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domenica 29 settembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - TUTTO DI LEI TRANNE IL NOME

1553_QUI SQUADRA MOBILE - TUTTO DI LEI TRANNE IL NOME . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

In un paese che, per tradizione e cultura, non vedeva di buon occhio le forze dell’ordine, tra i tanti compiti che la Rai si era assegnata, c’era anche quello di riqualificarne la figura. Sin quasi dalle sue origini –era il 1958 quando fu trasmesso Aprite: Polizia!– la televisione di stato aveva prodotto costantemente sceneggiati, telefilm o originali televisivi con protagonisti commissari, detective e marescialli vari. La caratteristica che li contraddistingueva, più o meno tutti, era la spiccata umanità, un’attitudine che, evidentemente, interessava assai di più gli autori rispetto alle specifiche qualità d’investigazione. Ma, nel 1973, con «gli anni di piombo» ormai deflagrati, occorreva qualcosa di più specifico, di più intenso, per provare a riappacificare il clima e cercare di cancellare alcuni incresciosi episodi che, durante quel turbolento periodo, avevano visto protagonisti anche i rappresentanti delle forze dell’ordine. Proprio il 1973 si era aperto malissimo, in tal senso, con l’uccisione per mano di un agente di polizia di Roberto Franceschi, durante una manifestazione del Movimento Studentesco, a Milano. [pagina web Chi era costui? https://www.chieracostui.com/costui/docs/search/scheda.asp?ID=337 visitata l’ultima volta il 25 settembre 2024]. La fama della polizia raggiunse in quei giorni uno dei punti più bassi in termini di popolarità, anche perché, come detto, non si trattava affatto né di un caso isolato e nemmeno del primo morto che gli agenti lasciavano sull’asfalto. E, purtroppo, non sempre si trattava di persone coinvolte nelle dilaganti proteste: era ancora fresco il ricordo del povero Giuseppe Tavecchio, un pensionato colpito e ucciso accidentalmente da un lacrimogeno lanciato dalle forze dell’ordine, sempre a Milano. [sito del Comune di Milano, pagina web http://www.comune.milano.it/web/milano-memoria/-/lancio-targa-giuseppe-tavecchio visitato l’ultima volta il 25 settembre 2024]. È in questo clima che Massimo Felisatti e Fabio Pittorru scrivono il soggetto per Qui Squadra Mobile, la cui regia sarà affidata al solido Anton Giulio Majano. Il regista, per presentare il suo lavoro, in un’intervista al Radiocorriere, diede alcune dritte: “La tecnica narrativa da me adottata, non è quella del cosiddetto «doppio binario» che consente di raggiungere il massimo della suspense, alternando indagine poliziesca e comportamento del criminale. Nei miei film televisivi l’assassino è solo l’ultimo anello di una lunga catena investigativa, il risultato di un mosaico pazientemente costruito. La scoperta del colpevole, insomma, avviene con gli occhi e i mezzi del poliziotto, rifiutando il brivido facile e nel rispetto totale dei metodi di indagine che sono tipici della nostra Polizia. Sotto questo profilo, quindi, i miei telefilm posseggono un innegabile valore documentario sulle tecniche operative in uso nel nostro Paese nella lotta per la repressione del crimine”. [intervista a Anton Giulio Majano, Giuseppe Tabasso, Gli anti-Maigret di casa nostra, Radiocorriere TV, n. 19, 6 maggio 1973, pagina 42 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. In effetti, il primissimo episodio, Tutto di lei tranne il nome, non è particolarmente avvincente, ma è comprensibile che più che sull’enigma da risolvere, nell’esordio di una serie televisiva, ci si concentri sui personaggi. Ed essendo Qui Squadra Mobile, come si comprende fin dal titolo, basato sul lavoro d’equipe, è chiaro che la fase introduttiva possa risultare un tantino ferruginosa. Anche perché, seppur c’era la necessità di migliorare la considerazione popolare della Polizia, si decise di riuscirvi insistendo nella tradizione italiana televisiva che voleva gli agenti dotati di spiccate caratteristiche di umanità. Era quindi necessario prendersi il tempo per approfondire le psicologie di ogni personaggio, non bastava mostrare detective infallibili alla Sherlock Holmes, dal momento che lo scetticismo che accompagnava le forze dell’ordine aveva, come abbiamo visto, radici assai più dure da estirpare. Per capirci, Ernesto Baldo, ai tempi, scriveva esplicitamente –e non su un ciclostilato della contestazione ma sempre sul Radiocorriere Tv, in pratica l’organo di stampa ufficiale della televisione di stato– “La Polizia italiana non ha mai goduto popolarità” [Ernesto Baldo, In primo piano la donna-poliziotto, Radiocorriere TV, n. 21, 20 maggio 1973, pagina 110 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. Al protagonista di spicco, il capo della Mobile, Antonio Carraro (Giancarlo Sbragia), spetta quindi il compito di fare un po’ gli onori di casa nei confronti dello spettatore; per via del suo ruolo preminente, è ovviamente sempre la figura di riferimento della serie, ma questo fatto salta maggiormente all’occhio nella prima puntata, quando non si conosce alcuno dei personaggi. Sbragia è in gran forma e si muove con la massima disinvoltura sullo schermo; a proposito di Carraro, l’interprete ne sottolinea efficacemente il carattere solo apparentemente senza zone d’ombra. In un’intervista, lo stesso Sbragia osservò: “La contraddizione di quest’uomo consiste in questo: che, impegnato a risolvere i problemi che quotidianamente gli pone il suo lavoro, non si accorge che le cose in casa sua vanno male. Da qui il conflitto con la figlia, che è una ragazza di sedici anni, con tutti i problemi delle ragazze della sua età”. [intervista a Giancarlo Sbragia in Salvatore Piscicelli, Anche ai figli spetta la libertà di sbagliare, Radiocorriere TV, n. 20, 13 maggio 1973, pagina 34 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. Nella serie, come accennato, la componente umana è fondamentale e, non a caso, i problemi famigliari dei protagonisti, primo fra tutti proprio Carraro, sono uno dei punti fermi del racconto. Ne consegue che anche i famigliari, in questo caso la moglie Mafalda (Mariolina Bovo) e la già citata figlia, Laura (Roberta Paladini), sono membri di un discreto rilievo all’interno del cast. Come detto, il primo episodio non è in sé trascendentale, la traccia principale, con un oscuro scrittore di storie per il mercato della letteratura pornografica che viene ucciso inscenando un suicidio, non decolla mai realmente. Per la verità, nonostante il giallo non sia del tutto avvincente, lo spettatore può tirare un sospiro di sollievo quando si rende conto che l’incipit, con la «banda degli elettrodomestici», è un semplice diversivo. Le scene d’azione con i teppisti che si aggirano per Roma e il loro soci, i ladri veri e propri, sono tra le cose meno convincenti del film. Nonostante siano numerose le scene girate all’aperto, la capitale italiana, ambientazione della serie, è vista prevalentemente in scene d’interno, come da tradizione degli sceneggiati Rai d’epoca. Tra i locali più iconici di Qui Squadra Mobile c’è naturalmente la Sala Operativa che, a detta degli autori, è stata ricostruita in studio prendendo fedelmente a modello quelle della realtà in uso alla Polizia. [Che cos’è la Sala Operativa, Radiocorriere TV, n. 19, 6 maggio 1973, pagina 44, Edizioni ERI, Torino]. Se è subito chiaro che, tra i collaboratori di Carraro, il personaggio designato al ruolo di coprotagonista è il capo della Omicidi, Fernando Solmi (Orazio Orlando), è interessante la presenza di una donna nella squadra. L’ispettrice Giovanna Nunziante (Stefanella Giovannini) ha un duplice compito, in questo primo episodio: da una parte deve reggere la storia sentimentale con il capo della sezione Rapine, Angelo Argento (Elio Zamuto), dall’altro deve occuparsi di una dei colpevoli, in quanto donna. Nel complesso una prima puntata interlocutoria ma che lascia intravvedere buone potenzialità, a patto di mettere in scena un intreccio investigativo più accattivante. 


venerdì 27 settembre 2024

LA STRAGE DEL 7° CAVALLEGGERI

1552_LA STRAGE DEL 7° CAVALLEGGERI (Sitting Bull). Stati Uniti 1954; Regia di Sidney Salkow 

Il titolo originale di La strage del 7° Cavalleggeri, film western di Sidney Salkow, è Sitting Bull, ovvero il nome americano del celebre Toro Seduto. Per la verità, quello di Salkow non è certo una biografia, seppure la figura del capo Sioux sia centrale al racconto; il titolo italiano fa invece riferimento alla Battaglia del Little Bighorn, senza dubbio lo scontro bellico tra cavalleria e indiani più famoso di sempre. Ma anche in questo caso si tratta di un titolo che non rappresenta a dovere il film, considerato l’eccessiva libertà con cui sono ricostruite le fasi della battaglia. Ancora una volta una superficialità che spesso si confonde con una forma di razzismo quasi inconsapevole, compromette i buoni intenti che si distinguono chiaramente alla base del soggetto. L’idea su cui si fonda La strage del 7° Cavalleggeri è che uomini buoni ci siano tra i bianchi –il maggiore Parrish (Dale Robertson)– come tra gli indiani –Toro Seduto (J. Carrol Naish). Allo stesso modo, persone di stampo certamente peggiore li troviamo da una parte, il colonnello Custer (Douglas Kennedy) e dall’altra, Cavallo Pazzo (Iron Eyes Cody), per l’occasione battezzato con un improbabile Cavallo Furioso. Se perfino la figura di Custer è stata oggetto, nel corso dei decenni, di numerosi «aggiornamenti» –dal momento che, nonostante sia sempre rimasto un personaggio discutibile, pare non fosse quell’ottuso guerrafondaio come spesso viene dipinto– la descrizione di Cavallo Pazzo che emerge dal film è assolutamente inaccettabile. D’accordo, La strage del 7° Cavalleggeri non è un documentario, tuttavia ci sono figure storiche, e in questo senso Cavallo Pazzo perfino più dello stesso Toro Seduto, che, per via del destino personale e del proprio popolo, vanno trattate con un’adeguata riverenza. Attenzione, non si tratta di santificazioni fatte un tanto al chilo: premesso che una biografica fedele di Cavallo Pazzo offrirebbe mille spunti narrativi degni di interesse, sono accettabili tutte quelle interpretazioni rispettose della sua figura storica ma sono anche lecite le parodie o le versioni umoristiche, dal momento che non vi è nulla di meglio della libertà di espressione. Ciò che stona, in opere come La strage del 7° Cavalleggeri, è l’approccio che si finge storico salvo poi raccontare i fatti non tanto adeguati al media in questione, in questo caso il cinema, ma completamente stravolti. La Battaglia del Little Bighorn è altresì completamente modificata, e questo, più che essere un ulteriore punto di debolezza del film, permette di fare un distinguo e focalizzare meglio il problema. Che uno scontro bellico, o un altro evento storico generico, venga travisato da una ricostruzione di pura finzione, non rappresenta certo un problema; gli appassionati di Storia sanno che per avere informazioni attendibili non devono certo affidarsi al cinema o ad altri media «leggeri». Diverso il caso in cui vengano coinvolte persone che, oltre al valore storico, abbiano anche un’importanza capitale dal punto di vista umano, com’è appunto il caso di Cavallo Pazzo. Uomini che, e questo è il fattore cruciale, hanno pagato con la propria vita la fedeltà ai propri ideali non possono essere trattati con approssimazione, almeno non finché il loro valore non sia stato universalmente riconosciuto e sia ben chiaro a tutti che quella che si sta eventualmente mettendo in scena sia unicamente una finzione del tutto svincolata dalla realtà. E, per quanto il cinema hollywoodiano, già negli anni Cinquanta, avesse compreso le ragioni dei nativi nella Questione Indiana, non è certo questo il caso. 




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mercoledì 25 settembre 2024

SUL SENTIERO DI GUERRA

1551_SUL SENTIERO DI GUERRA (Brave Warrior). Stati Uniti 1952; Regia di Spencer Gordon Bennet

In nessun caso si può pretendere da un film che non si spacci per documentario –e anche qui ci sarebbe eventualmente da discutere– di essere rigoroso da un punto di vista storico. Tuttavia gli autori e i produttori cinematografici sono ben consci della potenza persuasiva dei film, anche di quelli che possano sembrare, a prima vista, semplici opere di finzione. Figuriamoci un lungometraggio come Sul sentiero di guerra, regia di Spencer Gordon Bennet, che comincia con una cartina del Territorio Indiano dell’inizio del XIX secolo e lascia tendenziosamente intendere che quello che ci si appresta a vedere abbia un solido fondamento storico. E fin qui non ci sarebbe niente di male, intendiamoci: la Storia è il miglior soggetto a disposizione se si vuole raccontare una vicenda avventurosa. E non ci sarebbe niente di sbagliato nemmeno se poi gli autori avessero «aggiustato» gli eventi al fine da renderli più avvincenti, o adeguato la questione ai canoni cinematografici, infilandoci una storia d’amore in primo piano, tanto per fare un esempio. Tutto lecito e comprensibile; si può tollerare persino una certa partigianeria, trattandosi di un tema bellico –la Guerra Anglo-Americana del 1812– che celebrava in modo originale l’orgoglio yankee, giunto ai vertici nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Ma quello che si vede in Sul sentiero di guerra lascia davvero senza parole: il regista Gordon Bennet e lo sceneggiatore Robert E. Kent fanno addirittura «saltare la barricata» ad uno dei protagonisti storici della vicenda e del quale, in quanto americani, avrebbero dovuto serbare un po’ più di rispetto. Il capo indiano Tecumseh (nel film, Jay Silverheels), della tribù degli Shawnee, fu un acerrimo nemico degli Stati Uniti, già nel 1811 con la cosiddetta Guerra di Tecumseh, in avvenimenti che avvengono immediatamente prima di quelli raccontati –in modo assai romanzato– nel film di Gordon Bennet. L’anno successivo, e qui veniamo ai fatti travisati nel film, il capo Shawnee si alleò con gli inglesi, cercando di prendersi la rivincita contro gli invadenti statunitensi, e tra i passaggi più importanti di questo conflitto si registra proprio la Battaglia di Tippecanoe ricostruita con assoluta libertà dagli autori della pellicola. Una libertà talmente esagerata, al punto che Tecumseh diventa, in Sul sentiero di guerra, fedele alleato degli americani! 

E non basta: sullo schermo, il capo Shawnee è assolutamente convinto che gli indiani debbano adeguare i loro usi e costumi allo stile di vita degli uomini bianchi. In un dialogo con Laura (Christine Larsen), la protagonista femminile del film, Tecumseh ammette candidamente che i nativi hanno un ritardo di secoli nei confronti della civiltà europea, di cui gli americani erano divenuti gli alfieri. Il che, dalla nostra prospettiva, può anche essere, in qualche modo, comprensibile, ma mostrato nei termini del film di Gordon Bennet risulta troppo svilente per gli indiani, che avevano piuttosto una cultura e una civiltà con molti punti da salvare e considerare in modo adeguato. Che a rinnegare la validità della propria cultura sia mostrato un personaggio della caratura del capo Shawnee è, da un punto di vista morale prima che storico, inaccettabile. L’impressione, per la verità, non è di esplicito razzismo, da parte degli autori, quanto piuttosto di goffo paternalismo. Tecumseh storicamente fu un leader indomito e carismatico: l’idea di «convertirlo» alla causa americana sembra più il tentativo di salvare capra e cavoli, nello specifico gli indiani e la conquista del west. Il tentativo è particolarmente maldestro, e per definirlo tale basterebbe già quanto visto, ma a ciò si aggiunge l’impostazione della storia sentimentale che si sviluppa contemporaneamente agli eventi «storici». Tecumseh è innamorato di Laura, che, guarda un po’, è purtroppo infatuata dell’altro protagonista maschile, il bianco Steve Ruddell (Jon Hall). In ogni caso, il capo indiano ritiene di non potersi dichiarare apertamente finché non sarà riuscito ad integrare la sua tribù al sistema di vita dell’uomo bianco: il villaggio di Tippecanoe, nel film costruito sul modello di una città americana, sembra quindi spianare la strada a Tecumseh nella vicenda sentimentale. Da parte degli autori probabilmente non c’è ironia –se ci fosse sarebbe davvero crudele– perché, nel film, gli inglesi attaccano Tippecanoe incendiando a destra e a manca, mandando in fumo i propositi amorosi di Tecumseh insieme alle eleganti costruzioni della città. Prima di procedere, non si può sottolineare come l’idea alla base del soggetto –Tecumseh deve prima convertire la sua gente agli usi dei bianchi per potersi anche solo dichiarare a Laura– sia quantomeno discutibile. Vicende private a parte, nella realtà storica la «Città del Profeta» fu distrutta dagli americani del governatore dell’Indiana Harrison (nel film interpretato da James Seay), nella famosa Battaglia di Tippacanoe. 

Il «Profeta» a cui era dedicata quella che era una sorta di capitale della confederazione indiana, era fratello di Tecumseh, si chiamava Tenskwatawa e nel film di Gordon Bennet è interpretato da Michael Ansara. In proposito, una delle poche cose storicamente attendibili, in Sul sentiero di guerra, è l’occhio guercio del Profeta che, nel film, è avversario di Tecumseh e si allea con gli inglesi contro gli americani, diversamente da quanto accadde realmente. Insomma, le differenze storiche sono davvero tante e, come detto, non ci sarebbe nulla di male se non fosse che, alcuni particolari, dai nomi dei personaggi ad alcuni dettagli come il problema all’occhio del Profeta, non finiscano per confondere le idee. Che forse era proprio l’intento degli autori, e di Hollywood in ottica più generale: riscrivere la Storia della conquista del west per farne l’epica degli Stati Uniti. Pur se Sul sentiero di guerra non è affatto un brutto film, si può dire che in altre circostanze questa «revisione» delle vicende all’origine della nazione dalla bandiera a stelle e strisce sia stata fatta in modo più rispettoso, licenze poetiche a parte, del percorso storico oltre che dei nativi americani.  



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lunedì 23 settembre 2024

NATURA CONTRO

1550_NATURA CONTRO. Italia 1988; Regia di Antonio Climati

Sembra quasi un segno del Destino: uno dei collaboratori più importanti nel capitale testo che aveva dato origine ai cannibal italiani, ne sanciva la, stavolta definitiva, ingloriosa fine. Nella parabola, qualitativa ma non solo, tra Mondo Cane (1962, di Jacopetti, Prosperi e Cavara) e Natura contro, di Antonio Climati, c’è l’omologazione e la banalizzazione di un intero paese. Ironia della sorte, Climati era stato Direttore della Fotografia nel seminale film di Jacopetti e compagni, ed era sorprendente che fosse lui a prestarsi ad un’operazione come Natura contro. Pensato come produzione televisiva –opera in effetti di Reteitalia, lo studio di proprietà Fininvest che si occupava di realizzare il materiale per le reti Mediaset– il film di Climati porta con sé tutti gli elementi anche simbolicamente adatti a sancire il declino del paese e non solo del cinema nazionale. Certo, principalmente Natura contro è un brutto e mediocre film di avventure che, grazie a qualche rimando, può essere preso a titolo per chiudere il conto al genere cannibal. Ma, allargando un po’ il tiro, si può anche leggervi la banalità e il pressapochismo tipico delle produzioni televisive nostrane che finirà per inquinare anche il cinema italiano. E, siccome il cinema, anche e soprattutto in Italia, è sempre uno dei migliori specchi del paese, il discorso è ulteriormente estensibile all’intera nazione. Del resto, gli anni Ottanta erano stati già segnati dal dominio in ambito televisivo della corazzata Mediaset che, altro non sarà, se non un trampolino di lancio per ambiti ben più prestigiosi per la nuova classe egemone. Ecco perché, parlare di Natura contro, soprattutto se chi lo ha realizzato era nella troupe di un testo critico e scomodo come Mondo Cane, non significa parlare solo di un innocuo filmetto. Vero è che, proprio le reti televisive Mediaset, con programmi come Striscia la Notizia, varato giusto alla fine di quel 1988, o, più tardi, Le Iene, adottarono gli stilemi del film di Jacopetti, Prosperi e Cavara, e, quindi, una connessione tra Mondo Cane e la cosiddetta “tv spazzatura” potrebbe davvero esserci. Il sensazionalismo, l’attenzione agli aspetti morbosi, il voyeurismo, sono in effetti tratti comuni: la differenza è che, nel film di Jacopetti e soci, sembra esserci un disegno preciso, dietro l’uso delle immagini scioccanti: dimostrare come l’uomo civilizzato non sia poi così civilizzato. I citati programmi televisivi provano a dare un’impressione più anarchica, meno strumentale, ma, sembra lampante, è proprio quello il gioco di cui hanno invece incarico: la loro è una critica in apparenza indiscriminata. 

La strategia è quella di dare l’idea di non risparmiare nessuno, comunicando quindi il concetto che sia inutile anche unicamente avere un pensiero critico. In effetti, la differenza con un film come Mondo Cane è sottile: quello che cambia è il contesto. All’inizio degli anni Sessanta, molto prima della contestazione sessantottina, scalfire la cieca fiducia nel futuro, che il boom economico sembrava garantire indiscutibilmente roseo, era un utile monito. Nei tardi anni Ottanta e in seguito, la critica ad “alzo zero”, ma spesso oculatamente indirizzata, dell’informazione satirica televisiva, diveniva invece un pericoloso strumento nelle mani di qualcuno. Elementi che, come accennato, troviamo anche in Natura contro: qualche sparuto rimando, dalle teste tagliate degli indios, all’ambientazione amazzonica, alla tribù misteriosa, sono esche che gli autori gettano per poter spacciare il loro film come cannibal, un genere che ha sempre una sua nicchia di spettatori. In realtà, l’antropofagia non c’entra, ma si possono premiare gli sforzi ingannevoli di Climati e collaboratori e considerare pure Natura contro come un film sui cannibali: in ogni caso rimane un brutto film, di livello davvero basso. Quello che si può notare è la ruffianeria degli autori, che mettono in scena una serie di situazioni che esaltano il buonismo e il politicamente corretto. Il passaggio più evidente, in tal senso, è quello in cui vediamo catturare alcune scimmie, perché vengano poi utilizzate nella pet-therapy per individui disabili, e, nella sequenza, c’è addirittura uno dei protagonisti del film che pratica una rianimazione ad uno dei piccoli animali. Lodevole intento, sia chiaro, se non fosse che sembra posto all’inizio del racconto per dimostrare che in Natura contro non c’è violenza gratuita nei confronti degli animali, né reale e nemmeno nella finzione. Ironicamente, ma significativamente, la censura britannica taglierà i dodici secondi di pellicola dove una delle piccole scimmiette in questione viene colpita per davvero, seppur non rimanga uccisa. Tuttavia è doveroso ribadire che, nella realizzazione del film, non venga ammazzato alcun animale, sebbene tale pratica fosse ormai entrata fortunatamente in disuso già da tempo. 

In ogni caso, la frenesia della narrazione, con i protagonisti che passano rapidamente da un rischio mortale all’altro senza dar nemmeno il tempo allo spettatore di metabolizzare la pericolosità della situazione, sembra quasi uno stratagemma per rendere tutto quanto il racconto un innocuo passatempo. Un po’ come le citate trasmissioni satiriche televisive, che anestetizzano il senso critico del telespettatore con il flusso di scandali e malagestioni pubbliche varie, raccontate senza adeguati approfondimenti. Tornando a Natura contro, una volta divertito lo spettatore con le scene concitate, pagato il dazio alla morale comune dimostrando un rispetto della natura formale, d’accordo, ma ben poco convincente, gli autori possono arrivare al loro dunque. La trama del film prevedeva una spedizione in cui Gemma (May Deseligny), reporter d’assalto, Pio (Pio Maria Federici), biologo, Mark (Fabrizio Merlo), pilota, e Fred (Marco Merlo), si addentrassero nel profondo dell’Amazzonia alla ricerca del professor Korenz (Bruno Corazzari). Sebbene Korenz fosse considerato scomparso, si sospettava avesse trovato gli Imas, una tribù di indios che viveva allo stadio primitivo, e qui, sebbene non si parli di antropofagia, riecheggia qualche altra eco dei cannibal movie. In ogni caso, per non farsi mancar niente, pare che questi Imas fossero custodi di un favoloso tesoro. Alla fine delle tante acrobatiche e funamboliche peripezie, i nostri baldi giovanotti trovano il loro uomo. Che, a quel punto, si chiede, e chiede alla giornalista Gemma, se sia il caso di tornare davvero alla civiltà. Perché, sorpresa, gli indios presso cui è di stanza, non sono mica i mitici Imas, i leggendari uomini primitivi; sono una semplice tribù indigena che lo ha accolto e presso la quale ora si trova a vivere pacificamente. E, per giunta, del tesoro nemmeno l’ombra. A questo punto la cosa suona certamente beffarda: tutta quella fatica per niente. É qui che Climati e i suoi produttori gettano la maschera e calano l’asso dalla manica: Gemma, infatti, non ci sta e decide di scrivere la Storia a proprio comodo. Non a caso, nonostante fossimo ancora negli anni Ottanta, la protagonista è una donna: gli autori si portano avanti e seminano un po’ di uguaglianza di genere, dando il ruolo più significativo ad una rappresentante del sesso femminile. L’idea di Gemma è semplice: spacciare presso la comunità scientifica questi banali indios per i leggendari Imas e prendersi tutti gli onori. E i soldi annessi, sia ben chiaro. Etica, onestà, coerenza, deontologia professionale, pudore, sincerità, senso di giustizia: nessuna di queste cose le sfiora la mente a fronte della possibilità di compiere il colpo della vita. Nemmeno un po’ di sana prudenza, dinnanzi alle perplessità e alle paure del professore, la fa vacillare. E quando Korenz osserva che i ragazzi della spedizione, potrebbero prima o poi tradire la loro truffa, Gemma trova un’altra semplice soluzione: li lascia nella giungla. Prende l’aereo e se la fila alla chetichella, col professore e le foto dei “mitici Imas”, le prove della loro sensazionale scoperta. Poi, siccome il film è mondato da ogni forma di crudeltà esplicita, il pistolotto finale informa che tutti quanti i giovanotti abbandonati se la siano cavata egregiamente; del resto, che era un’Amazzonia da salotto si era ben capito. 

Tuttavia, trascurando l’assoluta sciatteria del cast, della sceneggiatura e dei dialoghi, quello che lascia assolutamente basiti, assai più di Mondo Cane o Cannibal Holocaust, è la nonchalance con cui si fa passare come legittimo l’odioso opportunismo della protagonista. Ma era anche prevedibile: film di fine anni Ottanta, matrice televisiva, produzione Reteitalia –leggi Mediaset– cos’altro ci si poteva aspettare se non la celebrazione del rampantismo?
A pensarci bene, che un film del genere segni la fine del genere cannibal, diviene, per questi, quasi motivo di vanto.
Ma, purtroppo, viene da fare un’ultimissima considerazione. Natura contro, più che un cannibal movie, genere nel quale può comunque trovare posto, come abbiamo visto, presenta delle analogie con il modo in cui venivano realizzati i mondo movie. In effetti, Antonio Climati in regia, e Franco Prosperi nella sceneggiatura, erano tra i più importanti autori del citato Mondo Cane, il capostipite. Gemma e i suoi amici riescono a trovare il professore ma lo scoop fallisce, visto che gli indios non sono i mitici Imas. Ma con una piccola forzatura, ecco che il servizio bomba salta fuori ugualmente. La cosa non ricorda quanto si diceva dei mondo movie e della capacità di Jacopetti e compagni, di aggiustare i loro resoconti in modo da renderli spettacolari? Gemma come Jacopetti, quindi? Ci si è spesso interrogati dove fosse il confine tra il reale e il ricostruito nei famigerati mondo movie. Un genere di film verso cui i cannibal sono innegabilmente debitori. Senza Mondo Cane e i suoi epigoni, non avremmo avuto i cannibal movie all’italiana. Guarda caso, l’ultimo cannibal italiano, è realizzato da Climati e Prosperi e, nel chiudere definitivamente il conto al genere, forse rivela anche il segreto cardine dei mondo, quello sulla loro credibilità.
Decisamente un colpo basso, questo Natura contro.   



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sabato 21 settembre 2024

TRANCHEES

1549_TRANCHEES. Francia 2021; Regia di Loup Bureau 

Il giornalista francese Loup Bureau, pur se giovanissimo, ha già avuto numerose esperienze nelle zone più calde del pianeta, pagando in prima persona la propensione a svolgere con scrupolo il proprio mestiere. Non aveva ancora terminato i suoi studi, che già vantava reportage in Pakistan, Siria e Egitto; in Turchia venne fermato dalla polizia al confine con l’Iraq e finì addirittura in prigione [pagina web https://fr.wikipedia.org/wiki/Loup_Bureau visitato l’ultima volta il 6 settembre 2024]. Una delle situazioni che prese maggiormente a cuore fu però la questione ucraina: dopo aver documentato le proteste di Euromaidan, ha assistito alla successiva annessione della Crimea. È proprio in quest’occasione che decide di trasformarsi da reporter a cineasta, per meglio documentare l’aggravarsi della crisi con gli scontri nel Donbas che finirono presto per divenire una vera e propria guerra. Nelle immagini del documentario Tranchées, frutto del suo lavoro, troviamo, a contrapporsi, nazionalisti ucraini e separatisti ucraini: ma, stando al comandante della 30° Brigata, non si tratta di una guerra civile. C’era, già al tempo, era il 2015, la consapevolezza da parte ucraina che dietro gli insorti della parte orientale del paese, ci fosse la Federazione Russa, che mirava a mantenere la sua ingombrante influenza inalterata. Nei dialoghi del documentario, ambientato come si intuisce dal titolo nelle trincee ucraine del fronte, ci sono anche osservazioni di natura geopolitica. Niente di particolarmente profondo, si incolpa anche la Unione Europea per il suo badare agli affari, ma certamente si tratta di esternazioni legittime quando ti ritrovi, proprio per queste beghe geopolitiche, a rischiare la pelle in prima linea. Come prevedibile, essendo un documentario, di azione bellica vera e propria non se ne vede poi molta; ma, del resto, quella della Guerra del Donbas è una situazione che ha riproposto per lungo tempo uno stallo simile al primo conflitto mondiale. Non a caso sono tornate in auge le trincee, e ancora non a caso, Bureau opta per una fotografia in bianco e nero che ci riporta alla mente i film sulla Grande Guerra. Si diceva della scarsa attività: nei primi sei minuti non succede letteralmente niente, neanche si sente mezza parola. Poi, nel primo dialogo del film, il comandante chiede “Cosa fanno i nostri «amici»?” La risposta della vedetta è emblematica: “Sono tranquilli”. Proprio come nei racconti sulla Prima Guerra Mondiale, la trincea è un mondo a parte: ci sono persino cani e gatti, a conferire quell’aspetto, diciamo così, «domestico» che, col passare del tempo, riesce ad avere quel solco scavato nella terra e nel fango. C’è anche una donna, nella truppa, e nonostante il nome di battaglia piuttosto inquietante –Persefone, la regina dell’Oltretomba– non sfugge al suo istinto materno e funge un po’ da chioccia per i nuovi arrivati. Ma, per quanto tempo si passi in trincea, questa non avrà mai il sapore di casa, e, visto che siamo al cinema, nemmeno il colore. Bureau sceglie infatti di sottolineare la licenza di uno dei militari inserendo il segmento narrativo inerente del film con immagini a colori; ma è solo una breve pausa, poi si ritorna al grigio della guerra di trincea. Il film è ambientato lungo la linea del fronte presso Svitlodarsk, nel 2015, ed è uscito nel 2021; di lì a poco la cittadina ucraina sarebbe passata sotto la Repubblica Popolare di Donetsk. Chissà se Bureau se l’immagina ancora in bianco e nero.  



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giovedì 19 settembre 2024

NUDO E SELVAGGIO

1548_NUDO E SELVAGGIO . Italia, Brasile 1985; Regia di Michele Massimo Tarantini 

Gli anni Settanta avevano visto due correnti del cinema di genere italiano avere grosso modo la stessa evoluzione: tanto i western che i polizieschi, avevano via via perso le caratteristiche serie intrinseche alla loro natura, per divenire una sorta di parodie. Tant’è che questi generi divennero poi famosi con definizioni che indicavano in modo sfacciato questa loro matrice ironica: spaghetti-western e poliziottesco, lasciavano, in effetti, pochi dubbi in tal senso. Certo, probabilmente non fu una scelta programmatica, l’utilizzo di queste definizioni –che presero, tra l’altro, piede col passar del tempo– ma si tratta comunque di indizi che danno almeno un’idea degli intenti dei film in questione. Per i produttori, si trattava di una soluzione comoda: a suo tempo, il cinema italiano aveva dovuto sforzarsi, in un certo senso, per interpretare alcuni di questi generi a lui poco congeniali, almeno a livello tradizionale. Tant’è che, per vincere un certo scetticismo del pubblico, ci si era inventati la faccenda degli pseudonimi anglofoni. Quando si era esaurito il filone, quando le idee cominciarono a scarseggiare, ci si era così rifugiati in quello che veniva considerato il genere per elezione della penisola italica: la commedia. In realtà, la commedia fatta scrupolosamente e seriamente, era altrettanto difficile, se non di più, degli altri generi ma, in Italia, c’era – e forse c’è ancora – la convinzione che per far ridere e soddisfare il pubblico, bastino gag di quart’ordine condite da manciate di richiami sessuali. In sostanza, la ricetta della commedia sexy all’italiana. Grosso modo dalla saga di Trinità (Lo chiamavano Trinità…, 1970, di E. B. Clucher e seguenti) i western all’italiana presero sempre una vena umoristica, mentre da quella del poliziotto Nico Giraldi (inaurata da Squadra antiscippo, 1976, Bruno Corbucci) la stessa cosa successe a molti polizieschi di casa nostra. Dopo il boom dei primissimi anni Ottanta, con l’avanzare del decennio il genere cannibal ebbe un periodo di pausa: nel 1985, dopo un paio di anni di assenza dalle sale, qualcosa si era però mosso e ben tre film arrivarono sullo schermo quell’agosto; mese peraltro, ai tempi, assolutamente morto per il cinema. Mentre sia Schiave bianche – Violenza in Amazzonia (1985, di Mario Gariazzo), che Inferno in diretta (1985, di Ruggero Deodato) provavano, in modo decisamente diverso, a riprendere il filo del discorso dal passaggio più importante del genere, ovvero Cannibal Holocaust (1980, dello stesso Deodato), i produttori di Nudo e selvaggio scelsero una strada completamente diversa. 

Forti della consapevolezza della pocanzi accennata evoluzione “leggera” avuta anni prima da due tra i generi più violenti del cinema italiano, i western e i polizieschi, affidano il loro film sui cannibali a Michael E. Lemick, al secolo Michele Massimo Tarantini, un maestro della commedia scollacciata del Belpaese. Tarantini, all’inizio carriera, prima di dedicarsi ai film incentrati sulle varie poliziotte, insegnanti, dottoresse, professioni naturalmente tutte riviste rigorosamente in chiave erotica, aveva anche esplorato il poliziesco all’italiana, senza per altro lasciare il segno. Insomma, per quanto le sue commedie piccanti non fossero opere degne di Ernst Lubitsch o Billy Wilder, si può comunque asserire che Tarantini si muovesse in modo assai più agevole da quelle parti piuttosto che con i toni cupi dei polizieschi. Un autore non particolarmente versatile, in definitiva, e ora alle prese con l’ambizioso intento, in Nudo e selvaggio, di coniugare un genere ultra-violento con i toni leggeri. In pratica, con Nudo e selvaggio, il regista romano si prende una bella gatta da pelare: forse rendendosene conto, decide di giocare a carte decisamente scoperte. Il protagonista, Michale Sopkiw (nel ruolo del paleontologo Kevin Hall) è il sosia di Terence Hill, mentre la storia ha un incipit, musica compresa, che sembra il remake di Banana Joe (1982, regia di Steno, con Bud Spencer), due elementi che fissano il principale riferimento nella coppia comica più importante del cinema italiano del tempo, Terence Hill & Bud Spencer, appunto. Più simpatica e meno prevedibile, la citazione a Django (1966, regia di Sergio Corbucci) che serve ad introdurre la professione del protagonista: nella bara che si trascina appresso il nostro bellimbusto, ci sono infatti ossa, ma di dinosauro. Rispetto agli spaghetti-western, i riferimenti sessuali, per quanto unicamente pruriginosi, sono più sfacciati, mentre l’ironia è assai più ovvia e scontata. Ma, in questo ambito, ben peggio sono soggetto e sceneggiatura, opera dello stesso Tarantini, banali e superficiali in modo quasi sconcertante. Alla fine di una serie di passaggi scontati e assurdi allo stesso tempo –il che è, a suo modo, una sorta di impresa– i personaggi del film precipitano con il loro aereo nel bel mezzo della giungla amazzonica, restando senza più contatti con il mondo civilizzato. Oltre al citato Sopkiw, nel ruolo dell’improbabile paleontologo avventuroso, di un cast poverissimo vale la pena citare almeno Suzane Carvalho, è Eva, e Milton Rodriguez, è il capitano Heinz, un veterano della guerra nel Vietnam. 

Il tema bellico, e quello della “sporca guerra” nello specifico, ritorna ancora una volta in un cannibal, quasi fosse una sorta di tardo-cliché del genere. Tra gli altri momenti tipici, le immagini efferate ci sono e i cannibali sono in effetti abbastanza feroci e, almeno in una scena, tengono fede al loro ruolo; tuttavia il passaggio più memorabile è legato ai piranha, che spolpano la gamba di uno dei sopravvissuti. Purtroppo, a questo momento è legato anche una della gaffe più clamorose della storia: Kevin, il bel paleontologo, ed Heinz, il capitano problematico, si disputano il ruolo di leader del manipolo di scampati e, in questo frangente, arrivano alle mani. Niente di particolare, si tratterebbe di un passaggio quasi inevitabile: quello che desta perplessità, a dir poco, è che i due, dopo aver tratto in salvo il loro compare dalle acque infestate dai piranha, decidono di darsele di santa ragione proprio in quello stesso punto del torrente. Al di là dell’errore in sé, è proprio la dinamica del racconto e dei dialoghi a rendere questo passaggio davvero deprimente, tuttavia un altro svarione pone almeno un dubbio sulla consapevolezza nel merito degli autori. Nella seconda parte del racconto, i nostri sopravvissuti vengono catturati dagli uomini di Cina (Andy Silas), un avventuriero che, sfruttando alcuni indigeni come schiavi, cerca e commercia diamanti illegalmente. Da notare che, parlando di errori, pare grossolano il fatto che due personaggi nella storia si chiamino con lo stesso nome –Cina, appunto, era anche il nome di uno dei componenti della spedizione– rischiando di fare più confusione di quella che c’è. Tuttavia l’errore che lascia più perplesso è legato ad un classico stratagemma narrativo usato nei film western: il numero di colpi nell’arma da fuoco a disposizione durante un duello. È però quantomeno bizzarro che il film si decida praticamente con questo elemento –sul più bello Cina finisce i colpi del suo revolver– quando, poco prima, Kevin aveva sparato senza sosta e senza ricaricare con il suo fucile a pompa, almeno il doppio dei colpi che avrebbe potuto avere nel caricatore. Sembrerebbe, ma è allo stesso tempo improbabile, che gli autori, in questo passaggio, cerchino di darsi un tono, mostrando di conoscere questi aspetti narrativi nonostante la storia raccontata pare invece smentirli. 

Difficile da credersi, eppure, anche con l’utilizzo dell’espediente del serpente a sonagli, nel finale, Tarantini sembra scherzare sulla plausibilità della sua storia. D’acchito, la scena sembra l’ennesimo svarione della sceneggiatura: in Amazzonia ci sono le anaconda, i crotali stanno nel south-west nordamericano. In realtà, seppure assai meno noto dei suoi giganteschi parenti stritolatori, i serpenti a sonagli sono presenti anche in Sud America: difficile stabilire se quello mostrato nel film sia effettivamente un Cascavel, o Cascabel –questo il nome con cui è conosciuto il Crotalus Durissus– tuttavia non si pretende il rigore scientifico da un film d’avventure. Se esiste un serpente a sonagli che scorrazza per l’Amazzonia, allora la scena finale è migliore e più credibile di quanto sembri. Questo dubbio si somma al precedente, quello legato al conto dei colpi delle armi da fuoco che in un caso non tornano, mentre nell’altro sono addirittura il fattore decisivo. Forse, regista e collaboratori non sono poi così scarsi, come sembrerebbe lasciar intendere il modesto risultato di Nudo e selvaggio. Ma il dubbio ha sempre due facce: se Tarantini conosce il mestiere, e sa dell’importanza di quei dettagli narrativi, perché diamine non ci ha prestato attenzione e fatto un bel film?  





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martedì 17 settembre 2024

LO STRANIERO HA SEMPRE UNA PISTOLA

1547_LO STRANIERO HA SEMPRE UNA PISTOLA (The stranger wore a gun)Stati Uniti 1953; Regia di André De Toth

Nel 1953 si confermò la moda dei film in 3D, esplosa l’anno precedente. Tra i cineasti coinvolti in questa ondata tecnologica è curioso notare come André De Toth fu uno dei più illustri, con La maschera di cera [House of wax, 1953], horror di grande successo, e Lo straniero ha sempre una pistola, in questo caso un western. La nota insolita a proposito dell’apporto del regista di origini ungheresi, è costituita dal fatto che, a causa della benda che portava su un occhio, De Toth non poté mai apprezzare gli effetti del cinema stereoscopico in prima persona, avendo a disposizione un solo punto di vista. Ne Lo straniero ha sempre una pistola, gli effetti 3D sono sfruttati in modo eclatante nella scena del saccheggio di Lawrence, Kansas, un episodio storico che vide protagonista il famigerato William Quantrill e la sua banda di predoni, durante la Guerra Civile Americana. Ci sono molte scene in cui i banditi sparano o incendiano rivolgendo le loro armi verso l’obiettivo della macchina da presa e, questo, nel caso si stia guardando una versione «normalizzata» in due dimensioni, risulta un po’ inconsueto, soprattutto se si pensa che Lo straniero ha sempre una pistola è un film del 1953. In effetti, la produzione Scott-Brown più che ai classici degli anni Cinquanta rimanda ai B-movie, peraltro fatti con professionalità e interpretati dallo stesso Randolph Scott, che era, appunto, uno dei soci nello Studio. Anche De Toth, come regista, era il classico bravo artigiano, più che un autore a tutto tondo, tuttavia Lo straniero ha sempre una pistola, alla fin fine, manca proprio nelle caratteristiche che avrebbero dovuto essere il suo forte: solidità nella narrazione e chiarezza d’intenti. Travis (Randolph Scott), il protagonista, è una spia al servizio di Quantrill che, in qualche modo, si pente del suo operato dopo aver visto ciò che i predoni con cui collaborava sotto la bandiera confederata, avevano combinato a Lawrence. La sua redenzione non è, per altro, cristallina, visto che il nostro eroe preferisce passare il tempo sui battelli fluviali a giocare a poker, anziché fare qualcosa di più costruttivo. Per sfuggire alla caccia agli ex collaboratori di Quantrill –che continuò anche finita la guerra– viene inviato dall’amica Josie (Claire Trevor; bella, ma i 43 anni si fanno sentire) a Prescott, Arizona, al soldo di Mourret (George Macready) un altro tizio assai poco pulito. Questi ha imbastito un’organizzazione criminale che rapina con regolarità i convogli che trasportano oro; nelle sue file troviamo gente del calibro di Lee Marvin (è Dan) ed Ernest Borgnine (è Slager), come noto, grinte ben poco raccomandabili. Travis sta un po’ al gioco, non si capisce mai bene fino a che punto; la presenza della bella, e giovane, Shelby (Joan Weldon), figlia del proprietario della compagnia che subisce le rapine, è un elemento che depone a favore della conversione definitiva dell’ex spia confederata. Ma Travis, in ogni caso, ama il doppio gioco, tant’è che organizza una trappola a danno dei banditi nella quale coinvolge la banda rivale, capitanata dal sinistramente buffo Degas (Alfonso Bedoya). Insomma, la trama è un succedersi di eventi poco lineari e Randolph Scott non sembra del tutto a suo agio nell’interpretare un individuo ambiguo come Travis. Il romantico colpo di scena finale, con l’uomo che sceglie l’attempata Josie, dopo averla posteggiata in attesa per tutto il film, a discapito della più avvenente Shelby, è la cartina tornasole dell’intero racconto: sorprende, ma non soddisfa del tutto. Sia De Toth che Scott hanno fatto di meglio, ma non per questo Lo straniero ha sempre una è un brutto film.  




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