818_IL POLIZIOTTO E' MARCIO . Italia, Francia, 1974; Regia di Fernando Di Leo.
Contributo esplicito al genere poliziottesco, il film Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo, nonostante la confezione stringata, conferma il talento del regista pugliese. Di Leo, a cui si deve l’eccellente trilogia del milieu, è un nome di spicco nel cinema italiano e del cinema italiano di genere nello specifico ma, pur meritando un posto d’onore anche nel filone del poliziesco all’italiana, non aveva, fino a Il poliziotto è marcio, affrontato in modo così stretto l’argomento. E il film con Luc Merenda sembra quasi una dimostrazione tesa a chiarire che il poliziottesco l’autore lo conosca, sebbene non sia propriamente nelle sue corde. C’è il commissario tutto d’un, pezzo, anche se poi, sin dal nome Malacarne o dal titolo del film, è chiaro che sia lui l’elemento corrotto; la mano di Di Leo non manca mai di farsi sentire. Ma si diceva del testo piuttosto conforme alle aspettative, almeno nei topoi narrativi: ci sono un paio di spettacolari inseguimenti in macchina, vero cliché del genere poliziottesco. Il primo è una battaglia a sportellate tra una Fiat 124 e un Alfa Romeo Giulia della polizia, sulle sponde del naviglio, in pieno centro cittadino. L’altro è anche più interessante per la costruzione che c’è intorno. Intanto comincia in piazza Duomo, cuore di Milano, dove Malacarne è appostato sulla sua Fiat 125 ma è costretto a lasciarla perché bloccata dalle auto parcheggiate. Qui c’è forse una finezza narrativa di Di Leo, sempre bravo in fase di sceneggiatura: abbiamo detto di come il commissario sia corrotto e nel film assistiamo ad una sua reprimenda verso il suo aiutante, l’agente Garrito (Rosario Borrelli), suo complice ma poco prudente nello spendere i soldi sporchi.
Questi elementi sono presenti nel film, che è una sorta di condensato degli stilemi narrativi del genere e, se è forse vero che sono poco sviluppati, risultano comunque funzionali al decòr complessivo: si pensi alle freddure taglienti, tipicamente meneghine, o al protagonista che ripete sempre la stessa battuta, ‘poi ti dico’, alla vita notturna con gli immancabili soggetti ambigui, o al cavaliere Esposito (Vittorio Caprioli), il personaggio napoletano col gatto, razzista verso i milanesi, che sembra un protagonista della commedia all’italiana. Quello del razzismo è poi un altro tema di cui Di Leo dà una vaga spruzzata: a parte quello ironico del cavaliere Esposito, c’è qualche battuta più raffinata, in chiave sociale, quando si usa il termine ‘terrone’ in modo dispregiativo. Simile, sempre in contesto sociale, è anche il riferimento alla reintroduzione del fermo di polizia: sono argomenti che il regista non affronta, almeno non in questo film, ma che ci tiene a richiamare per comunicare un’ambientazione più fedele a quella che era la realtà del tempo, riuscendo quindi in pieno nel suo scopo.
Naturalmente, oltre a costellare la sua storia di questi elementi tipici, Di Leo non dimentica la trama principale, che ha due snodi fondamentali: il più toccante, è quando il padre del commissario Malacarne, che è maresciallo dei carabinieri, scopre che il figlio, fino ad allora osannato poliziotto tutto d’un pezzo, è marcio. Come al solito molto bravo Salvo Randone nel mostrare il dolore misto allo sdegno dell’anziano sottoufficiale dell’arma. L’altro punto focale è ovviamente il finale, che moltiplica il tema del tradimento: il poliziotto marcio, che tradisce
Il poliziotto è marcio ne condensa l’efficacia in 91 adrenalinici minuti.
Delia Boccardo
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