1477_IL PANE AMARO . Italia 1968; Regia di Giuseppe Scotese.
Su una pagina del sito YouTube dedicata a Le città proibite, è pubblicata una dichiarazione di Scotese che spiega l’origine di Il pane amaro: “Due anni di lavoro, anatomia del proibito. Durante questo film (Le città proibite, NdA), mentre con l’occhio destro guardavo dentro l’oculare della macchina da presa, con l’occhio sinistro scrutavo e fissavo nella mia mente immagini di una realtà umana ancora sconcertante e a volte tragica. Sentii di dover mostrare al mondo l’amara realtà del sottosviluppo e del non sviluppo per oltre metà della popolazione del globo. Scrissi e filmai come regista il primo «mondialmente», lungometraggio, documentario sulla disumana realtà dei popoli del sottosviluppo; il film sarebbe stato il mio ritorno al cinema documento”. < pagina web curata da Adriano Sorrentino e visibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=cf_n_Q-68sY, visitata l’ultima volta il 23 aprile 2024>. Del resto, grosso modo le stesse parole Scotese le aveva usate nell’intervista rilasciata a Daniele Aramu e pubblicata su Nocturno Book nr.9 – Mondorama. In un certo senso, si può notare un percorso simile a quello di Gualtiero Jacopetti quando determinò la nascita dei Mondo movie italiani: al giornalista di Barga, l’idea di Mondo cane era venuta girando per il Vecchio Continente per conto di Alessandro Blasetti. Lo scopo era trovare materiale per Europa di notte, progenitore dei Mondo movie in generale e ispiratore, nello specifico, della corrente ‘sexy’ di questi particolari film. Jacopetti si accorse che, giù dai palcoscenici e fuori dai teatri e dai tabarin, si potevano trovare cose ben più interessanti e li utilizzò, in seguito, per il suo atipico documentario. La sua idea era sconvolgere, spiazzare, sorprendere: ciò che trovò di interessante, o meglio ciò che cercò, era il sensazionale, il bizzarro, quando non propriamente il lato ‘cattivo’ delle cose. La sensibilità di Scotese, mentre girava Le città proibite, fu sollecitata in modo diverso. Va detto che, al tempo, il cinema di Jacopetti, Cavara e Prosperi, aveva già visto la luce e creato il suo bel putiferio. I due percorsi sono quindi paragonabili, ma bisogna tener conto che Scotese aveva bene in mente i primi lavori di Jacopetti e company, nel momento in cui decise di girare un film come Il pane amaro. Il documentario del regista marchigiano è un’accorata disamina dei problemi sociali di quel terzo mondo che, spesso, negli shockumentary è unicamente pretesto per far sobbalzare sulla sedia gli spettatori. Il pane amaro sembra quasi essere, in sostanza, quanto si chiedeva a Jacopetti, o almeno quello che la critica chiedeva: avvicinarsi con partecipazione, rispetto e ossequio alle altrui culture. Il documentario fu frutto di un enorme lavoro di uno striminzito manipolo di addetti, tre quattro persone, regista compreso, al massimo, ottenuto peregrinando per tre anni in giro per i posti più disagiati.
Il risultato complessivo è un testo serio e interessante che forse è fuori luogo nella categoria Mondo movie ma si può inserire per almeno due motivi. Il primo è che Scotese era un regista già avvezzo al genere, di cui era, oltretutto, tra i suoi precursori; il secondo è che Il pane amaro poteva quasi essere il contraltare di Mondo cane, una sorta di suo rovescio, e, quindi, in un certo senso, ad esso collegato. A conferma che si trattava anche di una volontà esplicita di Scotese, nel finale, il commento fa pubblica ammenda, a nome degli europei, nei confronti dell’Africa e degli africani, per i problemi legati al colonialismo. Tema che riprende, ribaltandone il punto di vista, anche quanto emerso da Africa addio, successivo pseudo-documentario di Jacopetti e Prosperi uscito un paio d’anni prima di Il pane amaro. Scotese è invece più severo nei confronti di certe credenze e usanze religiose: ad esempio, nell’analisi alla situazione indiana, si sottolinea come, con i soldi degli armamenti, si potrebbe sconfiggere la lebbra dilagante nel paese e, smettendo o quantomeno rendendo meno integralista il culto della vacca, animale ritenuto in quei lidi sacro, si potrebbe migliorare di molto le condizioni della popolazione, forse anche sconfiggere la fame.
La critica accolse con favore, il film: “I nutriti non immaginano quanta parte del nostro pianeta è ancora occupata dalla fame, fame nel crudo senso fisiologico, fame che infligge la più solenne smentita alla nostra glorificata «civiltà del benessere». Attraverso le terrificanti immagini de Il Pane amaro, Giuseppe Scotese, apprezzato documentarista, ci dà la «geografia» di codesto spettro, una larga fascia di mondo, che, non mettendovi riparo, atteso il vertiginoso aumento della popolazione, minaccia d'estendersi all’intero. Alcuni dei paragrafi più interessanti. In un villaggio cinese i sessantenni devono lasciare il cibo ai giovani: viene il giorno che si vive ancora, ma non si mangia più. Nel deserto australiano, egoisticamente chiuso all'immigrazione, vagano uomini primitivi che campano di topi e lucertole. Sono gli accordi di una sinfonia che investe con particolare forza il continente americano, scorciato nelle sue innumerevoli «bidonville». Nel cuore del paese più ricco del mondo, a New York, i «disadattati» di Bowery accattano brodaglie in uno scenario di Bengodi; nel Messico, con l’opulenta California alle spalle, l’acqua è a prezzo; a Rio, cessata l’orgia del carnevale, riattacca una più sofferta miseria, con sottofondo «crepuscolare». E fame vuole anche dire infimo meretricio, affatto privo di quella vergogna che è retaggio dell’agiatezza; vuole dire lo scimmiesco mestiere dei Maya raccoglitori di gomma da masticare, e invenzioni mangerecce che degradano l’uomo sotto l'animale (la coltura stercoraria dei granchi in certe zone depresse del Brasile), e tubercolosi (Perù), e disoccupazione (la crisi del carbone in Pennsylvania) e siccità (il Nordeste brasiliano) e tante altre piaghe. L’iter della fame continua nell’Africa, specie nell'Africa più illusa dal progresso, tuttora improntata dal vecchio colonialismo (mancanza di carne, denutrizione cronica, rachitismo); nel Sud Africa, dove la invelenisce il più odioso pregiudizio di razza; in India, dove il problema della fame, radicato in una religione che considera sacre le vacche, si colora di fatalismo e tocca veramente l’assurdo. Mancano a questo gran ragguaglio dell’indigenza mondiale i Paesi comunisti: e la lacuna si nota. Le contraddizioni tra la realtà dei fatti e i vanti del secolo non sono cercate dal regista, scaturiscono da un contesto troppo occupato a smaltire l’abbondante materia perché si dia il facile lusso delle antitesi. Se l'aspetto più straziante di questa «inchiesta» è il patire dei bambini, anche qui Scotese non ha strafatto né nelle immagini né nel commento (sempre pertinente, documentata e nella giusta misura commosso). Il pane amaro, per civile provvedimento, non soffre di «veti», lo possono vedere tutti (ma non consiglieremmo di portarci i piccolissimi). Lo devono vedere, a toglierne un’aspra, lezione, così gli euforici del «progresso» come gli eterni scontenti di ogni età e ceto”. [l.p., Drammatica geografia della fame nel mondo, La Stampa, anno 102, nr.107, domenica 5 maggio 1968, pagina 7].
Un film tanto accorato e, tra le altre cose, anche critico nei confronti del sistema capitalistico, non poteva trovare forte consenso nella sinistra del paese: “«Il futuro ci è nemico… nei prossimi dieci anni forse assisteremo alla morte di cinquanta milioni di bambini»: così inizia il commento al documentario di Giuseppe Scotese. Il pane amaro, è stato girato durante tre lunghissimi anni che il regista ha trascorso viaggiando attraverso le capitali della miseria, una miseria che dilania i due terzi del nostro pianeta, ma che tuttavia sembra restare invisibile nelle grandi capitali della ricchezza e del consumo, dove l’«uomo a una dimensione» si accartoccia sempre più nel suo guscio. Ne Il pane amaro è il mondo della miseria e della fame che trascorre in primo piano, ripreso col ritmo lento delle carrellate che fermano per sempre sulla pellicola le immagini «continue» di un mondo terribile, di un universo mostruoso, chiuso ed eterno, immenso, sullo sfondo del quale brillano le costruzioni di ferro e di acciaio delle città del benessere, immerse nella nebbia come un miraggio irraggiungibile per gli uomini della favelas o per le piccole mani piagate dalla lebbra.
Il documentario di Scotese è un itinerario doloroso, lungo i sentieri corrosi dell’epidemia della fame, sentieri che la coscienza «civile» preferisce non praticare, optando senza esitazione per l’asfalto delle autostrade. Milioni di uomini, immersi dal mattino alla sera nella dolcezza di quelle piccole felicità quotidiane che offre l’alienazione dal mondo civile non hanno conosciuto e non conosceranno mai la «fame». Il volto oscure e indimenticabile della «miseria» assoluta che s’incontra nel Sud-Est asiatico, tra i pescatori del Mar della Cina che portano i vecchi sessantenni a morire sulla montagna per liberarsi di bocche inutili; presso gli aborigeni dell’Australia che si cibano di lucertole quando il paese è il primo esportatore di carni nel mondo (ma ecco la «carità» elargita nei campi chiusi dal filo spinato); nella bowery di New York, dove si muore agli angoli delle strade; nell’America Latina, nel Messico, nl Brasile, nello Yucatan dove i chicleros sono sfruttati dalla case produttrici di gomma da masticare; nelle tane degli indiani del Colorado; tra i pescatori del lago Titicaca pagati con le teste e le interiora dei «loro» pesci; nelle capanne dei dieci milioni di poveri dei monti Appalachi e nel Sertao Brasiliano; a Refice, dove l’uomo fruga tra la melma dei rifiuti e degli escrementi alla ricerca dei granchi commestibili; nell’Africa che giunge al traguardo del 2000 dopo secoli di colonialismo, e dove l’apartheid contro dodici milioni di negri non è che un «espediente economico»; in India, dove la carestia perenne ma non solo quella, ha trasformato il paese in un inferno, e dove la lebbra che dilaga sarebbe curabile ed estinguibile se soltanto si rinunciasse, con un volo «di fantasia», alla costruzione di qualche decina di carri armati.
Ma questo film sarebbe del tutto inutile –sottolinea il commento– se non contribuisse a fermare la morte per inedia di ottocento bambini che muoiono nell’arco di tempo di un’ora e mezzo di proiezione.
Il film di Scotese è la testimonianza appassionate, non pietosa, della mostruosità umana, del disumano che alberga nel cuore dell’uomo civile che vive in un mondo assurdo certo modificabile ma a patto che questa rivoluzione degli affamati, superando i miti nazionalistici per non essere velleitaria, unisca tutti i «sopravvissuti» del mondo nel loro grido acutissimo lanciato contro le pareti levigate delle fortezze del capitalismo la cui violenza rende infiniti i volti dell’integrazione. Il pane amaro –un documentario a colori sconvolgente soprattutto per la potenza e l’espressività delle immagini, per un montaggio a contrasto accorto e sottile, e per un commento (di L. Doddoli e G. Scotese) limpido, quasi poetico, a volte disperato ma non metafisico, anzi spesso decisamente ironico e demistificatorio– termina con l’agonia di un bimbo, divorato dalle piaghe e dalla fame sulla stuoia di una capanna desolata; il rovescio reale della favola evangelica”. [Vice, Prime – Il pane amaro, L’Unità, mercoledì 15 maggio 1968, pagina 9].
Il commento del quotidiano comunista era al limite dell’entusiasmo, per quello che è, indubbiamente, un film meritevole. Eppure, come titolo, Il pane amaro, e volendo vedere anche il nome dello stesso regista, Giuseppe Maria Scotese, non sono ricordati con la dovuta considerazione. Imprescindibile, in questo senso, l’opera di Daniele Aramu, a cui si deve, tra le altre cose, il già citato articolo Apocalisse domani, pubblicato sul Nocturno Book n.9 – Mondorama e dedicato appunto al regista marchigiano con tanto di intervista. Per quel che riguarda la considerazione attuale, Il Farinotti 2017, Dizionario di tutti film, cita Il pane amaro senza dilungarsi in alcun commento, e gli affibbia tre stellette, che equivalgono al giudizio «film più che discreto, di buon successo popolare». [Pino e Rossella Farinotti, Il Farinotti 2017, Dizionario di tutti film, alla voce Le vergogne del mondo - Il pane amaro]. Scotese fu molto orgoglioso di Il pane amaro, arrivando a definirlo “il film più importante della mia vita di uomo di cinema” [Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 28], ma, nel complesso, la pellicola ottenne un riscontro di pubblico inferiore agli altri Mondo movie di successo. Il regista, per la verità, nella citata intervista pubblicata su Mondorama, parlò di “enorme successo” [ibidem, pagina 31], ma, sempre sullo stesso speciale di Nocturno, troviamo una dichiarazione di senso opposto di Guido Guerrasio, che sostenne che Il pane amaro avesse fatto perdere un sacco di soldi. [Daniele Aramu, Io, Moravia, e le tribù italiane, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 35].
Quello che più conta, ormai, è che Il pane amaro sia un film da riscoprire e far conoscere, per il suo valore di denuncia sociale più che il suo interesse artistico. Nonostante siano passati più di cinquant’anni, si è mantenuto, malauguratamente, fin troppo attuale.
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