilitari della Azov, dell’Aidar, della Tornado, e via tutte le altri, siano nazisti per cui la guerra è l’unica soluzione. Le parole che il regista Dadunashvili mette in bocca a Panchak, legittimano poi l’azione bellica russa in quanto è lo stesso comandante dell’Azov ad ammettere che la guerra è l’unico modo di affermare il diritto di esistere.
Interessante, da un punto di vista della strategia della comunicazione di guerra –leggi, propaganda– sono poi le velate illazioni alle assonanze tra luoghi ucraini tristemente noti per eventi tragici legati alla guerra e alcune parole inglesi: Bucha e butcher’s (macelleria), Kramatorsk e crematory (crematorio), a cui si aggiunge il Semidveri –nome del villaggio del film– e cimitery (cimitero). Ma Cohen, nel finale, svela l’inganno: Semidveri significa «sette porte» e non cimitero.  Quindi, così come i media occidentali hanno utilizzato strumentalmente l’assonanza del termine «cimitero» per riferirsi alla strage di Semidvery, allo stesso modo –si intende con una sottile allusione– devono aver fatto per quelle del «macello» di Bucha e del «crematorio» di Kramatorsk.  
E fin qui non ci dovrebbe essere niente da dire; si è detto, è un film di finzione, con qualche spunto veritiero, e non è dato sapere quale sia.
Beh, si è usato il condizionale non per caso, perché qualcosa che stona c’è eccome.
Seppur vogliamo concedere le «attenuanti» da film di propaganda, cosa non necessaria secondo i recensori della controcultura, Il testimone si presenta in modo curioso: se prendiamo il citato Salvate il soldato Ryan, che, secondo Agata Iacono “gronda retorica statunitense”, c’è qualcosa che salta all’occhio subito. Nel film di Spielberg ci sono gli americani, quelli che stando alla giornalista di Marx21 si occupano di fare propaganda; poi ci sono anche i tedeschi, per la verità, ma al centro della scena ci sono Tom Hanks e Matt Damon nei panni di due yankee purosangue. Nel film di Dadunashvili, che vorrebbe riequilibrare la retorica anti-russa, di militari del Cremlino non ve n’è praticamente traccia. Per la verità, sono russi quegli sparuti e assai poco credibili samaritani in divisa sui cui mezzi militari campeggia una «V» bianca, non famosa nei nostri lidi come la famigerata «Z», ma si tratta comunque di un’insegna inequivocabile. Per il resto, c’è qualche vago accenno a missili russi e ad un attacco russo, ma appare chiaro che, nell’ottica del film, la responsabilità della guerra e del massacro nella stazione di Semidveri sia da attribuire unicamente a Panchak e ai suoi criminali nazisti. In sostanza, Il testimone è un film russo su una guerra tra Russia e Ucraina, nel quale i soldati di Mosca non sono che fugaci comparse e quelli di Kyïv criminali della peggior specie. Può essere credibile un simile punto di vista? Non certo nell’ottica di proporsi come film pacifista. Per capirci, pensate al sergente tedesco Artur de La grande illusione [
1937, Jean Renoir], al quale i detenuti di guerra francesi si affezionano o ai due soldati, uno francese e uno tedesco, nella buca di All’ovest niente di nuovo [1930, Lewis Milestone]. Sono due film degli anni Trenta, uno francese e uno americano, formalmente non c’era nessuna attività bellica che coinvolgesse gli stati dei paesi produttori delle due opere, ma non serve essere degli storici per sapere che, già nel periodo tra le due guerre, i tedeschi erano ritenuti i «cattivi» ideali, dal momento che il Trattato di Versailles del 1919 –con la «clausola di colpevolezza» dell’articolo 231– accusava la Germania di essere la principale responsabile del conflitto messo in scena nei due film citati. C’è poi un aspetto che riguarda l’uso della musica: ne Il testimone ha un ruolo determinante, sia per la professione del protagonista, è un violista famoso, sia per la sensibilità di questi in qualità di artista, che –proprio attraverso l’interpretazione dell’attore Karen Badalov intrisa di profondo sgomento– il regista cerca di traferire alla sua opera. Il passaggio centrale poi, si gioca sulla contrapposizione tra la soave musica del violino di Cohen e i beceri canti belluini dei militari ucraini. In sostanza si rimarca la mancanza di umanità, di sensibilità dei soldati dell’Azov utilizzando la musica come metro di comparazione. Si prenda il finale di Orizzonti di gloria [1957, Stanley Kubrick] con la ragazza tedesca che canta in mezzo ai soldati francesi, per avere un’idea non solo di vero cinema commovente ma di come si cerchi una reale condivisione, una riappacificazione, con l’altro, il nemico.
Forse, il film di Dadunashvili racconta davvero la verità; ma certo non vi arriva tramite il percorso artistico. Perché quando si dice che “l’arte trascende la propaganda” si deve intendere proprio che l’artista non deve incorrere mai nelle logiche meschine del proprio interesse o di quello della sua fazione, nazione o qualunque sia l’appellativo della sua parte in causa. L’arte è qualcosa che nasce da uno spunto personale e deve crescere dal proprio interno: per questo, in genere, in casi di opere di natura bellica vi si riscontra una nota di autocritica. Certo, un gigante come Lewis Milestone –americano di origine russa– poteva prendere un testo profondamente tedesco come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed interpretarlo alla perfezione. C’è una critica alla Germania dell’epoca e alle sue dottrine militariste, ma c’è anche l’umanità dei ragazzi tedeschi che incautamente si arruolano per poi pentirsene amaramente. Ne Il testimone, i pochissimi abitanti dell’Ucraina che sembrano dotati di umanità, uno per tutti il piccolo Misha –non a caso citato come passaggio simbolico nella citata recensione della giornalista di In The Net– sono russofoni.
L’arte, per essere tale, deve nascere dal cuore, dall’animo; e non dagli interessi di bottega, di paese, di popolo e, men che meno, di patria. E, proprio negli ambienti della controcultura, questo dovrebbe essere chiaro, tra l’altro. Tornando in tema strettamente artistico, l’arte è, in sostanza, il frutto di un esame di coscienza, che poi si traduce in qualcosa di concreto; più profondo è l’esame, più profondo è l’animo dell’artista, migliore e più pura sarà l’arte. E allora raggiungerà la vetta della Verità Assoluta. Ma che esame interiore ci può essere in un film di un autore georgiano che lavora per una produzione russa, e fa un atto di durissima accusa agli ucraini, togliendo totalmente dal confronto ogni controparte? Se la speranza di avere una voce fuori dalla “retorica imperialista” che sia attendibile, dobbiamo aspettarcela da Il testimone, stiamo freschi.
Così come se sperassimo di trovare uno sguardo almeno un pizzico meno fazioso della propaganda di regime, e pretendessimo di trovarlo negli ambienti ancora più ottusamente schierati della nostrana controcultura.   



Nessun commento:

Posta un commento