816_IL MULINO DEL PO . Italia, 1963; Regia di Sandro Bolchi.
Tratto dal primo volume dell’omonima opera letteraria di Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po è uno sceneggiato Rai che Sandro Bolchi diresse nel 1963. Il romanzo si costituisce di tre parti e, come soggetto per la serie televisiva, Bolchi e lo stesso Bacchelli si basarono sul primo tomo, Dio ti salvi. Vista la complessità delle vicende è una scelta comprensibile anche perché il ritmo narrativo del racconto filmico, pur considerando che si era nel 1963, è particolarmente lento. Ma potrebbe essere una scelta: Bolchi non sembra avere particolare fretta anche perché le questioni che il soggetto mette sul tavolo sono piuttosto spinose e hanno bisogno di fermentare con pazienza. In questo senso il racconto è ben orchestrato: l’intreccio degli eventi serve sostanzialmente per dar modo al carico morale che grava sulle spalle del protagonista di maturare. Il punto cruciale, perlomeno quello su cui si fonda tutta quanta la questione, è che tal Lazzaro Scacerni (un Raf Vallone aitante anche se non più giovanissimo) soldato napoleonico in Russia, eredita da un suo ufficiale un tesoro frutto di un saccheggio sacrilego. Dalla cui vendita ricaverà i soldi necessari per costruirsi il San Michele, un mulino fluviale: il mulino del Po, appunto. Ma la maledizione del tesoro, fatto di ori e preziosi trafugati da una chiesa, comincerà a tormentarlo: in realtà si tratta solo della sua coscienza che comincerà a roderlo tanto più forte man mano che le cose gli gireranno bene. Se da squattrinato la questione gli era sembrata semplicemente lo sfruttare l’occasione della vita, una volta mugnaio benestante e sposato con la giovanissima e dolce Dosolina (Giulia Lazzarini), l’origine illecita delle sue fortune comincerà a renderlo inquieto. Inoltre, l’ambiguo e temibile Raguseo (Tino Carraro), il ricettatore a cui aveva venduto il tesoro, non aveva gradito l’aver comprato merce rubata in una chiesa o forse non tollerava il prestigio che Lazzaro stava prendendo nella sua area di competenza. Perché un po’ (troppo) opportunisticamente, il mugnaio evitava di impicciarsi negli affari altrui dando asilo ai contrabbandieri che usavano il suo mulino per stivare la merce che facevano illecitamente varcare sul grande fiume.
L’amicizia tra Lazzaro e Fratognone (un superbo Gastone Moschin), capoccia dei briganti contrabbandieri, rappresentava probabilmente un altro nervo scoperto per il Raguseo che aveva al contrario bisogno la generale sottomissione. Insomma, nonostante il suo intento a farsi soltanto i propri affari, o forse proprio per questo, Lazzaro cominciava ad essere scomodo. Queste vicende, popolate da ceffi ben poco amichevoli come il Beffa (Renzo Montagnari), relitto umano raccolto dal mugnaio del San Michele ma pronto a tradirlo per invidia mettendosi al soldo del Raguseo, riescono a farsi avvincenti nonostante il ritmo narrativo non decolli quasi mai. Peraltro, alcuni frangenti concitati dello sceneggiato, come la tortura inflitta a Fratognone, hanno una buona resa scenica. Insomma, tutto sommato la generale lentezza del racconto fa coerentemente il paio con lo scorrere placido del Po, e trovano corrispondenza anche le eccezioni (le sporadiche virate narrative tra cui appunto quella legata alla grande piena del fiume). In sostanza il ritmo ponderato del racconto non è affatto un limite: piuttosto, è la recitazione fortemente teatrale, di Vallone in primis, a risultare un po’ datata, sebbene il cast sia uno dei punti di forza della produzione e, oltre agli interpreti citati, va segnalata almeno la presenza di una ancora vivace Elsa Merlini nei panni di Venusta.
La scenografia, pur evidenziando i limiti di una produzione televisiva dell’epoca, ha una sua forma evocativa che funziona ancora, anche grazie ad alcune scene in esterni girate a Crespino, in provincia di Rovigo, cosa allora inusuale per gli sceneggiati Rai. Tuttavia l’aspetto più interessante de Il mulino del Po è costituito dai citati dilemmi morali di Lazzaro e va detto che, in questo, Vallone risulta particolarmente efficace. In primo luogo c’è la faccenda dei proventi della vendita del tesoro rubato: va quindi restituito il maltolto, per sedare la propria coscienza? Lazzaro tergiversa ma non si decide.
Poi subentra anche la questione personale col Beffa e col Raguseo: il carattere impetuoso del mugnaio lo tradisce almeno un paio di volte, tanto da arrivare a pensare di essersi macchiato, concretamente o solo nelle intenzioni, della colpa più grave, l’omicidio. Ma il Beffa, gettato da Lazzaro nel Po in piena, se l’è cavata e a far la festa al Raguseo sarà la lama di Fratognone; eppure il desiderio di eliminare i suoi due nemici era stato sincero e il mugnaio si sentiva, giustamente, in colpa. Quest’ombra opprimente aveva perfino guastato il suo rapporto con Dosolina, che aveva finito per aver paura del tenebroso e inquieto marito.
Quando la situazione famigliare diviene insostenibile, Lazzaro si decide a confessarsi presso don Bastiano (Camillo Pilotto). Questo passaggio è particolarmente interessante perché il sacerdote dimostra di prendere molto sul serio il proprio lavoro, indagando con astuzia sull’effettivo pentimento del mugnaio e, in modo certo un po’ spiazzante, si riserva di parlare coi superiori prima di concedere il perdono al peccatore. Senza entrare nel merito del sacramento religioso, si può osservare come don Bastiano valuti con scrupolo colpe gravi quali il desiderio di uccidere e la violenza con cui Lazzaro si era scagliato contro il Beffa. Dopo questo passaggio, il mugnaio, a fronte di minacce verso la propria famiglia, moglie e figlioletto, si lascia prendere ancora dall’ira e si reca con intenzioni non certo pacifiche dal Raguseo. Appare quindi un po’ debole la teoria del pentimento, almeno per una mera questione di tempismo: si tratta forse di una costrizione dovuta ai tempi televisivi ma certo stride vedere di nuovo il mugnaio con animo bellicoso quando ancora non era stato assolto dai precedenti misfatti. La soluzione di questo intenso problema morale del nostro protagonista gli è suggerita da un’altra figura religiosa, madre Eurosia (Mercedes Brignone). Al di là che la suora in alcuni passaggi ha un che di luciferino, non si capisce bene su cosa verta la soluzione con cui riesce a calmare l’inquieta anima di Lazzaro.
Il tacito accordo tra la suora e il mugnaio lascia forse da intendere che, per la salvezza della propria anima, bisogna affidarsi alla clemenza di Nostro Signore; sotto il profilo religioso è un concetto condivisibile, naturalmente. Ma, e la penitenza, a cui faceva riferimento anche don Bastiano? Perché qui non si tratta di invocare un provvedimento punitivo ma cercare semmai una concreta prova di pentimento. Se si è davvero pentiti di aver fatto qualcosa di male, saremo certamente pronti a pagare il dovuto per rimediare il torto. E se ci si rivolge alla clemenza di Dio, per quanto l’Altissimo sia molto più che ben disposto nei confronti dei peccatori, è difficile ottenere uno sconto in tal senso. Ma, evidentemente, in Italia, non a caso il paese del detto passato la festa, gabbato lo santo, aveva già preso piede la teoria del condono. E il lieto fine con l’abbraccio tra Lazzaro e Dosolina seppellisce ogni dubbio sotto una buona dose di sentimentalismo e tanti saluti ai tormenti interiori che ci hanno accompagnato in modo così insistito sin dalla chiusura della prima puntata napoleonica ambientata in Russia.
Tanto tuonò che non piovve.
Elsa Merlini
Giulia Lazzarini
ho visto che è disponibile su rai play, vedrò di dargli un'occhiata, mio nonno faceva il mugnaio :-)
RispondiEliminaNon un fulmine di guerra, come ritmo, ma intrigante.
RispondiElimina