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giovedì 9 maggio 2024

ANTROPOPHAGUS

1479_ANTROPOPHAGUS . Italia, 1980; Regia di Joe D'Amato.

Veniamo subito al sodo: la famosa scena del feto mangiato vivo da Klaus Wortmann, il famigerato cannibale di Antropophagus, potrebbe rappresentare degnamente il cinema di Joe D’Amato. Perché in un colpo solo, con una sola raccapricciante e orribile ripresa, il regista romano riesce a rispettare i due cliché dei cannibal movie più discutibili – per usare un eufemismo. Innanzitutto c’è la scena in sé, per quel che rappresenta e per come è mostrata crudamente sullo schermo: i bambini, anche e non solo, al cinema, rappresentano il futuro, la speranza, la vita, insomma, tutti i concetti ottimistici che possano venire in mente. Un bambino nel grembo di una donna, eleva al quadrato tutta questa positività. Che il mostro di un film horror profani il corpo di una futura madre, altro simbolo di enorme valenza positiva nella nostra cultura, per cibarsi crudelmente della povera creatura in procinto di nascere, è un passaggio certamente duro da digerire, almeno per la morale comune. Soprattutto se si pensa che Antropophagus è un film del 1980. Per giustificarsi, gli autori dissero che, in luogo del feto, era stato usato un coniglio scuoiato: ora, è chiaro che questo in una macelleria succede ogni giorno, e che probabilmente il coniglio era comunque destinato a fare quella fine. Tuttavia, sapere che per fare un film si è ucciso un animale, e lo si è poi scuoiato, ci riporta inevitabilmente indietro ai tempi nemmeno troppo lontani dei primi cannibal. Forse il caso è differente, visto che il coniglio è convocato sul set già morto, tuttavia la storia che gli animali uccisi durante le riprese dei cannibal fossero destinati già a venir ammazzati, per scopi alimentari o altro, non è che sia mai stata tanto convincente. E, a dirla tutta, perplessità più o meno simili riecheggiano anche in quest’occasione. È una questione riferita al rispetto per la vita, anche quella animale, che, in operazioni del genere, sembra venir meno. Poi, è innegabile che questi scrupoli potrebbero essere nient’altro che moralismo o cose ti questo genere: ma, essendoci in ballo l’esistenza di esseri viventi, un po’ di sana prudenza non è da scartare. 

Con l’idea di rispettare, nella citata scena verso il finale del film, i due elementi che sono le coordinate cardine del genere cannibal, D’Amato organizza il suo film con alcune scelte inedite che si innestano su elementi già nel solco della tradizione. Se il gruppo di giovani che finisce nei guai è un topos tipico dell’horror dell’epoca, l’ambientazione su un’isola greca è insolita, almeno in questo ambito. Il nome di spicco, sui cartelloni, è quello di Tisa Farrow –figlia del bravo regista John Farrow e dell’attrice Maureen O’Sullivan, nonché sorella dell’assai più nota Mia– che, in precedenza, era stata la protagonista in Zombi 2, caposaldo dell’horror italico firmato da Lucio Fulci nel 1979. A suo fianco, Saverio Vallone, anch’egli figlio d’arte –figlio degli attori Raf Vallone e Elena Varzi– era invece quasi un esordiente, che è un po’ la caratteristica dell’intero cast. Serena Grandi, sotto lo pseudonimo di Vanessa Steiger, Margaret Mazzantini, che si trova nei credits come Margaret Donnelly, erano, al tempo, ancora sconosciute. Zora Kerowa vantava invece un pedigree nel cinema di genere più consistente: dalla partecipazione ad un cult come La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, al discutibile La vera storia della Monaca di Monza (1980), di Bruno Mattei, passando per altre interessanti pellicole, l’attrice ceca poteva dire di conoscere il cinema estremo del Belpaese. 

È infatti Carol, il suo personaggio –in qualità di capacità sensitive che, forse, si intendano da ricercare, in chiave metalinguistica, nel curriculum dell’interprete– che prevede le disgrazie in arrivo. Se ad essere accusata dei guai che capiteranno ai nostri personaggi, in prima istanza è Julie –ovvero, il personaggio della Farrow, che, non a caso, aveva già solcato i set di Zombi 2 e, quindi, era “giustamente” guardata con sospetto proprio da Carol– è presto chiaro che queste accuse sono infondate. L’unico, vero, responsabile di tutto l’orrore è il citato Klaus Wortmann, divenuto cannibale in seguito ad una tragica esperienza a cui assistiamo tramite un flashback della trama. Da un punto di vista metalinguistico, che sembra la sola traccia intuibile lasciata da D’Amato, l’interprete del cannibale, nonché coautore del soggetto, sceneggiatore e coproduttore, è George Eastman al secolo Luigi Montefiori. Eastman era un attore navigato del cinema di genere italiano, con all’attivo decine di film sparsi un po’ per ogni categoria, dagli spaghetti western ai thriller all’italiana, recitando per registi del calibro di Federico Fellini, Mario Bava e Lina Wertmüller.
In sintesi: per la violenza dei cannibal movie, non cercate colpe specifiche, come fa, ad esempio Carol additando Julie. La responsabilità è di Klaus Wortmann alias George Eastman alias Luigi Montefiori; e, nella metafora, lo si intende come simbolo di tutto quanto il cinema italiano. I film dei cannibali, coi loro pregi e difetti, altro non sono che una delle tante facce del nostro movimento cinematografico, lo stesso dei celebrati western all’italiana o di registi come Fellini, Bava e Wertmüller. Discorso condivisile, senza dubbio. Ma i “dubbi” –volendo chiamarli dubbi– sulla violenza agli animali, quelli rimangono intonsi.      



 Tisa Farrow 


Zora Kerowa 


Serena Grandi AKA Vanessa Steiger 


 Galleria 



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