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mercoledì 19 gennaio 2022

LE MIE PRIGIONI (1968)

959_LE MIE PRIGIONI ; Italia, 1968; regia di Sandro Bolchi.

Quando nel 1968 gli viene affidato l’incarico di sceneggiare e dirigere l’opera di Silvio Pellico Le mie prigioni, Sandro Bolchi era già un regista televisivo di grande esperienza e di provata efficacia. Tuttavia un’opera come quella di Pellico rappresentava un ostacolo non indifferente: si trattava di rendere sul piccolo schermo la traumatizzante esperienza del letterato italiano in quel dello Spielberg, la fortezza adibita a carcere duro da parte degli austriaci. Il che non sembrerebbe certo un problema, in ambito di narrativa televisiva. Il punto è che il Pellico, nel suo celeberrimo libro autobiografico, non alza mai l’asticella della tensione, o perlomeno non quella legata alla ribellione d’impeto, al risentimento, all’odio. Il letterato riuscì ad affrontare la durissima prigionia con indomita capacità di sopportazione, mostrando che la sensibilità che gli aveva permesso di scrivere le famose tragedie (come Francesca da Rimini) non era uno sterile strumento professionale ma la sua profonda e vera indole umana. Pellico, infatti, riuscì sempre a cogliere gli aspetti positivi che si intravvedevano qua e là anche in quella terribile esperienza e, nonostante i problemi di salute che la prigionia gli cagionò, non perse mai la fiducia nel prossimo. Per Bolchi, quindi, si trattava di cogliere lo spirito sereno e illuminato di un sopraffino artista che sopportava le infide e dispettose angherie degli austriaci, vacillando sul filo della disperazione ma riuscendo a non perdere mai il lume della sua sensibilità. Infatti, è chiaro che, visto la posizione di artista e la sua particolare capacità di sopportazione, le autorità austriache non poterono accanirsi con torture apertamente tali, sebbene un prolungato soggiorno nelle carceri più fetide dello Spielberg vi si possa tranquillamente ascrivere. 

Del resto al compagno di cella di Pellico, Piero Maroncelli (nello sceneggiato Paolo Carlini) durante la prigionia venne amputata una gamba, operazione che passò peraltro alla Storia come terapia per combattere un cancro al ginocchio. Comunque, al di là di questi aspetti storici e venendo allo specifico dello sceneggiato Rai in questione, il problema più importante per Bolchi (e per lo spettatore) era che Le mie prigioni rischiava di non essere un testo così avvincente da un punto di vista meramente narrativo. Certo, l’interesse per un personaggio tanto illustre della nostra Storia rimaneva e non va assolutamente sottovalutato ma Bolchi era autore superiore e non si poteva accontentare di un mero resoconto a cui rischiava di mancare il ritmo della narrazione televisiva. 

Per evitare questa deriva, da un punto di vista dei tempi televisivi rischiosa in termini di noia già in quel 1968, il sagace autore lombardo spinse forte sulle caratteristiche già proprie dello sceneggiato, dando spazio ad attori di solida formazione teatrale a cui concedere lo schermo con generosità. Così, uno straordinario Raoul Grassilli è un convincentissimo Silvio Pellico, mentre prima Tino Carraro (è l’attuario Cardani) e poi Arnoldo Foà (è il consigliere Salviotti) sono gli inquisitori del nostro, e nei loro interrogatori possono dar sfoggio della loro raffinata capacità oratoria. Tra gli altri, benissimo anche Ferruccio De Ceresa (l’abate Giuliano) e Sergio Tofano (il carceriere Schiller) mentre spiazzante ma quanto mai indovinata la scelta di Gigliola Cinquetti per il ruolo di Zanze, sorta di cameriera del carcere dei Piombi di Venezia

La Cinquetti era ovviamente una cantante seppur avesse interpretato una manciata di film perlopiù musicarelli degli anni sessanta che sfruttavano la sua vena canora. Questa minima esperienza, unita al fresco e spontaneo fascino della veronese, permettono a Bolchi di operare efficacemente per contrasto. Al cospetto di attori di teatro esperti, lo scarso mestiere di Gigliola nell’ambito recitativo si rivela un convincente modo per dar vita ad una credibile ragazzetta ingenua fin che si vuole ma che opera, proprio come la Cinquetti, su un altro piano rispetto agli interlocutori (tanto rispetto all’istruito Pellico quanto all’impostato stile recitativo di Grassilli). L’umile ma affascinante Zanze diviene così un personaggio importante nella storia, al punto da suscitare la gelosia di Gegia (Carmen Scarpitta) con cui il Pellico aveva una relazione prima della carcerazione. Il risultato di questa sceneggiato dal sapore ancora più teatrale del solito è un racconto avvincente, scandito dai rapporti di Pellico con Cardani, con Zanze, con Salviotti, con Schiller perché, nonostante la prigionia privi il letterato del rapporto con gli altri, sarà sempre nella capacità dell’uomo di comprendere il suo prossimo ad elevarne la figura. Una personalità, quella di Silvio Pellico, apparentemente mite e riflessiva che, come comprese anche Metternich, non dava però alcuno scampo a chi avesse qualche peso sulla coscienza. 



Gigliola Cinquetti



Carmen Scarpitta


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