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venerdì 7 maggio 2021

VIZI PRIVATI, PUBBLICHE VIRTU'

811_VIZI PRIVATI, PUBBLICHE VIRTU' . Italia, Jugoslavia, 1975;  Regia di Miklós Jancsó.

Autore decisamente singolare, Miklós Jancsó con Elettra amore mio (1974) aveva forse sancito il suo personale percorso, allontanatosi sempre più dal cinema convenzionale a favore di un maggiore simbolismo, all’interno di una messa in scena coreograficamente teatrale, ricca di danze e balli. E il successivo Vizi privati, pubbliche virtù, in fondo, prosegue in questo solco: ciononostante la critica, in genere benevola verso queste forme di espressioni artistiche, stroncò decisamente la nuova opera del regista ungherese. In effetti la massiccia presenza di elementi sessuali esibiti in modo ostentato (seni, certo, ma anche organi sessuali femminili e maschili nonché un paio di passaggi adeguati al cinema pornografico) è sempre un elemento disturbante per il comune senso critico. Effettivamente Vizi privati, pubbliche virtù è un film formalmente eccessivo e sembra esserlo in modo un po’ gratuito. Per la verità c’è chi vide nelle scelte piccanti di Jancsó un tentativo di cavalcare sfacciatamente l’esibizione di temi sessuali per avere un facile riscontro presso il pubblico che, in quegli anni settanta, si andava abituando sempre più a questo tipo di operazioni. Ed è innegabile che sia una critica non del tutto campata per aria. Diversamente, a difesa dell’autore ungherese si potrebbe obiettare che, se lo scopo fosse stato di raccogliere consensi mostrando nudità varie, non sarebbe servito tirare in ballo i fatti di Mayerling del 1889. La vicenda raccontata (in maniera assai libera e vagamente surreale) in Vizi privati, pubbliche virtù fa evidente riferimento a quella in cui a Mayerling trovò la morte Rodolfo d’Asburgo-Lorena (nel film interpretato da Lajos Balàzsovits), ufficialmente per suicidio. 

Come noto, con il suo cadavere fu rinvenuto quello di Maria Vetsera e qui il film di Jancsó comincia a prendersi una delle tantissime libertà narrative, visto che Teresa Ann Savoy interpreta, piuttosto, una certa baronessa Mary (che è addirittura un ermafrodito!). Peraltro tutto si può dire di Vizi privati, pubbliche virtù tranne che si atteggi a documento storicamente attendibile e, quindi, le bizzarre scelte narrative di Jancsó, almeno in questo ambito, sono pienamente legittime. Più concretamente, è palese la critica al perbenismo di facciata degli Asburgo che può essere un’efficace metafora alla società borghese che ancora mal tollerava le idee sessantottine rivoluzionarie, anche e soprattutto in materia sessuale, pur non avendo certo l’anima candida che ostentava. 

L’idea del regista ungherese era forse proprio creare scompiglio (il film era in concorso a Cannes) e in verità non raccolse molti consensi, come detto, anche se, forse proprio grazie alle ripetute noie censorie, riuscì a costruirsi una sua, per quanto discutibile, reputazione e notorietà. Qualche dubbio sull’opportunità di certe scelte nell’opera di Jancsó rimane: pur riconoscendo che la metafora in qualche modo funziona, le scene piccanti, pruriginose o pornografiche sembrano in effetti gratuite in troppi passaggi. Alla fine il regista riesce a spiazzare lo spettatore con un finale che sembra quasi storicamente se non credibile almeno plausibile. A fronte dell’imperterrito atteggiamento dissoluto di Rodolfo e dei suoi accoliti, nonostante i numerosi richiami ufficiosi e ufficiali, le autorità imperiali intervengono in modo drastico. I convenuti all’orgia festosa (tra le cui interpreti si annovera anche una giovane Ilona Staller) sono freddati e viene imbastito il finto suicidio: un’ipotesi tanto azzardata quanto credibile, che si rivela però un’arma a doppio taglio. Se Jancsó pensava di dare spessore storico alla sua strampalata seppur funzionante metafora confermando la tesi complottista, in realtà, il rischio è semmai il contrario. In mezzo a tante idee bizzarre, l’ipotesi che Rodolfo d’Asburgo sia stato fatto eliminare dal padre, l’imperatore Francesco Giuseppe, appare soltanto, almeno vedendola in coda a Vizi privati, pubbliche virtù, l’ennesima stramberia della pellicola.


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