567_I COMPAGNI , Italia, Francia, Jugoslavia 1963. Regia di Mario Monicelli.
Capolavoro di Mario Monicelli, I compagni è un dramma storico, fortemente venato di politica, ma
che non rinuncia al lato umoristico tanto caro al maestro riconosciuto della commedia all’italiana. Il titolo è
certamente indicativo di una certa matrice politica, ma l’ambientazione storica
di fine Ottocento smorza l’eventuale sponda polemica riferita all’attualità. In
realtà forse nemmeno molto, se consideriamo che poi il film non ha avuto il
successo che, vedendolo oggi, avrebbe meritato: può essere che un titolo così schierato abbia nociuto all’opera,
risultando poco appetibile a chi non è di idee di sinistra. Nel caso sarebbe un
peccato: quale che siano le idee politiche dello spettatore, l’ambientazione
all’inizio della rivoluzione industriale italiana legittima le istanze dei
lavoratori mostrati dal film di Monicelli, e la loro richiesta di lavorare
“solo” 13 ore non può che apparire oggi largamente condivisibile a chiunque. E’
legittimo pensare che, viste le ardue condizioni dei lavoratori mostrate (perfettamente
credibili), l’idea che fosse necessario qualcosa di simile ad un sindacato che
desse almeno un minimo di tutela ai dipendenti della fabbrica, sia difficilmente
contestabile anche da chi è di sponda politica opposta. Monicelli ha un
approccio curioso al tema, perché il professor Sinigaglia (Marcello
Mastroianni), l’ideologo che prende il comando teorico della protesta operaia,
interviene a pellicola già ben inoltrata e mantiene un atteggiamento che, pur
in una buona coerenza delle proprie convinzioni, ogni tanto sembra avere
qualche deriva opportunistica. Pur se apprezzabile la verve un po’ surrealista
di Mastroianni, non è però il suo personaggio, che galleggia nelle vicende
raccontate senza sentirle direttamente sulla propria pelle, ad essere
l’elemento più convincente del film.
Si, d’accordo, è ricercato e si mette nei
guai per cause che non lo riguardano in prima persona, non è infatti un operaio
della fabbrica; ma è bravo a squagliarsi al momento buono, ad imboscarsi, a
trovare l’aiuto di Niobe, la prostituta (Anne Girardot), che gli concede
addirittura una notte nel suo letto. No, la forza del racconto è nella
fotografia di Giuseppe Rotundo, un bianco e nero invecchiato che ci riporta ai
primi tempi del neorealismo; e anche nella cura con cui è descritta la vita
quotidiana della fabbrica, mostrata come in un documentario d’epoca. Ma
soprattutto nella galleria di personaggi: Bernard Blier è Martinetti, un leader
operaio pacato, spesso deciso soltanto nelle riunioni coi colleghi, mentre
fortemente intimidito alla presenza dei superiori;
Folco Lulli è Pautasso, una
sorta di don Peppone (quello della saga di Don Camillo di Julien Duvivier),
focoso e irascibile, ma anche valoroso;
Elvira Tonelli è Cesarina, un donnone che sa farsi forza più di molti
uomini quando c’è da parlare coi padroni;
Renato Salvatori è Raoul, bastiancontrario e sempre polemico, ma di quelli su
cui si può contare nei momenti importanti; il mitico Giampiero Albertini è
Porro, il classico tipo che sta un po’ in disparte, ma è fondamentale nel dare
tridimensionalità al gruppo e quindi credibilità al racconto; a Kenneth Kove
bastano poi pochi istanti per tratteggiare un padrone vecchio stampo, dispotico e con una sorta di sadismo educato, tipicamente piemontese,
come raramente se ne sono visti. Ma ci sono anche i due fratellini che sembrano
quelli de Il Posto (di Ermanno Olmi
1961), soltanto molto più giovani, oltre ad una ventenne Raffaella Carrà, in un
cast che Monicelli sfrutta mirabilmente per rendere un’opera corale anche da
questo punto di vista, sottolineando ulteriormente il tema collettivo del
racconto.
Con personaggi di questo tipo, a cui si uniscono anche macchiette come il bergamasco (Pippo Starnazza) e il siciliano, tipici characters
da barzelletta, sulla base di una sceneggiatura alla quale cooperano, oltre al
regista, i bravi Age & Scarpelli, il film fila via sparato sorretto da una
serie di gag che si alternano a momenti realistici di dura vita operaia o ad
autentici passaggi tragici più che drammatici. Anche considerato che tutta
quanta la vicenda prende il via da un tremendo infortunio sul lavoro, i colpi
di scena traumatici della morte di Pautasso ma soprattutto, nel finale, del
fratello maggiore dei due ragazzini, sono mazzate tremende che Monicelli riesce
comunque a gestire con perizia e senza scadere nel pietismo di bassa lega. E il
finale, con il fratello più piccolo, non più che un bambinetto, che stoicamente
prende il posto del maggiore in fabbrica, ci rassicura sul destino dell’Italia,
almeno nella sua anima industriale del nord. Perlomeno sul piano produttivo; per
le tutele dei lavoratori, per il momento si deve soprassedere. Ma ce n’è di
michette da riempire: meglio darsi da fare.
Anne Girardot
Raffaella Carrà
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