Quando si scopre che addirittura Winston Churchill avrebbe
lodato la verosimiglianza delle ricostruzioni di scena del film Orizzonti di gloria, regia di Stanley
Kubrick, si può anche restare sorpresi. Perché non si può certo dire che il
lungometraggio dia l’idea di un racconto fedele a quanto ci si immagina possa
essere stata la Grande Guerra in prima
linea, in trincea. L’impressione, vedendo il film di Kubrick, è di una
rappresentazione astratta, artificiosa, vuota;
certo, è lampante che, per equilibrare questa freddezza geometrica della messa
in scena, ci siano poi degli elementi fortemente realistici, perfettamente
ricostruiti, come ad esempio la stessa trincea, la cui verosimiglianza fu
lodata appunto da Churchill. Quello che vediamo è una sorta di teatrino
imbastito in un luogo drammaticamente verosimile: la critica di Kubrick alla
follia della guerra risulta quindi più che implicita, addirittura intrinseca,
parte strutturale della sua opera. Non è quindi più necessario che l’autore
affronti (o faccia affrontare dai suoi personaggi) il classico tema morale bellico,
se la guerra sia cioè il male assoluto o un male necessario; le ragioni della guerra non sembrano
interessare Kubrick. Piuttosto, una cosa salta subito all’occhio in Orizzonti di gloria: manca il nemico. Il
film è del 1957 mentre l’ambientazione è riferita alla I Guerra Mondiale: il nemico perfetto da mostrare ci sarebbe, e
sono quei tedeschi visti in tanti film bellici americani del dopoguerra, anche
perché l’opera è ambientata in una trincea francese. Invece la pellicola si
concentra sugli scontri, sulle rivalità, sulle ambizioni, sulle ipocrisie,
interne alle linee francesi, lasciando il nemico invisibile sullo sfondo, oltre
la terra di nessuno tra le due trincee. Manca quindi il confronto con il nemico
ma, in compenso, assistiamo ad una serie di contrasti e conflitti interni al
proprio fronte. Ad un certo punto si arriva addirittura al comando di sparare
con l’artiglieria sulle proprie truppe da parte del generale Paul Mireau,
interpretato non a caso da George Macready, attore noto per i suoi ruoli di
cattivo e segnato da una vistosa
cicatrice in volto.
Del resto l’ordine di attacco al
formicaio, un presidio nemico considerato giustamente
inespugnabile, viene dato per motivi smaccatamente politici e non militarmente
strategici: si tratta di tranquillizzare l’alto comando sull’operosità e
sull’ardore delle truppe permettendo, al contempo, di far carriera al suddetto generale
Mireau. A fronte del fallimento, e del rifiuto di avanzare di alcuni reparti
francesi, verrà applicata la legge marziale a tre soldati, scelti
simbolicamente tra le truppe, per essere fucilati; la guerra vuole le sue
vittime e se non ci pensa il nemico, allora occorre rimediare in proprio,
sembra dirci l’autore. Detta così, la cosa ha quasi l’aria di una farsa e, in
effetti, se non ci fossero ricostruzione attendibile e tono recitativo serio,
lo si potrebbe pensare. Ma Kubrick lavora costantemente sul doppio binario e,
accanto a queste scene assolutamente credibili della trincea, pone un vero e
proprio teatro delle maschere, con i tre protagonisti più importanti del
racconto che discutono spesso in modo ambiguo e ambivalente. Sono il colonnello
Dax, un Kirk Douglas tutto d’un pezzo; il viscido generale Broulard, a cui
Adoplhe Menjou presta un volto accomodante e infido al tempo stesso; e, come
già detto, quel
brutto ceffo di
George Macready nei panni del generale Mireau. Nelle scene del fronte, oltre ad
essere mostrato uno scenario quanto mai realistico, la macchina da presa corre
su un carrello con movimento che segue la lunghezza della trincea. Già
all’inizio, quando Mireau visita le truppe, incitando meccanicamente i suoi
soldati ad ammazzare i tedeschi, il carrello della
mdp scorre all’indietro, costringendoci idealmente a divenire parte
di quello scenario subendo, in un certo senso, l’invadenza dello schermo, che
viene, letteralmente, verso di noi, senza darci scampo. Diverso l’approccio
alle scene nell’elegante palazzo settecentesco sede del comando al fronte:
Kubrick riprende spesso i tre personaggi principali (Dax, Broulard e Mireau)
insieme ad un grande dipinto di Watteau su una parete, in cui sono
rappresentate le maschere della commedia dell’arte italiana (Arlecchino,
Pantalone e Pierrot).
Il comportamento dei tre ufficiali, soprattutto dei due
generali, è analogo a quello delle mascherine, che dicono una cosa mentre
tramano altro, si veda il dialogo iniziale in cui Broulard propone a Mireau di
attaccare il
formicaio facendogli
capire della possibile conseguente onorificenza, sebbene, almeno
esplicitamente, rimarcando la non-relazione tra le due cose. La distanza tra i
due scenari, tra i due
teatri
dell’evento filmico (lo squallore della trincea delle truppe e lo sfarzo del
palazzo settecentesco dei generali) segna una evidente distanza tra le
classi sociali interne all’esercito e,
in questo senso, volontariamente o no, l’opera di Kubrick si presta anche ad
una lettura politico-sociale che va a braccetto a quella antimilitarista. Anche
perché la potente scena finale ne conferma l’ottica. Nella bettola, i soldati
francesi assistono all’esibizione, probabilmente forzata, di una povera ragazza
tedesca (Christiane Harlan, futura moglie del regista), che viene invitata a cantare qualcosa davanti a tutti quegli uomini,
stranieri e sconosciuti. La poveretta, pur se intimidita, comincia titubante
con la sua canzone in tedesco, non conoscendo il francese, tra le risa di
scherno e gli schiamazzi dei soldati; ma la musica, linguaggio universale,
intonata dalla giovane, poco a poco coinvolge l’assemblea e finisce addirittura
per commuovere anche quei duri combattenti che si uniscono alla ragazza, in un
momento di condivisione veramente toccante. La vicinanza tra l’umile giovane
tedesca e i soldati francesi rimarca la distanza con l’elite, i generali del
palazzo settecentesco; difficile non cedere alla tentazione di una lettura
politica a fronte di questo finale. Quello che è certo, è che Kubrick illustra
la guerra come qualcosa di talmente assurdo da essere praticamente astratto,
nel suo essere totalmente privo di senso. E questo dovrebbe essere un argomento
valido per qualunque credo politico.
Christiane Kubrick
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