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sabato 25 maggio 2024

LA DONNA DI PICCHE (1949)

1487_LA DONNA DI PICCHE (The Queen of Spades). Regno Unito, 1949; Regia di Thorold Dickinson.

Il demone del giuoco, film del 1937 di Fyodor Ocep, aveva lasciato solo intendere le potenzialità interpretative del cinema sonoro in merito a La Dama di Picche di Aleksandr Puškin. La versione del 1949 di Thorold Dickinson riesce finalmente a dare forma cinematografica degna e compiuta ad uno dei capolavori letterari russi più importanti di sempre. La Donna di Picche di Dickinson è infatti un fiore all’occhiello del cinema britannico, un thriller cupo, con momenti agghiaccianti e passaggi onirico-soprannaturali che lo fanno sconfinare spesso nell’horror d’atmosfera. La messa in scena del regista inglese è a dir poco sontuosa, a partire dall’eccellente fotografia, in un denso bianco e nero, di Otto Heller, passando per le scenografie e i costumi, di Oliver Messel, che ci immergono nella Pietroburgo di inizio Ottocento. La musica, di Georges Auric, accompagna adeguatamente la narrazione, prendendosi le opportune pause, per un racconto che ha bisogno anche dei suoi momenti intimi o angosciosi, ma quando c’è da sferzare l’atmosfera, lo fa con la potenza dell’orchestra a pieno regime. Da parte sua, Dickinson, in regia, si muove con destrezza, assecondando i passaggi drammatici del testo di Puškin, ricorrendo senza indugio ai cliché tecnici –la zoomata improvvisa a sottolineare il dettaglio, la suspense creata e alimentata senza reticenze– del cinema horror. Gli interpreti, a cominciare da Aron Walbrook, completano l’opera con prestazioni eccellenti. L’attore austriaco è un credibile capitano Herman Suvorin, il protagonista: ombroso e taciturno in principio, si fa via via sempre più audace e allucinato, rivelando la propria natura, nel momento in cui crede di aver trovato la chiave per la sua rivalsa. L’uomo, infatti, pur essendo un ufficiale ingegnere, non fa parte dei reparti d’élite come, ad esempio, gli Ufficiali della Guardia, e ha disponibilità finanziare, per nascita e per stipendio, non all’altezza delle sue ambizioni. 

Il confronto con il principe Andrei Rumoff (Ronald Howard) o il principe Fyodor Pavlich (Anthony Dawson), due veri aristocratici, è impietoso: essi possono giocare tranquillamente la propria paga di ufficiali a faro, un gioco d’azzardo legato unicamente alla sorte e in voga in Russia in quel periodo. Quando Suvorin viene a conoscenza della leggenda legata alla vecchissima contessa Ranevskaya (Edith Evans, superlativa), che avrebbe fatto una sorta di patto con il diavolo avendo in cambio il segreto delle carte nel gioco d’azzardo, il suo unico scopo diviene riuscire a scoprirlo. Per far questo, non esista ad ingannare, corteggiandola subdolamente, la povera dama di compagnia della contessa, Lizabeta Ivanovna (una fresca e delicata Yvonne Mitchell), con l’unico intento di potersi introdurre nella sontuosa residenza e far parlare la vecchia aristocratica. Al momento dell’agognato confronto, il racconto entra nel vivo e la tensione nel film sale, soprattutto grazie ai primi piani, di Walbrook e della Evans, in un allucinato campo e controcampo. Tuttavia la situazione non si sblocca e, a quel punto, l’uomo, per vincere la resistenza dell’anziana, estrae una pistola: il cuore della contessa cede e la nobildonna muore di paura. Suvorin sembra crollare e l’attore austriaco mantiene la sua performance adeguata, anche nel passaggio intimo con la povera Lizabeta, che comprende, solo allora, di essere stata ingannata. Il losco individuo sembra completamente svuotato: forse per il senso di colpa, o, più prosaicamente, per aver perso ogni speranza di conoscere il segreto della contessa. 

Ma, ecco, che una pagina aperta sul vecchio libro che aveva dato il via alla vicenda, riaccende in lui il bramoso demone che era giusto appena sopito. Allucinato, Suvorin si precipita in chiesa, al commiato al cadavere della contessa, in una delle scene più folgoranti del film di Dickinson, con un acuto degno di un horror. Un altro passaggio da pelle d’oca è il successivo confronto con Andrei, nelle fatidiche tre mani di “faro”, condensate una dopo l’altra anche in questo caso, come nel precedente filmico di Ocep, per una resa scenica decisamente più avvincente. Il colpo di scena finale, arricchito da una sequenza particolarmente onirica, rivela l’onestà della regia di Dickinson, che lascia effettivamente la possibilità di un errore da parte di Suvorin, nello scegliere l’asso vincente. La donna di picche è, infatti, accanto all’asso, nel mazzo, e il regista toglie l’inquadratura giusto un attimo prima che Suvorin prelevi la carta da giocare, per concentrarsi sui primissimi piani di Howard e Dawson. Gli attori sono bravissimi nel trasmettere la tensione del momento, ma Walbrook è addirittura superlativo: le guance sembrano davvero tremare in modo incontrollabile per lo stato nervoso che il suo personaggio sta vivendo. Una volta scoperto l’atroce destino, Suvorin crolla di nuovo, stavolta definitivamente, ed è accompagnato dal principe Andrei, animo nobile, che non infierisce sul rivale ormai in disarmo. Dickinson tralascia il soggiorno al manicomio del protagonista, per riprendere un dettaglio della trama inserito in precedenza, con Andrei e Liza che rilasciano gli uccellini dalle gabbie del mercato. Una maniera per sfogare il senso oppressivo del racconto che, in Inghilterra, alla fine degli anni 40, difficilmente poteva essere accettato senza, se non un lieto fine, almeno un minimo di sollievo. Tuttavia questo passaggio conclusivo, seppure è funzionale, non inficia minimamente la resa clamorosa del film di Dickinson, a tutt’oggi, con ogni probabilità, la migliore versione de La dama di Picche.  






Yvonne Mitchell 


Violetta Elvin 

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