Dichiaratamente pacifista, Charlie Chaplin, mentre molti dei
suoi connazionali erano al fronte, si diede un gran daffare con la sua attività
di cineasta, scrivendo, girando ed interpretando una sterminata galleria di
corto e mediometraggi. Probabilmente neppure troppo infastidito dalle accuse di
codardia, Chaplin decise comunque di dire la sua sull’argomento facendo
mandando in guerra Charlot, il suo alter-ego, perlomeno sullo schermo. Quando
il geniale autore inglese decise di girare Charlot
Soldato la Prima Guerra
Mondiale non era ancora finita (e il film uscirà comunque nelle sale americane
prima della fine del conflitto), pertanto il suo prevedibile approccio
antimilitarista avrà dovuto fare i conti con la censura. Per altro,
intelligentemente e astutamente, Chaplin ribalta completamente quello che ci si
poteva attendere da lui sebbene, da grande narratore, si riserverà lo
stratagemma narrativo per ribadire, in modo più sottile del solito, la sua nota
inclinazione sul tema. Charlot è al campo di addestramento e, naturalmente, è
una vera frana. I suoi piedi che si rifiutano di seguire i comandi
simboleggiano, all’interno di una scenetta comica, la pulsione anarchica
individuale rispetto all’autorità. I piedi non obbediscono al cervello di
Charlot più di quanto egli non riesca ad obbedire al sergente istruttore (Tom
Wilson). Come al solito il povero Charlot non ne imbrocca una: alla fine della
giornata è sfinito e sprofonda in branda. E anche al fronte l’inizio non è
troppo promettente, almeno per il soldato Charlot. Per lo spettacolo invece si
tratta di una decisa impennata: in trincea si moltiplicano le possibilità per
Chaplin di imbastire le sue proverbiali spassose gag. Innanzitutto c’è da dare
l’idea dell’ambientazione e l’autore lo fa con estrema sintesi tramite due
immagini sovraimpresse. A destra c’è Charlot, sotto la pioggia, mesto ed
infreddolito, nello spazio scuro sulla sinistra si intravvede un barman, come
fosse dietro al bancone. La zona è un incrocio tra due trincee e i militari
hanno ironicamente posto un legno a mo’ di cartello segnaletico con la scritta
Broadway. In una sola immagine possiamo fare un impietoso confronto: vediamo il
luogo dove, in pieno XX secolo, si potrebbe tranquillamente passare la serata e
quello in cui l’assurdità della guerra costringe l’individuo.
Ma i passaggi
memorabili sono più d’uno: la trappola per topi da cui recuperare l’esca in
tempi di magra, l’alluvione nella ridotta dormitorio, con Charlot che utilizza
la tromba di un grammofono per dormire completamente sommerso, o l’utilizzo di
maschere a gas per tagliare il formaggio troppo stagionato, prima di scagliarlo
nella trincea nemica a mo’ di bomba a gas. La capacità di raccontare per
immagini di Chaplin è estrema e sono infatti, come al solito, pochissime le
didascalie, in genere usate giusto per ambientare la scena. Ma se sulla vita di
trincea e le sue situazioni particolari e assurde, l’autore potrebbe andare
probabilmente avanti all’infinito, non è quella la cosa che interessa al
nostro. Arriva infatti il momento dell’attacco alla trincea nemica e Charlot,
dopo qualche comprensibile tentennamento si lancia all’assalto. A sorpresa il
soldato Charlot, recluta numero 13, cattura 13 prigionieri e si trasforma in
eroe. Da questo momento dimentichiamoci lo sconsolato militare, quello che non
riceveva posta e tristemente si riduceva a spiare un compagno che leggeva una lettera
dalla fidanzata, replicandone le espressioni appassionate. Ora Charlot è un
baldo soldato che usa i cecchini nemici per aprire bottiglie o accendere
sigarette. Partito volontario per una missione, Charlot cattura addirittura il
Kaiser! E a questo punto può venire il dubbio che Chaplin si sia davvero
convertito alla propaganda bellica o quantomeno patriottica. Ma la realtà è ben
diversa. Con l’escamotage narrativo più scontato di sempre, Charlot sta
semplicemente sognando sulla branda del campo d’addestramento dove l’avevamo
visto addormentarsi, Chaplin conferma quello che pensa sulla guerra. Qualcosa
che dovrebbe essere tenuta talmente lontana dalla realtà che, anche in una
semplice comica, debba essere al massimo confinata nella zona onirica.
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