1428_LA VERA STORIA DI JESS IL BANDITO (The true story of Jesse James). Stati Uniti 1957; Regia di Nicholas Ray.
A quanto risulta, non solo è lecito dubitare della veridicità storica di La vera storia di Jess il bandito, di Nicholas Ray ma, quella che vediamo sullo schermo, non è nemmeno la vera resa cinematografica che avrebbe voluto il regista. Per quel che riguarda la verità storica, nonostante sia evocata dal titolo, occorre tenere presente che si tratta comunque di un’opera di finzione e non un resoconto documentaristico. Piuttosto dispiace aver visto naufragare il vero ambizioso progetto di Ray che, pare, prevedesse una complicata ma affascinante struttura narrativa con un uso inconsueto dei flashback. Secondo la volontà del regista, i salti temporali all’indietro dovevano essere inseriti senza stacchi visivamente intuibili e nemmeno posti in ordine cronologico. Sarebbe stata una ballata d’accompagnamento a scandire gli spostamenti temporali nella narrazione: il ritornello avrebbe segnato il flusso del presente, le strofe i tuffi nel passato della storia. Purtroppo la produzione tolse di mano il montaggio finale a Ray virando su scelte più tradizionali: i flashback sono riordinati cronologicamente e introdotti da alcuni fotogrammi vagamente onirici. Una soluzione banale, quest’ultima, e anche un po’ kitsch che, oltretutto, stona in un western nel complesso certamente innovativo e originale ma, al tempo stesso, ancora abbastanza tradizionale. In effetti, il riferimento alla vera storia è da prendere con le molle, visto che Ray si rifà più che altro al precedente Jess il bandito, film del 1939 di Henry King; un western addirittura antecedente all’epoca classica del genere.
Pochi giorni dopo al film di King, uscì nelle sale americane quell’Ombre Rosse che sancì i canoni classici del western al cinema; si tratta di un battesimo simbolico, ovviamente, ma è interessante notare come i protagonisti dei due film fossero fuorilegge. Nel western, quindi, lo sguardo alternativo, quello dalla parte di banditi e ribelli e tipico di Ray, trova facilmente asilo sin dai primordi: se i fuorilegge erano certo di moda nei western precedenti al boom dei film coi cowboy, che arrivò negli anni 50, erano anche protagonisti nell’opera che è da sempre abitualmente considerata la pietra angolare del genere. Del resto, nei film sulla conquista del west, il cowboy, il pistolero, anche quando non è un fuorilegge, è un personaggio fuori dagli schemi; se non altro perché questi non c’erano: l’ovest era definito selvaggio proprio per mancanza di leggi e regole. In ogni caso Jesse James, perlomeno il Jesse James dello schermo cinematografico, si presta bene alla poetica di Nicholas Ray; con il risultato che La vera storia di Jess il bandito è un film tutto sommato non troppo diverso da altri western, almeno a prima vista.
Tra l’altro, la matrice sudista del personaggio, che evocava le ruggini della Guerra Civile americana, lo poneva sempre in un’ottica eroica da una parte, tollerata per quieto vivere dall’altra. In realtà, anche il solo fatto di essere stati membri della banda Quantrill, poneva James e i suoi scagnozzi nella lista dei più feroci criminali. Ma questa sarebbe la vera Storia del personaggio storico; al contrario, Ray, ci parla della vera storia di un personaggio del cinema, il Jesse James dei film. Questa sottile differenza è cruciale per guardare nell’ottica giusta La vera storia di Jess il bandito. Al di là dell’aspetto tutto sommato consueto, il film di Ray presenta alcune particolarità interessanti, a partire dalla rapina andata in malora con cui comincia la pellicola. Il raccolto filmico comincia in media res, e solo grazie ai successivi flashback possiamo comprendere meglio la dinamica dell’accaduto. Questo sfasamento temporale, questo raccontare saltando i preliminari ma andando subito al sodo, (ovvero il fallimento della rapina), è possibile e agevole proprio perché quello di Ray è un remake di un film famosissimo, e quindi è nota la vicenda e anche la fine che farà James.
In sostanza tutto quanto il film può essere inteso come un enorme flashback, in quanto lo spettatore è già facilmente a conoscenza dei fatti della storia e del suo epilogo. E’ forse questo il senso di quel The true story of Jesse James; si gioca quindi in parte con l’ingenuità degli spettatori che ancora credono nell’attendibilità storica del cinema di finzione ma, più che altro, si fa esplicito riferimento ad un'altra storia di Jesse James. Quella non vera, ovvero, quella raccontata nel citato Jess il bandito. Un modo per garantirsi, da parte di Ray, che lo spettatore possa aver già presente il plot narrativo di base, su cui introdurre alcune variazioni. Che non sono tanto vere in senso storico, quanto certamente interessanti. Ad esempio la dinamica della rapina, con alcune scene che aggiornano e migliorano quelle originali del film di King, e che verranno riprese addirittura negli anni 80 da Walter Hill in I cavalieri dalle lunghe ombre tanto sono moderne, come taglio: su tutto il fango per la strada e la violenza degli scontri. E poi, l’assenza di morale, da parte dei James. Jesse James (Robert Wagner), il protagonista del film, è davvero un rebel without a case, un ribelle senza una causa, una ragione, come recitava il titolo originale di Gioventù bruciata (dello stesso Ray, 1955). Solo che lo è in modo letterale; vero. Gli alibi che porta, infatti, sono assai scarni; in Jess il bandito anche solo l’incipit legittimava la scelta criminale dei James, con l’esproprio delle proprietà e l’uccisione della madre; e poi c’era anche il tradimento da parte delle autorità nei confronti di Jess.
Tutto sommato Ray, su questi aspetti, opera davvero in modo più veritiero rispetto al precedente film di Henry King, ma questo non torna a vantaggio di Jesse James. I nordisti irrompono a casa James, nel primo flashback del film di Ray, ricercando Frank (Jeffrey Hunter), fratello di Jesse e aggregato alla banda Quantrill. La banda Quantrill era un gruppo di irregolari che si macchiò delle peggiori infamie; Ray non si sofferma su questo aspetto, ma non ci sono altre interpretazioni. Frank, e poi anche lo stesso Jesse, furono quindi irregolari di Quantrill e non soldati nella confederazione sudista. Ribelli, certo, e questo sarà piaciuto a Ray, ma della peggiore razza. In ogni caso, Ray è molto scrupoloso, in questo passaggio, i suoi nordisti hanno un atteggiamento pilatesco: si limitano ad interrogare Jesse, ma è il vicino di casa a prenderlo a cinghiate. Ma era già stato evidenziato dallo stesso James che non correva buon sangue tra loro; e sarà ancora il vicino a compiere la razzia con l’impiccagione di Hughie, reo di essere anch’egli uno della banda Quantrill. Non uno stinco di santo, evidentemente. Per cui, gli elementi più forti, presenti nel film, tra quelli che spingono i James sulla cattiva strada, sono legati a ruggini tra vicini, e non tanto all’intervento nordista. Tra l’altro, sempre il solito vicino accusa direttamente la madre dei James di essere una famiglia di sostenitori degli schiavisti, e la donna non ha la capacità di replicare alcunché. I presupposti che classicamente vengono ritenuti alla base della decisione dei fratelli James di divenire fuorilegge, ovvero i soprusi e le ingiustizie inflitte loro dai nordisti a guerra civile finita, Ray si limita a farli emergere dai dialoghi, non sono nemmeno cinematograficamente resi sullo schermo. Insomma, non ha alibi credibili, il suo Jesse James; lo vediamo fare la bella vita con Zee (Hope Lange), con i soldi provenienti dalle rapine, ma non palesa mai l’ombra di un rimorso, nemmeno per i tanti morti che lascia sul suo cammino. Chissà, forse Ray amava Jesse James proprio per il suo essere ribelle senza una valida motivazione; ma, a differenza di altri personaggi dei suoi film, Jesse non è un individuo sofferto, combattuto. Ed è in questo aspetto che traspare, quasi controluce, quasi sottotraccia, l’ombra di quella verità reclamata dal titolo del film: Jesse James non era un ribelle, ma un volgare criminale.
Hope Lange
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