Translate

sabato 13 gennaio 2024

LA FOSSA DEI DISPERATI

1421_LA FOSSA DEI DISPERATI (La tete contre les murs). Francia 1959; Regia di Georges Franju.

Al tempo noto documentarista dai toni crudi, Georges Franju esordisce nel mondo del cinema di finzione con un lungometraggio che non lascia molte speranze in più rispetto ai suoi spiazzanti cortometraggi. La fossa dei disperati – titolo italiano che rimanda al notevole La fossa dei serpenti (1948, di Anatole Litvak) ma meno efficace dell’originale La tête contre les murs – è un film svelto, costruito con alcuni passaggi sbrigativi ma indubbiamente efficace e con un finale ben più che desolante. François (Jean-Pierre Mocky) è un bellimbusto che ama spassarsela con i soldi del facoltoso padre, il magistrato Gérane (Jean Galland), con il quale non ha praticamente alcun legame. Alla base dell’ostilità verso il genitore ci sono le misteriose circostanze in cui morì sua madre, che il ragazzo sospetta uccisa dal padre mentre questi sostiene si sia suicidata. A questa già non semplice situazione si somma il contrasto generazionale con François che anticipa parte dei temi della contestazione giovanile di là da venire, rinnegando peraltro solo in parte il sistema borghese. Il ragazzo, infatti, è ben lieto di far parte della élite socio-economica se si tratta di spendere i soldi di famiglia divertendosi; più restio quando è richiesta una sua collaborazione nel guadagnarli. Non è, in sostanza, un personaggio verso il quale si provi una grande empatia, il nostro François, se dobbiamo dirla tutta. Certo il padre sembra assai peggiore ma per il ragazzo sarà fondamentale l’incontro con Stéphanie (Anouk Aimée, una tonnellata di charme a spasso sullo schermo) ma prima che la storia con la bella ragazza prenda corpo, François viene spedito in un istituto psichiatrico. Non è che sia impazzito, eh; si tratta di un escamotage del padre per punirlo per avergli rubato dei soldi e bruciato alcuni documenti riservati. Il furto non sarebbe stato possibile da sostenere in tribunale, visto che il giovane si trovava in casa sua quando prelevò i contanti; per quel che riguarda i documenti bruciati per dispetto dal giovane, questo era un tema forse più delicato per l’anziano padre che li aveva portati a casa quando la cosa non era assolutamente concessa. 

Qui Franju, che con il suo racconto – tratto da un romanzo di Hervé Bazin – ha già demolito l’istituzione famigliare, mette rapidamente sotto accusa la magistratura prima di dedicarsi al suo vero obiettivo. Il magistrato, infatti, mostra tutta la sottigliezza tipica degli uomini di legge incastrando il figlio con l’accusa di follia e piromania e non con una aderente al vero, visto che il furto di denaro del padre era giuridicamente quasi inesistente e lo sciocco dispetto, al netto delle gravi ripercussioni, in sé stesso comportava ben poco in termini di pena per il giovane. François non finisce quindi al fresco ma in un centro di cura per malati psichiatrici e qui si arriva al punto che preme maggiormente al regista. Perché la medicina è uno dei pilastri della nostra società, una disciplina in cui confluiscono scienza e umanesimo e che garantisce un incremento del livello di benessere diffuso addirittura superiore all’economia. 

Non si dice forse la salute innanzitutto? Franju non sconfessa questa indole teoricamente positiva della scienza medica, e la rappresenta sullo schermo nella figura del dottor Emery (Paul Merisse), ma il centro della scena nell’ospedale psichiatrico è focalizzato sul più discutibile dottor Varmount (Pierre Brasseur). Ad accomunare tutte le istituzioni tirate in ballo è la figura patriarcale: nella famiglia, dove François si ritrova col solo padre autoritario. Il quale, nello stesso momento, vista la professione, incarna anche la magistratura, che come detto finisce anche lei sul banco degli imputati. Infine la figura patriarcale è riscontrabile anche nei due citati dottori, e quindi nella medicina, pur se con posizioni differenti. Varmount, infatti, ha ben poco dello spirito umanitario di Emery – che è l’unico barlume di positività in questa chiave di lettura – ed è invece concentrato sul ruolo di garanzia che un istituto psichiatrico, secondo il suo pensiero, debba ricoprire in seno alla collettività. I pazzi sono pericolosi e vanno tenuti separati dal resto della comunità, per impedire loro di nuocere; se i disturbi possano avere una ragione e quindi una soluzione, all’attempato dottore interessa poco, l’importante è evitare di creare pericoli per le persone normali. Nel momento in cui questo punto di vista molto borghese, che valuta più importante di ogni cosa la convenienza per la maggioranza – leggi classe media – conquista anche la medicina, la trasforma in uno strumento di controllo sull’individuo. E se l’ospedale psichiatrico è equiparato ad una prigione, con i medici che fungono il ruolo che è delle guardie carcerarie o dei poliziotti, allora l’unica soluzione è fuggire ma, per chi non è delinquente per vocazione, diventa difficile cavarsela. La figura più tragica del film è infatti quella del povero Herteuvent (Charles Aznavour), malato che soffre di epilessia e che non sopravviverà al tentativo di fuga. François alla fine ce la fa ma anche per lui non c’è speranza, nel momento in cui sceglie di non ascoltare i consigli del malavitoso a cui era stato raccomandato e si reca a casa di Stéphanie, il primo luogo dove sarebbe stato cercato. La società non offre scelta: o ci si integra o si diventa fuorilegge; un ruolo fuori da questi rigidi schemi non è previsto. Sarà infatti troppo facile trovare François per gli uomini sulle sue tracce, sia che fossero poliziotti sia che fossero sanitari. E poi, nella società patriarcale capitalista, fa differenza?





Anouk Aimée 



Edith Scob 


Galleria di manifesti




Nessun commento:

Posta un commento