1424_IL VENDICATORE DI JESS IL BANDITO (The return of Frank James). Stati Uniti 1940; Regia di Fritz Lang.
Il vendicatore di Jess il bandito è uno dei migliori sequel mai prodotti; e comunque già ampiamente superiore a quel Jess il bandito (1939, di Henry King), che pure era un ottimo film e di cui quello di Fritz Lang era il seguito. E’ quasi sorprendente il fatto che un regista come Lang, che aveva al suo attivo Metropolis o M-Il mostro di Dusseldorf, e che in America aveva già girato Furia, accettasse un film dagli intenti smaccatamente così commerciali. Alla base de Il vendicatore di Jess il bandito c’è infatti l’intento di sfruttare il successo del film di King, unitamente alla presa che la leggendaria figura dei James faceva ancora sul pubblico. In questo senso l’idea non era nemmeno peregrina: chi meglio dell’autore della straordinaria trasposizione cinematografica della saga dei Nibelunghi poteva cantare le gesta dei fratelli James? In fondo, il cinema western era pronto a diventare l’epica americana, quello che le saghe di Sigfrido e Crimilde, come anche quelle di Artù, Rolando ed Enea, erano state per l’Europa. Fa un po’ specie pensare che i James potessero incarnare un ruolo tanto importante, essere i campioni, gli eroi, della nazione; non va dimenticato che erano criminali. Certo, King, con il suo film, decise di stravolgere completamente i riferimenti storici, legittimando (o provando a farlo) la violenza che caratterizzerà la vita di Jesse James (e, di conseguenza, quella abitualmente diffusa in America). Una scelta di comodo, supportata dal fatto che il mito del sud era accettato un po’ dovunque, nel paese. Lang, però, è un autore superiore, principalmente per rigore morale ed estremo rispetto per la verità; si tratta quindi di una sfida interessante, quella che gli si para d’innanzi. E Lang l’affronta con l’umiltà tipica dei grandi: si tratta del suo primo western e del suo primo film a colori. Era invece già pratico di sequel o comunque film che riprendevano opere precedenti: nel suo periodo tedesco aveva all’attivo due film sulla società segreta dei Ragni, due sul Dottor Mabuse e, volendo, c’era anche il citato doppio lungometraggio sui Nibelunghi. Al contrario, era al primo intervento su di un seguito di un lavoro di un altro autore.
La capacità di adeguarsi di Lang è notevole, a cominciare dai titoli di testa, praticamente identici al film di King. L’incipit, con l’assassino di Jesse James da parte di Bob Ford, è addirittura preso dal finale dallo stesso film; va detto che l’opera di Lang manterrà una sua indipendenza ma almeno il pretesto che scatena la vendetta di Frank è utile che sia rinfrescato. I personaggi sono formalmente gli stessi (quelli che ci sono, Jesse, come detto, è morto): Frank (Henry Fonda) mastica tabacco e sputa; a Bob Ford (John Carradine) trema la mano quando deve sparare; il maggiore Rufus Cobb (Henry Hull) è quasi sempre nella redazione del suo giornale, sempre intento a dettare articoli, tutti rigorosamente uguali nell’impostazione; McCoy (Donald Meek) è ancora più viscido e codardo e il detective George Runyan (J. Edward Bromberg) è il solito babbeo. Ma l’autore sa che c’è un nodo grosso da affrontare, ed è quello dello schiavismo: il personaggio che si appresta a celebrare col suo film, Frank James, era un sudista e membro della banda Quantrill. Quindi, nella realtà storica, era inequivocabilmente una persona che, quantomeno, accettava come normale la condizione di schiavitù in cui venivano tenuti i neri americani. King nel suo Jess il bandito aveva scantonato il problema, inserendo Pinky (Ernest Whitman), il bracciante di colore di casa James, giusto come personaggio di contorno, per addobbare un po’ la scena con un tipico elemento del sud statunitense.
Lang ribalta il ruolo dell’omone: è subito protagonista di una gag spassosa, che introduce il tono umoristico che sarà costante per tutta la pellicola; è poi sulla sua figura che si gioca il riscatto morale di Frank, che non lascerà che il suo aiutante venga ingiustamente impiccato. Nonostante sia un uomo di colore. Questo è il passaggio cruciale, di Il vendicatore di Jess il bandito e un ruolo fondamentale, nella conversione del protagonista, c’è l’ha il personaggio femminile della storia, Eleanor Stone (una deliziosa Gene Tierney). Frank è infatti sulle tracce di Bob Ford, l’assassino di Jesse, ma si trova costretto a scegliere: la vendetta del fratello o il tempestivo intervento per scagionare Pinky, che sta finendo sulla forca per un delitto che non ha commesso? Se la questione non può che risolversi con la scelta saggia di intervenire al processo del suo bracciante, Lang ci lascia col dubbio di cosa abbia aiutato Frank a prendere la decisione giusta. Tra l’altro, in prima stanza, l’uomo è convinto del contrario: la vendetta è la cosa più importante. E già anche solo questo fatto non depone a suo favore. Poi Eleanor prova a convincerlo, ma sembra un’operazione vana. Però, come attrice, Gene Tierney conferisce ad Eleanor, già ad una prima occhiata, una serie di argomenti che non passano certo inosservati; sono questi che, alla, fine convincono Frank a cambiare idea? Per Clem (Jackie Cooper) è scontato: senza l’intervento femminile, il suo amico Frank avrebbe fatto quello che andava fatto, saldare il conto a Bob Ford. Quanto a Pinky sulla forca, cosa importava di un bracciante di colore? Di diverso avviso il maggiore Rufus, che prova a disilludere Eleanor: non è merito suo se Frank ha fatto il proprio dovere. Frank è onesto di suo; almeno secondo il maggiore che è anche il giornalista della storia, non che sembri poi molto attendibile.
Almeno non molto più di Clem, che peraltro doveva conoscere bene Frank, visto che ci passava tutto il tempo. Tuttavia il regista non approfondisce più di tanto, anche se già il temporeggiare del protagonista ci dà l’idea della sua scala di valori: per Frank una vita umana (di un nero) valeva circa quanto una vendetta. Lang risolve quindi una situazione difficile, ovvero un’impostazione della vicenda contraria a realtà storica e morale, ristabilendo l’ordine delle cose. La schiavitù era ingiusta ed inaccettabile, Frank James non aveva alibi (nemmeno l’ira per la morte del fratello) per essere un criminale ma, se voleva il ruolo di eroe, doveva comportarsi come tale. Il tutto senza intervenire più di tanto nella ormai obsoleta disputa nord/sud, con McCoy, il padrone delle ferrovie, e che incarnava sia l’Unione che, almeno in parte, le istituzioni nazionali, dipinto in modo negativo e rincarando lo sberleffo ai suoi danni. Perché il tono storico/western della storia è fortemente contaminato dall’umorismo: si è detto di Pinky, in questo senso vero mattatore in alcune scene, e di McCoy e dei suoi tirapiedi, presi in giro senza mezzi termini dal regista, ma il passaggio cruciale di questa contaminazione è il processo. Un momento drammaticamente delicato dove si sta decidendo per la vita di un uomo è trattato come una sorta di farsa da parte di Lang: memorabile il passaggio in cui Frank, rispondendo al legale dell’accusa che l’invita a non tergiversare, dichiara che, non essendo avvocato, non può parlare senza pensare. Insomma, nonostante i tanti vincoli che gli si presentavano, il rispetto della continuity con Jess il bandito, gli echi della Guerra Civile, non del tutto risolti, la questione razziale, comunque, nel 1940, anch’essa per nulla scontata, unitamente al fatto che avrebbe dovuto raccontare le gesta del James meno nobile, meno eroico, nulla di tutto questo impedisce a Fritz Lang di riuscire in modo convincete e completo su tutta quanta la linea. La ricetta di questa, a suo modo clamorosa, impresa? La solita del cinema di Lang: niente sconti.
Gene Tierney
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