1427_PRIMA LINEA (Attack!). Stati Uniti 1956; Regia di Robert Aldrich.
In un film bellico ci si aspetterebbe una battaglia tra i nostri e i nemici; in fondo è quella la
guerra in oggetto al lungometraggio, uno scontro armato tra due eserciti
avversari. Con Prima Linea il regista
Robert Aldrich scombina un po’ le carte, e presenta una storia ambientata si in
Europa nel 1944, (per la precisione nella zona delle Ardenne), e quindi nel bel
mezzo del fronte europeo occidentale della Seconda
Guerra Mondiale, ma il conflitto tra gli americani protagonisti del film e
i tedeschi, rimane un po’ sullo sfondo. La vera guerra, il vero scontro, è
tutto interno alle truppe americane, ed è originato dalle logiche
opportunistiche che determinano le gerarchie di comando. Il punto cruciale è
che il capitano Cooney (Eddie Albert) è un codardo incompetente e raccomandato,
e con la sua viltà causa la morte di una quindicina di uomini, abbandonati al
fuoco nemico. Il tenente Costa (un allucinato ma eroico Jack Palance), il
valoroso ufficiale che ha visto decimato i suoi uomini, se lo vorrebbe mangiare
vivo, ma si limita a minacciarlo apertamente di morte. Il che è un fatto
inaudito in un film di guerra degli anni 50. Il tenente Woodruff (William
Smithers) è anch’esso convinto che Cooney sia inadeguato, cosa del resto palese
e condivisa da tutta la truppa, ma è assai più moderato e ligio al regolamento,
e si limita a cercare di fare destituire il suo superiore. Così ne parla al
tenente colonnello Bartley (il sempre valido e ambiguo Lee Marvin), che però è
amico dell’influente padre di Cooney, e per la sua carriera necessita che il
capitano non venga screditato. Così per l’arrivismo di Bartlett e la
vigliaccheria di Cooney ci vanno di mezzo i poveri militari, che vengono
spediti al macello senza troppi patemi d’animo. Il film è girato con uno stile
minimalista da Aldrich, che si limita ad un’opera secca e senza fronzoli, con
scene di battaglia crude e realistiche, magari non eccessivamente spettacolari
ma di sicura efficacia. Il regista statunitense costruisce tutta la storia per
arrivare alla scena madre finale, una resa dei conti che vede Cooney affrontato
da un delirante Costa in un primo momento, a cui subentra anche Woodruff,
costretto, dalle circostanze, a prendere una drastica decisione. Cooney vuole
vigliaccamente arrendersi, nonostante sappia che le SS non facciano
prigionieri, e inoltre uno degli americani sopravvissuti è di origine ebrea, e
quindi passerebbe guai poco raccomandabili in mano agli aguzzini tedeschi. Alla
fine sarà proprio il moderato Woodruff a portare a termine la minaccia
paventata da Costa; ma uccidere un superiore non è un fatto che può lasciar in
pace la coscienza di un uomo corretto come il tenente. Gli uomini della truppa,
per cercare di smorzare i sensi di colpa dell’ufficiale, arrivano a sparare al
cadavere del capitano Cooney, cercando di convincere Woodruff che non può
sentirsi l’unico colpevole, in quanto il superiore avrebbe anche potuto essere
ancora vivo, seppure moribondo. E’ un passaggio un po’ forte, perché
l’accanimento di sparare ripetutamente su un cadavere ha un che di blasfemo, di
oltraggioso, anche in guerra. Poi arriva il tenente colonnello Bartley, che
prova a sistemare opportunisticamente tutto, decorando con una medaglia al
valore i caduti Cooney e Costa, e promuovendo sul campo Woodruff. Soluzione di
cui trarrebbe i maggiori benefici: per la sua compagnia un’operazione militare
conclusa con successo, due ufficiali decorati e uno promosso sul campo. Sembra
un bel colpo, per la carriera militare del tenente colonnello.
Coscienza di Woodruff permettendo.
E la telefonata del tenente al generale che chiude la
pellicola, ci dice che non sembra dell’idea.
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