809_MAYERLING . Francia, 1936; Regia di Anatole Litvak.
Con il suo carico di pessimismo, i fatti di Mayerling dovettero sembrare particolarmente affascinanti al pubblico del 1936 che decretò un notevole successo al film che Anatole Litvak vi dedicò. Più che direttamente sugli avvenimenti storici, Mayerling trae il soggetto dal romanzo di Claude Anet che aveva comunque come riferimento gli eventi in questione. Un episodio tragico, l’omicidio/suicidio di Maria Vetsera e Rodolfo d’Asburgo, generalmente accettata come attendibile ricostruzione dei fatti, poteva in effetti ben incarnare l’angoscia del periodo. L’Europa andava di nuovo incontro ad un evento tragico, una nuova Guerra Mondiale, e nel 1936 il clima generale era già alquanto plumbeo: in fondo il mondo si apprestava di nuovo a suicidarsi in un sanguinoso conflitto. Litvak però mette l’accento su un altro aspetto della storia tra Rodolfo e Maria, una prospettiva in cui l’amore senza speranza dei due amanti cercasse di interpretare il clima del tempo in chiave romantica. E’ forse la scelta di quest’ottica che lascia maggiormente perplessi, a vedere il film oggi: si potevano permettere, gli anni 30, un tale romanticismo? Perché, nonostante gli accenni alle ombre di marca espressionista che ogni tanto fanno capolino, quello di Litvak è un film che fonda le ragioni del suo essere nelle personalità dei suoi protagonisti, sulla loro capacità di interpretare il sentimento amoroso in senso assoluto. Charles Boyer (è Rodolfo) e una giovanissima Danielle Darrieux (è Maria) sono superlativi, nei rispettivi campi, e finiscono per vincere la scommessa, riuscendo a convincerci che l’amore è più forte della morte.
Il che è un risultato notevole, sia chiaro, ma che non incarna più la disperazione di quel tempo ma semmai l’utopia dell’amore eterno. E questa è una riflessione molto più raffinata di quello che ci si potrebbe aspettare in prima istanza da un film tanto smaccatamente romantico. La luce ottimista che, in fin dei conti, si irradia nell’opera, in modo del tutto spiazzante trattandosi come detto di un resoconto su un omicidio/suicidio, è dovuta solamente a Maria e qui la Darrieux è davvero straordinaria. Il suo amore incondizionato nell’uomo sbagliato (è già il marito di un'altra e non è nemmeno poco in vista, essendo l’erede al trono) non conosce ostacoli ed è talmente dipinto in purezza che non sorge mai il sospetto che la ragazza miri a sistemarsi con il miglior partito del lotto. Danielle non aveva ancora vent’anni e la sublime classe non aveva ancora assunto le sembianze di elegante nonchalance, riuscendo così ad essere convincente interpretazione della più candida ingenuità.
Memorabile la scena in cui, vedendo il rossetto lasciato da una prostituta sul volto di Rodolfo, si preoccupa pensando che l’amato stia sanguinando. E quando l’uomo le rivela la natura lasciva dell’impronta scarlatta, non si scompone affatto, riuscendo a scorgervi, piuttosto, il segno simbolico della disperazione dell’arciduca. Da parte sua Boyer è altrettanto efficace: il suo Rodolfo è sì un uomo risoluto a rompere con gli assurdi obblighi della sua condizione che gli negano la felicità; ma è anche l’uomo che trascina una sprovveduta ragazza in una storia che poi non è in grado di governare. Anzi, è lui stesso a proporre alla povera Maria di seguirlo, anzi precederlo, nella morte, approfittando dell’amore incosciente e incondizionato di questa. E qui che va forse ricercato il vero valore di Mayerling di Anatole Litvak: non tanto nell’elegante formalismo in genere considerato il pregio maggiore del film. No, quello che ci dice questa interpretazione dei fatti di Mayerling è che, purtroppo, il rischio maggiore non arriva tanto dalle persone reazionarie come l’imperatore Francesco Giuseppe (Jean Dax) o da quelle ottuse come il conte Tafee (Jean Debucourt). No, il loro prevedibile conformismo cerca di negare concessioni e divagazioni, quant’anche questo possa significare l’infelicità. Ma c’è di peggio. Queste persone sono estranee all’amore e non hanno nemmeno idea di cosa possa significare; nella loro ignoranza, per quanto colpevole, c’è una minima attenuante. Purtroppo c’è anche chi conosce l’amore ma lo interpreta in modo egoista e distorto, incentrando sulla propria persona un sentimento che, per definizione, deve al contrario sempre mettere l’altro in diritto di precedenza. Ma precedenza non certo nel senso di andare per prima incontro ad una morte cercata e voluta, negazione arbitraria della vita e quindi dell’amore; chiudendo su sé stesso, in una sorta di cortocircuito, proprio quell’amore assoluto che aveva innescato la vicenda. E, in ogni caso, il sentimento sincero di una ragazza come Maria non meritava di venire strumentalizzato e banalizzato per assecondare un’atroce ripicca contro la corona asburgica.
Danielle Darrieux
Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
MAYERLING: I DOLORI DEL GIOVANE RODOLFO
Quando nel 1774 Goethe pubblicò il suo romanzo I dolori del giovane Werther certo non immaginava che subito dopo si sarebbe scatenata un’assurda follia imitatrice che avrebbe portato centinaia -secondo alcune stime addirittura migliaia- di giovani al suicidio, esattamente come il protagonista del libro. Il Werther rimase una specie di Bibbia per il romanticismo tedesco per molti decenni dopo la sua uscita, imitato più o meno pedissequamente da Foscolo, letto dalla piccola, media e grande borghesia, dalla nobiltà su su fino alle corti reali e imperiali. Sull’onda di un successo che non accennava a diminuire, specie nell’area tedescofona d’Europa, il Werther entrò alle soglie della Belle époque; l’immagine idealizzata del suicidio per amore, del giovane sognatore che rinuncia alla propria vita perché non trova nella società posto per il suo concetto sublimato di amore, faceva certamente ancora molta presa sul pubblico. Certo, molta presa, ma alla prova dei fatti l’Ottocento inseriva elementi suoi propri, peculiari, che non potevano trovarsi nel romanzo settecentesco e in nessun altro evento ciò è più chiaro che non nei Fatti di Mayerling del 1889.
Gli eventi sono noti: il trentenne arciduca Rodolfo d’Asburgo, unico figlio maschio dell’imperatore Francesco Giuseppe e erede al trono imperiale d’Austria-Ungheria, si trova nella residenza di caccia imperiale a Mayerling, a circa 30 km dalla capitale. La mattina nevosa del 30 gennaio 1889, il servitore di Rodolfo, un certo Loschek e il compagno di caccia dell’arciduca, conte Hoyos, sono preoccupati dal fatto che Rodolfo non apre la porta della sua stanza. Loschek spacca il pannello di vetro della porta e riesce a aprirla dall’interno. Lo spettacolo che Loschek e Hoyos si trovano davanti agli occhi è orrendo: sul letto dell’arciduca giace, pallida e rigida, la baronessina Maria Vetsera, diciassettenne amante di Rodolfo; quest’ultimo è accasciato al suo fianco, sangue a macchiargli il volto. Terrificati Loschek e Hoyos si fanno subito prendere dal panico e dai dubbi: cosa era successo? Come comunicare la morte del figlio a Francesco Giuseppe e a Sissi? Un nervosissimo Hoyos si allontana subito e corre a Vienna per informare la corte dell’accaduto.
Un cerimoniale quasi sacrale, intriso di rispetto, di pietà e di paura, viene messo in atto a corte e la notizia infine raggiunge l’imperatrice e Francesco Giuseppe. In breve la cosa è di dominio pubblico e la versione ufficiale iniziale, cioè che Rodolfo fosse morto per un attacco cardiaco, crolla e la verità comincia a essere discussa in tutta Europa: l’arciduca Rodolfo, rifugiatosi nella tenuta di Mayerling si è suicidato insieme alla sua giovanissima amante, la baronessina Vetsera. Ma perché? Si trattava di un suicidio romantico, dovuto all’opposizione di Francesco Giuseppe alla relazione tra Rodolfo, trentenne e sposato con Stefania del Belgio, e la Vetsera? E poi, era stato un patto suicida, o Rodolfo aveva assassinato prima la Vetsera e poi si era ucciso? Ma era poi sicuro si fosse trattato di suicidio? In fondo, si diceva, la morte di Rodolfo apriva una crisi dinastica nell’impero che era la spina dorsale dell’ordine centro-europeo. In fondo, altri aggiungevano, il liberale Rodolfo era inviso a Bismarck. La ridda di ipotesi sui fatti di Mayerling non cessa ancora oggi e ha portato a una serie di avvenimenti tra il comico e il tragico, tra questi il più eclatante fu la riesumazione clandestina e il furto nottetempo dei resti della Vetsera, avvenuto negli anni ’90 da parte di un certo Helmut Flatzelsteiner che arrangiò un esame forense privato per approdare sostanzialmente a nulla.
Ancora oggi le motivazioni del suicidio non appaiono chiare: forse un tentativo di aborto clandestino finito male, con Rodolfo che decide di uccidersi per i sensi di colpa? Questa spiegazione, un tempo abbastanza in voga, è stata dismessa dagli storici perché strideva dal punto di vista della cronologia degli eventi. Ma allora, quale fu la reale motivazione? Dobbiamo rassegnarci: non sapremo mai quello che avvenne realmente nella notte tra il 29 e il 30 gennaio in quella buia stanza di Mayerling. Una cosa è certa: le lettere di addio di Rodolfo e Maria Vetsera confermano che entrambi avevano coscientemente scelto di togliersi la vita. Ma gli appassionati hanno troppo tempo concentrato la loro attenzione esclusiva sul fatto in sé, perdendo di vista il quadro più generale che, forse, permette di capire qualcosa di più. Mayerling è stato per troppo tempo prigioniero di Mayerling. Proviamo, invece, a guardare le persone dietro gli eventi: chi erano l’arciduca Rodolfo e Maria Vetsera?
Rodolfo era sostanzialmente un figlio del suo tempo, figlio delle contraddizioni della corte viennese: un Asburgo certamente sensibile al suo lignaggio, ma più liberale del padre.
Attento alle esigenze di rinnovamento che gran parte dell’impero chiedeva, il liberalismo ha in lui ancora qualcosa di adolescenziale: a tratti la sincera convinzione politica si mischia con la posa tenuta per fare un dispetto al padre, per liberarsi dalla sua oppressiva tutela. Il matrimonio con Stefania, figlia di Leopoldo del Belgio, fu infelice: dopo la nascita della loro unica figlia, i rapporti si incrinarono ulteriormente e Rodolfo trovò nelle relazioni extraconiugali, nell’alcool e nella morfina il modo per evadere un ambiente, quello di corte, che evidentemente non gli si confaceva più. Avendo contratto una malattia venerea, Rodolfo la trasmise alla moglie rendendola sterile cosa che, mischiata a alcool, morfina e infelicità coniugale acuì la depressione di cui doveva soffrire l’arciduca. La personalità di Rodolfo viene così a delinearsi, un uomo sensibile, con tratti adolescenziali mischiati a depressione e senso di soffocamento dovuto all’autorità paterna: un mix pericoloso. E’ probabile che Rodolfo, il quale allora trovava conforto specialmente nelle sue amanti, abbia iniziato a pensare seriamente al suicidio. Inizialmente propose il patto suicida a Mizzi Kaspar, una famosa attrice, sua amante storica, che rifiutò e che provò ad allertare le autorità circa queste tendenze di Rodolfo: ma vuoi per la facilità con cui ai tempi si minacciava il suicidio senza che poi la minaccia venisse realmente messa in atto, vuoi per la dubbia reputazione della Kaspar in campo morale (morirà di sifilide) non ci furono misure prese a riguardo. E’ probabile che Rodolfo, cercando una compagna di morte, abbia quindi in qualche modo coinvolto la giovane e innamorata baronessina Vetsera nel patto suicida. La Vetsera, emotiva e con una autentica venerazione nei confronti di Rodolfo, non avrebbe dunque esitato a scegliere di morire con lui, come attesta d’altronde la sua lettera d’addio, scoperta solo recentemente.
Torniamo quindi a Mayerling. E al Werther. Quanto fascino esercitava ancora il suicidio per amore, ma quanto diversa era la sua versione ottocentesca da quella goethiana! In Mayerling si riassume tutta la Belle époque, col suo romanticismo e la sua grandeur, con le sue soluzioni estreme e le sue passioni incontrollate; ma accanto alla grandeur, la fine Ottocento era anche decadenza morale e tristezza per un mondo che stava scomparendo, come traluce dagli eventi di Mayerling, dove insieme alle forti passioni c’è la sifilide, c’è la paura, ci sono due cadaveri giacenti nel buio di una stanza in una fredda mattina di gennaio.
La tragedia di Mayerling impattò duramente sulla corte asburgica e sulla diplomazia europea. Privo di un erede diretto, Francesco Giuseppe nominò suo nipote Francesco Ferdinando erede al trono d’Austria. Personalità più concreta e coi piedi per terra di Rodolfo, Francesco Ferdinando non si rivelò per questo meno controverso del defunto cugino. Anzi, proprio perché le sue idee politiche avevano basi decisamente più solide, Francesco Ferdinando era ancora più temuto di Rodolfo da alcuni settori della corte viennese. Nel supportare un maggiore centralismo politico al quale si sarebbe però dovuta associare una maggiore autonomia dei popoli sotto la Corona asburgica, Francesco Ferdinando si proponeva come un modernizzatore dell’Austria-Ungheria, nell’ottica di alcune riforme che avrebbero perpetuato ancora a lungo il dominio asburgico sull’Europa centrale. Con la successione dinastica austriaca di nuovo ristabilita, l’Europa poteva ancora chiudere gli occhi felice e continuare a sognare gli splendori della Belle époque.
I colpi assassini della rivoltella di Gavrilo Princip la svegliarono una volta per sempre.
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