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giovedì 20 maggio 2021

IL POLIZIOTTO E' MARCIO

818_IL POLIZIOTTO E' MARCIO Italia, Francia, 1974; Regia di Fernando Di Leo.

Contributo esplicito al genere poliziottesco, il film Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo, nonostante la confezione stringata, conferma il talento del regista pugliese. Di Leo, a cui si deve l’eccellente trilogia del milieu, è un nome di spicco nel cinema italiano e del cinema italiano di genere nello specifico ma, pur meritando un posto d’onore anche nel filone del poliziesco all’italiana, non aveva, fino a Il poliziotto è marcio, affrontato in modo così stretto l’argomento. E il film con Luc Merenda sembra quasi una dimostrazione tesa a chiarire che il poliziottesco l’autore lo conosca, sebbene non sia propriamente nelle sue corde. C’è il commissario tutto d’un, pezzo, anche se poi, sin dal nome Malacarne o dal titolo del film, è chiaro che sia lui l’elemento corrotto; la mano di Di Leo non manca mai di farsi sentire. Ma si diceva del testo piuttosto conforme alle aspettative, almeno nei topoi narrativi: ci sono un paio di spettacolari inseguimenti in macchina, vero cliché del genere poliziottesco. Il primo è una battaglia a sportellate tra una Fiat 124 e un Alfa Romeo Giulia della polizia, sulle sponde del naviglio, in pieno centro cittadino. L’altro è anche più interessante per la costruzione che c’è intorno. Intanto comincia in piazza Duomo, cuore di Milano, dove Malacarne è appostato sulla sua Fiat 125 ma è costretto a lasciarla perché bloccata dalle auto parcheggiate. Qui c’è forse una finezza narrativa di Di Leo, sempre bravo in fase di sceneggiatura: abbiamo detto di come il commissario sia corrotto e nel film assistiamo ad una sua reprimenda verso il suo aiutante, l’agente Garrito (Rosario Borrelli), suo complice ma poco prudente nello spendere i soldi sporchi

La Ferrari con cui è stato visto girare rischiava infatti di dare nell’occhio e tradire i loschi traffici dei due. Tornando alla scena dell’inseguimento, Malacarne lascia così la sua Fiat 125 in piazza Duomo, e salta sulla prima auto parcheggiata con le chiavi nel cruscotto: una più moderna e costosa Fiat 132. Qui può scatenarsi in un confronto quasi alla pari con un’auto americana, probabilmente una Plymouth, sulla quale fugge il sicario che ha appena freddato i due trafficanti portoghesi. Questa esecuzione è altrettanto simbolica: i due, appena rilasciati perché Malacarne asseconda i voleri della malavita, vengono uccisi sul sagrato del Duomo, nel cuore della metropoli. Bontà sua, se non del regista, almeno il destino provvede e la cattedrale, al tempo completamente impacchettata dai lavori di restauro, non assiste al crimine: viene spontanea però la conclusione che la città sia davvero irriconoscibile, visivamente per l’occultamento del suo principale simbolo, concretamente per l’arroganza del crimine che si spinge quasi fin dentro i luoghi di culto. 

Questi elementi sono presenti nel film, che è una sorta di condensato degli stilemi narrativi del genere e, se è forse vero che sono poco sviluppati, risultano comunque funzionali al decòr complessivo: si pensi alle freddure taglienti, tipicamente meneghine, o al protagonista che ripete sempre la stessa battuta, ‘poi ti dico’, alla vita notturna con gli immancabili soggetti ambigui, o al cavaliere Esposito (Vittorio Caprioli), il personaggio napoletano col gatto, razzista verso i milanesi, che sembra un protagonista della commedia all’italiana. Quello del razzismo è poi un altro tema di cui Di Leo dà una vaga spruzzata: a parte quello ironico del cavaliere Esposito, c’è qualche battuta più raffinata, in chiave sociale, quando si usa il termine ‘terrone’ in modo dispregiativo. Simile, sempre in contesto sociale, è anche il riferimento alla reintroduzione del fermo di polizia: sono argomenti che il regista non affronta, almeno non in questo film, ma che ci tiene a richiamare per comunicare un’ambientazione più fedele a quella che era la realtà del tempo, riuscendo quindi in pieno nel suo scopo. 


Naturalmente, oltre a costellare la sua storia di questi elementi tipici, Di Leo non dimentica la trama principale, che ha due snodi fondamentali: il più toccante, è quando il padre del commissario Malacarne, che è maresciallo dei carabinieri, scopre che il figlio, fino ad allora osannato poliziotto tutto d’un pezzo, è marcio. Come al solito molto bravo Salvo Randone nel mostrare il dolore misto allo sdegno dell’anziano sottoufficiale dell’arma. L’altro punto focale è ovviamente il finale, che moltiplica il tema del tradimento: il poliziotto marcio, che tradisce la Legge, è tradito a sua volta dal suo braccio destro, ovviamente poliziotto anche lui; nello specifico l’agente Garrito che, con un colpo alla nuca, liquida Malacarne. Un passaggio che eleva esponenzialmente il pessimismo di altri episodi simili, come ad esempio nel precursore La polizia ringrazia di Steno, dove il tradimento era semplice, l’eroe pulito di turno era infatti tradito dalla sua spalla. Va detto che, se non altro, ne Il poliziotto è marcio le istituzioni, rappresentate in primo luogo dal questore, non sembrano avere inclinazioni eversive, semmai soltanto, per così dire, un po’ reazionarie (la soddisfazione per il fermo di polizia è vista in quell’ottica). L’irruzione di Di Leo nel filone dei film incentrati sulle forze dell’ordine è così assai pesante, ma in linea con quella che era stata la visione del regista della ‘presunta’ controparte, ovvero la malavita, analizzata ben più a fondo con la celebrata trilogia del milieu.
Il poliziotto è marcio ne condensa l’efficacia in 91 adrenalinici minuti.  






Delia Boccardo


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