806_IL CONQUISTATORE DEL MESSICO (Juarez). Stati Uniti; 1939. Regia di William Dieterle.
Quando si scopre che il titolo originale de Il conquistatore del Messico è Juarez, facendo quindi riferimento al
politico messicano che, peraltro, è uno dei protagonisti del film di William
Dieterle, si rimane un po’ interdetti. Perché, guardando il film, non sembrano
esserci dubbi che il vero protagonista dell’opera sia l’imperatore Massimiliano
I del Messico (Brian Aherne), spalleggiato dall’imperatrice Carlotta del Belgio
(una splendente Bette Davis, mirabile anche quando dà vita alla pazzia della
sovrana nel finale). Certo, nel film Juarez (Paul Muni) raccoglie ampi consensi
e, nella contesa, la spunta anche; del resto la Storia è quella. Il film,
per essere un prodotto hollywoodiano
del 1939, è scrupoloso e attento nelle ricostruzioni degli scenari e delle
ambientazioni. L’impressione che se ne ricava sembra poi concordare con quello
che dicono gli storici: Massimiliano era in buona fede e si proponeva al
Messico come sovrano illuminato. La disputa con Juarez, avvenuta nel film tramite
le ambasciate del generale Porfirio Dìaz (John Garfield) , mette però il dito
sulla piaga della visione delle cose dell’imperatore. Per la verità, Porfirio,
che da incarcerato aveva ascoltato le parole di Massimiliano I, le aveva
trovate sorprendentemente simili, anzi uguali, a quelle del suo leader Juarez.
Tutela delle classi meno abbienti, protezioni dai soprusi, una generale
maggiore giustizia sociale: c’era solo una parola che si frapponeva tra
Massimiliano I e Juarez: democrazia. A Porfirio sembrava un dettaglio non
troppo importante, visto che la sostanza delle cose era pressoché identica.
Rilasciato, eccolo quindi recarsi da Juarez per portare l’ambasciata
dell’imperatore che offriva al leader indio il ruolo di Primo Ministro nel
futuro governo del Messico. Ma Juarez era una persona dai saldi principi:
l’offerta era irricevibile perché la democrazia, la possibilità del popolo di
autogovernarsi, era un precetto imprescindibile. Il che oggi è un fatto
largamente accettato ma forse qualche dubbio era legittimo, agli inizi del XX
secolo, con in arrivo, negli anni a venire, democratiche elezioni che avrebbero
sancito risultati non proprio lusinghieri per la Storia. Il punto di
vista dell’imperatore merita perciò almeno due considerazioni: innanzitutto era
in un certo senso comprensibile la sua idea che esistessero persone di sangue
reale a cui spettava, per diritto divino, il compito e la responsabilità di
guidare i popoli. In fondo era nato, cresciuto ed educato con questi
insegnamenti.
Secondariamente, nonostante gli evidenti limiti, la sua analisi
sul ruolo super partes di un sovrano
illuminato non era del tutto campata in aria: il punto era che franava già nel
moto di rabbia con cui firmava speciali leggi repressive. Un gesto che gli
verrà poi rinfacciato dai juaristi al
momento della sua cattura. In ogni caso la sua avversità alla democrazia è
comprensibile per definizione,
diciamo così, ma le sue critiche al regime democratico hanno un fondamento: i
politici possono essere corrotti e le masse pilotate. Dal canto suo Juarez, che
incarna anche lo spirito hollywoodiano dell’opera, fa valere le imprescindibili
ragioni della subordinazione del mandato elettorale al giudizio del popolo. Per
altro, è onesto riconoscerlo, con una buona fede nel funzionamento della
democrazia che, anche solo un poco, ricorda quella dell’imperatore in quello di
una monarchia illuminata. Ma nel 1939, all’alba della guerra contro i regimi
totalitari, non era certo il tempo di farsi venire dei dubbi in merito. Così
Juarez, pur non essendo propriamente al centro della scena, incarna ideali cari
agli americani, giova ricordare che la produzione era Warner Bros., e la sua figura è una sorta di versione india di Abramo Lincoln. Tuttavia,
nonostante gli sforzi di Muni, che stando a quanto riportò Bette Davis, scrisse
di suo pugno un’ottantina di pagine per aumentare l’importanza del suo ruolo, è
lampante che il protagonista sia l’imperatore Massimiliano I. Non fosse che per
la tragica fine, con quella fucilazione resa celebre dai dipinti di Édouard
Manet, che lo consegnò alla Storia fedele e coerente ai suoi romantici ideali
anche di fronte alla morte. Ma, naturalmente, all’alba di quella che era anche
la guerra definitiva tra due modi di concepire il potere, totalitario o
democratico, non era più il tempo delle mezze misure, delle vie di mezzo.
Bisognava scegliere. Dieterle era un ebreo tedesco, emigrato negli Stati Uniti,
inizialmente per motivi professionali ma poi è evidente che, data la sua
condizione, il clima della Germania
nazista non dovette sembrargli troppo salutare. Il suo orientamento in fatto di
quale sistema politico fosse migliore è prevedibile ma Dieterle era un grande
regista non solo da un punto di vista tecnico. Così, per promuovere la sua idea,
non la mette a confronto ad un sovrano assolutista ma, scegliendo come
avversario uno tra i più illuminati regnanti della Storia, trova la piena
conferma che la democrazia sia la forma migliore possibile. Certamente in quei
drammatici tempi e, seppure tra i mille scricchiolii che trovano riscontro
nelle citate parole di Massimiliano I, possiamo dirlo ancora oggi.
Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti:
DA SANTIAGO A FUNCHAL
Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
DA SANTIAGO A FUNCHAL
Per circa
tre secoli gli Asburgo d’Austria furono un baluardo del conservatorismo
europeo: combatterono prima contro la riforma protestante, poi si opposero alla
rivoluzione francese, nel 1848 si ersero contro le rivoluzioni europee in
difesa dell’ordine europeo stabilito al Congresso di Vienna e infine Casa
d’Austria crollò dopo una lotta durata decenni contro i nazionalismi. Francesco
Giuseppe fu il simbolo di questo conservatorismo: salì al trono diciottenne,
all’apice del periodo rivoluzionario nel 1848, dopo la fuga di Metternich da
Vienna e l’abdicazione dell’Imperatore Ferdinando I; morì durante la prima
guerra mondiale nel 1916, e con lui finì per sempre un secolare pezzo di storia
d’Europa. Le crepe, comunque, cominciarono già a vedersi nei decenni
precedenti: intorno a questa solenne, statuaria figura, vissero degli Asburgo
che più intensamente di lui si imbevvero dello spirito del loro tempo, fino a
lasciarsene trasportare e a venire consumati da esso. La corona di Francesco
Giuseppe sarà vista come “tragica” dai contemporanei a causa della sorte drammatica
di molti parenti dell’Imperatore, alcuni dei quali ne avrebbero dovuto
raccogliere la successione.
Santiago
de Querétaro, 19 giugno 1867
Massimiliano
d’Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe, ebbe certamente un’intelligenza
vivace, persino audace per un Asburgo. Attratto dalla scienza, promotore della
flotta da guerra austriaca, conversatore affascinante e brillante. Il suo destino sarebbe stato quello comune a
gran parte degli arciduchi, cioè membri della famiglia imperiale, asburgici:
una vita divisa tra gli affari di corte e i governatorati delle varie nazioni
sottomesse al multietnico impero; a cambiare il corso della sua esistenza
concorsero una serie di eventi esterni alla politica austriaca, in gran parte
esterni alla politica europea stessa. Approfittando delle difficoltà degli
Stati Uniti, che sfoceranno poi nella drammatica guerra di secessione,
l’imperatore dei francesi Luigi Bonaparte (Napoleone III) aveva iniziato una
politica di ingerenza negli affari latinoamericani, in particolare nel Messico,
fino ad allora considerato territorio di influenza USA. Una serie di
controversie commerciali diede l’occasione ai francesi, inglesi e spagnoli di
inviare truppe in Messico per rovesciare l’ostile regime repubblicano di Benito
Juarez e restaurare una monarchia amica degli interessi europei in Sudamerica.
La richiesta di prendere la corona di Imperatore del Messico fu avanzata
a Massimiliano d’Asburgo: era una scelta che affascinava gran parte d’Europa,
una scelta romantica. Un discendente degli Asburgo, di quelli stessi Asburgo
che secoli addietro avevano regnato sui conquistadores , su coloro cioè
che avevano distrutto l’impero azteco in Messico, veniva ora a regnare su un
impero messicano indipendente.
La figura stessa di Massimiliano, così
brillante, così giovane, così istruito, stuzzicava la fantasia degli europei
che vedevano in lui un nuovo eroe della civiltà europea. Fu così che
Massimiliano salpò il 14 aprile 1864 dal castello di Miramare vicino a Trieste
a bordo della fregata Novara, verso un futuro d’avventura: con lui
portava, oltre alla bella moglie Carlotta del Belgio, l’ostilità del fratello
Francesco Giuseppe e le garanzie di pieno appoggio di Napoleone III. Le cose
non andarono bene: Massimiliano I del Messico -questo era il suo titolo
imperiale- cercò di presentarsi come sovrano illuminato, estendendo alle classi
inferiori alcuni diritti fondamentali, deludendo così gli ultra-conservatori
che lo avevano appoggiato, senza per questo attirarsi le simpatie dei liberali
di Benito Juarez. La lotta tra le fazioni divenne cruenta e Massimiliano si
trovò presto abbandonato anche da Napoleone III che, nonostante le sue
garanzie, ritirò l’esercito francese dal Messico una volta che gli Stati Uniti,
finita la guerra di secessione, reclamarono la loro sfera di influenza. Abbandonato a sé stesso, Massimiliano fu travolto dall’onda della ribellione repubblicana, capeggiata da Juarez: dopo un breve assedio a Santiago de Querétaro, Massimiliano fu catturato e fucilato il 19 giugno 1867, nonostante molte voci in Europa si fossero levate a sua difesa: persino il repubblicano Garibaldi chiese a Juarez di risparmiarlo, ma inutilmente.
L’avventura tragica
di Massimiliano testimonia l’appeal romantico, tutto europeo, dell’eroe che
cerca fortuna nel Nuovo Mondo. Ma testimonia anche di un futuro, non molto
lontano, nel quale il Nuovo Mondo non solo reclamerà la sua indipendenza, ma
prenderà il posto dell’Europa come centro politico. La tragedia affascinò molti
artisti: il quadro più famoso è quello di Manet, nel quale il plotone
d’esecuzione di Massimiliano è composto da soldati in uniforme francese, uno di
loro col volto di Napoleone III, sagace
j’accuse del pittore transalpino che vede nel sovrano francese il principale responsabile della morte di
Massimiliano, abbandonato dalle truppe di Parigi dopo ampie garanzie di
appoggio. La storia presenterà, solo qualche anno più tardi, il conto ai
responsabili di detto abbandono: col suo impero preda di profonde divisioni
interne, Napoleone III sarà costretto a cercare nella guerra con la Prussia un
modo per raccattare il consenso perduto. Finirà prigioniero con gran parte del
suo esercito a Sedan nel 1870.
Ma forse
l’opera più affascinante circa l’avventura di Massimiliano è la poesia Miramar
dove il genio visionario di Carducci immagina il dio azteco Hutzilopochtli assetato
di vendetta contro i bianchi che, al momento della partenza di Massimiliano dal
castello di Miramare per il Messico, comincia a parlare tra boschi d’agavi
non mai/mobili ad aura di benigno vento rivolgendosi al futuro imperatore,
“Vieni!
Quant’è
che aspetto! La ferocia bianca
strussemi
il regno e i miei templi infranse;
vieni,
devota vittima, o nepote
di Carlo
Quinto.
Non io
gl’infami avoli tuoi di tabe
marcenti
o arsi di regal furore;
te io
voleva, io colgo te, rinato
fiore
d’Absburgo;
e a la
gand’alma di Guatimozino
regnante
sotto il padiglion del sole
ti mando
inferia, o puro o forte o bello
-Massimiliano
Nessun commento:
Posta un commento