812_DA MAYERLING A SARAJEVO (De Mayerling à Sarajevo). Francia, 1940; Regia di Max Ophuls.
Considerato in genere uno dei passaggi meno illustri nella splendida filmografia di Max Ophuls, Da Mayerling a Sarajevo venne probabilmente penalizzato da difficoltà produttive. Pare che la realizzazione del film fu ironicamente interrotta proprio dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: ironicamente perché la mobilitazione generale francese, che coinvolse persino Ophuls, arrivò poco dopo aver girato la scena dell’attentato di Sarajevo, nel finale del film. Almeno questo dicono le cronache, romanzandoci forse un po’; nel qual caso sarebbe stata una ricostruzione fin troppo profetica. Coincidenze a parte, il film non era però ancora completo e il regista vi tornò all’opera solo durante il nuovo conflitto ma, sembra, senza riuscire ad avere il controllo diretto sul montaggio finale. Quel che risulta è una prima parte di notevole fattura, dove la superba mise en scène di Ophuls regala alcune sequenze strepitose, e una seconda che non riesce, probabilmente, a raccogliere in modo adeguato quanto seminato fin lì. Il tema era particolarmente tempestivo: alle soglie della guerra che sarebbe arrivata nel 1939, si andava ad indagare sulle cause del precedente conflitto mondiale che, come forse solo in seguito acclarato, fu una delle cause proprio del nuovo scoppio delle ostilità. In quest’ottica, l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando (nel film John Ludge) era quindi non solo l’innesco della Prima Guerra Mondiale ma, per una sorta di reazione a catena, anche della seconda. Un’attenzione ad un tema cruciale sorprendente, ma solo a prima vista, nel cinema sofisticato e superficiale di Max Ophuls.
In realtà il talento sublime del regista tedesco è ampiamente riconosciuto così come la sua capacità di andare ben oltre le sublimi apparenze estetiche dei suoi inappuntabili film. Questa sua capacità di cogliere il vero significato delle cose pur in una rappresentazione per nulla essenziale ma, al contrario, riccamente e ricercatamente rifinita, è lo strumento perfetto, o probabilmente il migliore possibile, per rievocare quei drammatici frangenti che chiusero tragicamente il XIX secolo catapultando il mondo nell’era contemporanea. Una ricostruzione fatta oggi dell’Europa di inizio ‘900 è sempre una rilettura, una visione dall’esterno. Ophuls aveva invece la piena conoscenza del mondo del 1800 (sebbene fosse nato nel 1902) unita ad una insuperabile padronanza del mezzo artistico per eccellenza del XX secolo, il cinema.
Per cui, quando guardiamo Da Mayerling a Sarajevo, viviamo le passioni, i tormenti, le speranze, nel modo in cui furono intese allora, attraverso lo strumento a noi più congeniale: una sintesi perfetta. Questo abbinamento è simbolicamente rappresentato subito in avvio: la scena iniziale, in cui si predispongono le Altezze al ricevimento, l’estrema attenzione alla coreografia complessiva, ricorda la premurosa cura con cui un regista come lo stesso Ophuls doveva predisporre il suo set. Uno scrupolo formale quasi maniacale ma necessario per ottenere quelle magnifiche sequenze dove tutto combaciava in modo armonico, quasi naturale, ma che erano frutto di estrema attenzione al dettaglio.
L’intuizione di rifarsi ai fatti di Mayerling nella storia di Francesco Ferdinando è naturalmente fondamentale: dopo il presunto suicidio dell’erede al trono Rodolfo e della sua amante Maria Vetsera, gli Asburgo se non potevano permettersi altri scandali amorosi, men che meno se ne potevano permettersene altri di natura luttuosa. Questo fatto fu uno dei pochi elementi che giocò, in un certo senso, a favore della storia d’amore tra Francesco Ferdinando e la contessa Sophie Chotek (Edwige Feuillère, forse non bellissima ma a suo modo incantevole), peraltro fortemente ostacolata a corte. La contessa, infatti, pur essendo una nobildonna, non era di sangue reale e questo tema, alla fine del secolo romantico per antonomasia, era perfetto per mettere in luce l’inadeguatezza dell’Ancien Régime rispetto agli ideali del momento. La figura di Francesco Ferdinando, con la sua ostinazione nel voler impalmare l’amata contessa, acquistava quindi rilievo al di là delle sue intenzioni politiche.
Laddove, peraltro, la sua idea di trasformare l’Impero Austro-Ungarico in una federazione, nel film gli Stati Uniti d’Austria, dava ulteriori mal di stomaci all’imperatore Francesco Giuseppe. La figura dell’imperatore, impersonata dall’attore Jean Worms, è ben sintetizzata anche dalla inquietante statua, vero convitato di pietra, che incombe sull’Arciduca e
Il Montenuovo era un funzionario di corte, una sorta di sovrano della burocrazia, ed era ancora più ostile all’unione tra Francesco Ferdinando e la contessa Sophie di quanto non fosse l’imperatore. Pur se dietro le quinte, è protagonista della scena forse più famosa del film di Ophuls, quella dello scalone del palazzo reale, interdetto, nel bel mezzo della cerimonia, alla contessa in quanto non di stirpe sovrana. La sequenza è girata magnificamente da Ophuls e molto ben interpretata dalla Feuillère; l’applauso finale dagli spalti illustri è una sorta di sentenza di quanto fosse ormai superata la mentalità della casa reale anche presso la stessa corte. Tuttavia Montenuovo è centrale in altre due scene, certamente più significative nell’ottica dei fatti di Sarajevo: dapprima si rivela sorprendentemente accomodante con la contessa, da sempre sua acerrima nemica, nel concederle il permesso di accompagnare il marito nella visita a Sarajevo.
Ophuls indugia, con un gioco di ombre e luci, sul volto del burocrate di corte, a segnalarci inequivocabilmente la doppiezza d’intenti. Che emerge allo scoperto nella successiva scena in cui Montenuovo, contattato telefonicamente da Sarajevo, nega ripetutamente adeguate disposizioni di sicurezza a quella che diverrà la fatale parata. Ma naturalmente sarebbe un errore pretendere una accuratezza storica da un film come Da Mayerling a Sarajevo, finanche l’elaborata didascalia iniziale ci rassicuri in tal senso. Per le ricostruzioni storiche ci sono testi sicuramente più attendibili; ma pochi possono competere con la passione genuina, ma niente affatto frivola o superficiale, per quei romantici ideali che furono il combustibile primo per combattere il vetusto mondo imperiale. E la vicenda di Francesco Ferdinando, al netto degli aspetti storici, si presta benissimo, sia dal punto di vista personale che da quello politico, ad essere romanzata in questo senso. Un manifesto per la libertà individuale e collettiva e all’autodeterminazione dei popoli che, se indispensabile per opporsi alle mire espansionistiche di Hitler, è valido ancor oggi. Un inno quindi, oltretutto ben supportato dalle musiche di Oscar Straus, a quei romantici ideali. Eguagliati in valore (o, ahimè, superati) unicamente dal sangue dei soldati che andrà versato negli imminenti grandi conflitti.
Edwige Feuillère
Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
FRANCESCO FERDINANDO: L'EREDE SCOMODO
All’indomani dell’attentato di Sarajevo l’intera Europa si trovò a fare i conti con le conseguenze dell’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando; il dibattito verteva sull’opportunità o meno di concedere all’impero asburgico il pugno di ferro contro la Serbia: il gioco delle alleanze e il meccanismo delle mobilitazioni presto surriscalderanno l’ambiente europeo; interessi imperiali, paure ancestrali e fattori psicologici entreranno in gioco con l’esito che conosciamo tutti. Questa fu la conseguenza della morte dell’arciduca ereditario, della “carica” per così dire; la morte dell’uomo Francesco Ferdinando, invece, passò in secondo piano, messa subito in ombra dagli eventi quando non proprio vista con una certa soddisfazione persino all’interno dell’impero stesso. Giova forse ricordare il sollievo espresso privatamente da Francesco Giuseppe alla morte di quel testardo nipote così poco disposto a piegarsi alle regole della corte, così refrattario a comportarsi come un vero erede al trono d’Austria; per non parlare del vero e proprio tripudio che l’assassinio di Francesco Ferdinando scatenò tra i notabili ungheresi, la cui eco distante si può ancora trovare nel romanzo La Marcia di Radetzky di Joseph Roth.
Personalità spinosa e forte, Francesco Ferdinando di certo sapeva come farsi dei nemici: in un ambiente, quello viennese, dove dominavano i compromessi e le interminabili mediazioni, Francesco Ferdinando puntava subito al sodo, con poco riguardo per la sensibilità degli interlocutori. D’altra parte non aveva imparato da fanciullo l’arte del governo: il suo destino sarebbe dovuto essere quello di arciduca austriaco per tutta la vita; un governatorato qua, qualche sfilata là, e la vita sarebbe scorsa tranquilla all’ombra dei castelli e degli interessi personali. Invece la tragedia di Mayerling lo portò alla ribalta in modo improvviso e inaspettato: a un Francesco Ferdinando ormai ventiseienne venne notificato che, col suicidio dell’arciduca Rodolfo, la successione al trono d’Austria sarebbe spettata a lui.
Pur non rinunciando ai suoi viaggi e specialmente alla sua amata caccia (Francesco Ferdinando sarebbe l’orrore di qualsiasi animalista di oggigiorno, per la quantità di bestie abbattute, di ciascuna delle quali conservava l’immancabile trofeo), il nuovo arciduca ereditario prese il suo compito piuttosto seriamente. Ma l’ombra di Mayerling non lo abbandonò mai realmente e plasmò la sua vita di erede al trono: Francesco Giuseppe non lo amò mai, forse non potendogli perdonare il fatto di aver preso il posto dell’amato figlio. La vita sentimentale del nipote non poteva poi che turbare ancora di più il vecchio imperatore: esattamente come il figlio Rodolfo, infatti, anche Francesco Ferdinando frequentava donne che non appartenevano ad alcuna famiglia regale europea (all’interno delle quali gli eredi al trono degli Asburgo erano tenuti a scegliere le proprie mogli); la contessa Sofia Chotek von Chotkowa, una semplice dama di compagnia, catturò il cuore di Francesco Ferdinando durante un ballo a Praga.
Francesco Giuseppe non perdonerà mai la disobbedienza al nipote: non parteciperà al matrimonio, e vieterà agli altri membri della famiglia imperiale di farlo. Si crea una spaccatura inedita all’interno degli Asburgo, spaccatura della quale la politica austriaca ed europea non tarderanno ad approfittare, schierandosi ora con l’uno ora con l’altro a seconda delle esigenze del momento.
Francesco Ferdinando promosse la marina austriaca e si occupò molto dell’esercito; fu uno dei principali sponsor di Franz Conrad von Hotzendorf, nuovo capo di Stato Maggiore e personalità altrettanto spigolosa, che si rivelerà uno dei principali “architetti dell’Apocalisse” come lo chiamerà un biografo. Vale a dire uno dei maggiori propugnatori della guerra europea, il quale giocò un ruolo primario durante la Crisi di Luglio (salvo poi andare completamente nel pallone una volta che la guerra scoppiò per davvero). Inizialmente i due uomini si trovarono legati istintivamente sotto molti aspetti: una visione moderna e aggressiva della politica dell’esercito austro-ungarico innanzitutto, ma anche il fatto che Conrad a sua volta si trovava invischiato in una storia sentimentale “sconveniente” a livello sociale con la nobildonna italiana Virginia von Reininghaus, già sposata con sei figli. Successivamente però, le ossessive e ossessionanti richieste di Conrad di lanciare un attacco preventivo contro Italia e/o Serbia, finirono per lacerare il rapporto.
Francesco Ferdinando, infatti, era fautore di una politica più accomodante con i vicini, prevedendo -correttamente, come i fatti dimostreranno- che un attacco contro una di queste potenze, e contro la Serbia in particolare, avrebbe innescato il meccanismo delle alleanze portando a un conflitto generale. Conrad finì per aggiungersi quindi alla lunga lista di nemici di Francesco Ferdinando. Nessuno di questi era più accanito degli ungheresi: tra l’arciduca ereditario e il Regno d’Ungheria vi era un odio reciproco, viscerale, dichiarato e conclamato. Francesco Ferdinando non perdeva occasione di dichiarare pubblicamente la sua scarsa fiducia nell’elemento ungherese della nazione e in particolare nel primo ministro Istvàn Tisza. Gli ungheresi dal canto loro temevano il progetto ferdinandeo di concedere una maggiore autonomia anche agli altri popoli dell’impero asburgico, in particolare ai molti slavi, che avrebbero dovuto controbilanciare l’influenza ungherese sul parlamento imperiale a Vienna. Questo progetto era temuto anche dalla Serbia: il piccolo regno balcanico, a seguito delle guerre contro l’impero ottomano, si ergeva a difensore degli Slavi del Sud e mal sopportava la possibilità che l’Austria si investisse a sua volta di questo ruolo, concedendo larghe autonomie ai bosniaci e ai croati all’interno del suo impero. Non è un caso quindi che gli irredentisti bosniaci e i nazionalisti serbi vedessero Francesco Ferdinando come il fumo negli occhi e che infine fosse lui, proprio lui, a cadere sotto i colpi di Gavrilo Princip.
Molto si è detto e scritto circa la decisione di Francesco Ferdinando di recarsi ugualmente a Sarajevo nonostante i molti indizi che indicavano alla preparazione di un attentato. Non mancano i complottisti che vedono nell’evento chissà quale trama dei Rotshchild o di chissà chi. In realtà Francesco Ferdinando, fedele al suo carattere combattivo, non si tirò indietro, non si fece intimorire dai bosniaci più di quanto non si fosse fatto mettere i piedi in testa dallo zio imperatore. Semplicemente, andò ad occhi chiusi verso il destino.
Qualche settimana dopo, l’intera Europa lo imitò.
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