1415_LA CASA CHE NON VOLEVA MORIRE (The House that would not die). Stati Uniti 1970; Regia di John Llewellyn Moxey.
La televisione, in particolar modo quella americana ma non solo, arrivava agli anni Settanta in pompa magna e decisa a guadagnare maggiore influenza e autonomia rispetto al cinema del grande schermo. Il regista inglese John Llewellyn Moxey, forte dell’esperienza con i film televisivi della serie The Edgar Wallace Mysteries si mise al lavoro sul rifacimento di alcuni classici hollywoodiani: Dial M for Murder (1967) era il remake televisivo de Il delitto perfetto (1954 regia di Alfred Hitchock), Laura (1968) di Vertigine (1944, di Otto Preminger) e A Hatful of rain (1968) di Un cappello pieno di pioggia (1957, di Fred Zinnemann). La produzione di questi film televisivi era anglo-americana e nell’operazione era coinvolta anche l’American Broadcasting Company, meglio nota con l’acronimo ABC, che aveva interesse a trasmettere i film sul proprio canale. L’idea era produrre in proprio film in modo da evitare di pagare i diritti agli studios di Hollywood e quelli citati erano palesi esempi di questo intendimento. Ma da un punto di vista del tipo di racconto c’era qualcosa da aggiustare. Per quanto sia vero che i classici non invecchiano mai, esistono però casi in cui un periodo di decantazione potrebbe essere necessario. Gli anni Settanta si aprivano che la bagarre della rivoluzione culturale non si era affatto placata e modelli narrativi troppo datati trovavano, in quel periodo, ben poco riscontro. Occorreva aggiornare la propria offerta e le televisioni americane inaugurarono proprio in quegli anni nuovi format, tra cui sua maestà il telefilm ma anche un altro tipo di produzione che avrà grande fortuna: il film televisivo.
Ma non qualcosa come le citate riduzioni inglesi tratte da Edgar Wallace, che erano serializzate e duravano un’ora, in genere scarsa. No, qui si trattava di opere autonome, di lunghezza un po’ più consistente e che potessero rappresentare una adeguata alternativa al cinema che usciva nelle sale. Per questo motivo, e per andare incontro agli interessi dei giovani telespettatori, ci si orientò su prodotti di genere, dando largo spazio al thriller, all’horror, al fantastico e a tutti quei tipi di racconti che andavano prendendo sempre più piede. Moxey, per questo suo nuovo esordio nel mondo televisivo, va sul sicuro e prende a soggetto un classico dell’horror, la residenza infestata. La casa che non voleva morire è un film che mette in fila tutti i cliché del genere, senza preoccuparsi di nascondere questo suo essere conforme: tanto per fare un esempio, sin da subito si sente una voce che riecheggia nelle stanze della casa in questione, quando è completamente deserta.
Il tempo che Moxey ha a disposizione è superiore a quello dei film tratti da Wallace ma neanche di molto e quindi il regista non vuole perdere tempo a convincere gli spettatori di essere di fronte al soprannaturale. Che lo sappiano subito e decidano per tempo di seguire o meno il film: che, peraltro, ha un ritmo e una narrazione che è difficile abbandonare. Il cineasta nato in Argentina, infatti, ha una mano particolarmente ammaliante in regia e qui parte subito in quarta con una serie di passaggi nei quali la pelle d’oca per lo spettatore è garantita. L’utilizzo del fuori campo, della soggettiva, della musica, dei classici stratagemmi del caso – porte che si aprono da sole o che sbattono misteriosamente, tende alle finestre che svolazzano e via di questo passo – creano un’atmosfera decisamente evocativa e terrorizzante. Il cast estremamente contenuto unito ad un’unica location prevalente, la casa in questione, contribuisce ad alimentare la sensazione di racconto – in questo caso del brivido – da gustarsi accanto al caminetto, il che è esattamente quello che andava a rappresentare la televisione nelle famiglie. La star che funge da richiamo del film è Barbara Stanwyck nel ruolo di Ruth Bennet, la signora che eredita la vecchia casa che si rivela infestata. Al tempo la Stanwyck aveva appena terminato la sua lunga esperienza televisiva con La Grande Vallata ed era ormai una vera e propria stella del piccolo schermo; ne La casa che non voleva morire si disimpegna con classe e professionalità. Più sanguigna, e inquietante, la prestazione di Richard Egan nel ruolo di Pat, il ‘vicino più vicino’, per usare le sue stesse parole. Nonostante sia il suo personaggio ad essere spesso vittima degli spiriti che infestano la casa, l’interpretazione di Kitty Winn è abbastanza ordinaria – è Sara, nipote di Ruth – e anche Michael Anderson Jr – è Stan, un alunno di Pat – non lascia particolarmente il segno.
Oltre a saltare subito all’occhio, la composizione a doppia coppia del cast è sottolineata in modo reciproco dai dialoghi, con Ruth e Pat che commentano l’immediato affiatamento dei due giovani e questi che fanno la stessa cosa nei confronti dei due adulti. Non inganni questa sorta di lavoro da agenzia matrimoniale perché la storia non presenta alcun rapporto di tipo familiare, tra i presenti, almeno non tra quelli vivi e vegeti. Ruth è, come detto, la zia di Sara mentre Pat è il professore di Stan. Il che è un riferimento alla difficoltà che la famiglia tradizionale andava incontrando nella società americana del tempo e di cui il racconto si faceva ben portavoce. Difficoltà che, si diceva, erano esplose con la rivoluzione sessantottina ma che avevano radici profonde: la violenza di genere, già affrontata altre volte da Moxey, in particolare in Strangler’s web (1965) ma in parte anche ne Il lungo coltello di Londra (1966), qui riaffiora in qualche momento drammatico tra Pat e Ruth, anche se ad esserne responsabili sono gli spiriti che aleggiano nella casa. In effetti un rapporto famigliare stretto c’è, nel racconto, ed è quello tra il vecchio proprietario della villa e la figlia che l’uomo, pur di non veder fidanzata, arriverà ad uccidere.
Per evitare lo scandalo e l’accusa di omicidio il vecchio seppellirà i due giovani in cantina, murando opportunamente il locale. Il ritrovamento delle salme e la rivelazione della verità sono ovviamente l’unico modo di placare gli spiriti di questi antichi personaggi. Come detto il film non brilla certo per originalità ma come esplicitato dai tanti eleganti cambi d’abito della Stanwyck, in questo caso – come del resto spesso nell’horror – la forma è sostanza. Del resto lo sanno anche i personaggi: la vecchia zia di Pat (Mabel Albertson) si presenta con l’amica Sylvia (Doreen Lang) che vuole organizzare una seduta spiritica per inaugurare a suo modo la casa. Il primo ad essere scettico è Pat ma quando cominciano i problemi è la stessa Ruth a dirsi fermamente contraria: naturalmente la seduta spiritica si farà e, com’è ovvio, avrà effetti drammatici. La trama, in sostanza, è prevedibile per gli stessi personaggi ma tant’è, va portata avanti comunque, è la legge dello spettacolo. E dei generi narrativi. C’è un motivo anche in questo senso, se Moxey decide di giocare a carte scoperte: nel tipo di storie che riguardano le case infestate, in questo caso il tema è già evidente sin dal titolo, non è la sorpresa che ci spaventa ma, al contrario, il fatto di sapere che, da qualche parte fuori dall’inquadratura, qualcosa di pauroso incombe. Il regista, quindi, ci fornisce tutte le informazioni possibili sapendo di riuscire, proprio perché noi conosciamo il tipo di pericoli narrativi in questione, a farci ugualmente paura. Ma, se non si è capito, La casa che non voleva morire è un film dagli intenti positivi, nello specifico provare ad interpretare la funzione della televisione, nuovo focolare famigliare. Per cui, se Ruth può avviarsi con Pat e Sara con Stan, anche i due antichi fidanzati troveranno finalmente pace. Al cattivo della storia, il vecchio proprietario, non rimane che chiedere perdono: la forma è sostanza, questa è la chiave di lettura del film, e anche a lui basta questo per essere redento.
Barbara Stanwyck
Kitty Winn
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