574_LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA (Cat on a Hot Tin Roof); Stati Uniti, 1958. Regia di Richard Brooks.
Tratto dall’omonima pièce
teatrale di Tennessee Williams, La gatta
sul tetto che scotta è uno splendido film di Richard Brooks. ‘La gatta’ citata nel titolo dell’opera
è lei, Margie, ovvero una insuperabile Elizabeth Taylor, qui in una delle sue
più memorabili interpretazioni. Al suo fianco, un altrettanto straordinario
Paul Newman nei panni del marito Brick, fornisce un’interpretazione
particolarmente intensa e convincente. I due attori, la cui bellezza è più
volte ribadita nel film, si superano in tema di qualità di recitazione,
sorreggendo, con la loro presenza scenica e i loro ficcanti dialoghi, gran
parte dell’opera. Non che il resto del cast non sia adeguato al loro livello:
ottimo Burl Ives nelle vesti di Harvey Big
Daddy Pollitt che, come intensità di interpretazione, non stona affatto al
fianco delle due star principali, ma bene anche le altre figure principali
della storia. I tre personaggi citati sono elementi di grande peso
nell’economia emotiva della trama: occorreva quindi bilanciare l’equilibrio tra
le personalità presenti in una vicenda che si snoda, principalmente, solo nei
rapporti interpersonali e solo all’interno della grande residenza Pollitt. Tutta
la tensione scaturisce in questo ristretto ambito, poggiando unicamente
sull’esiguo numero delle figure coinvolte: per trovare il suddetto equilibrio, ai
tre ruoli significativi vengono opposti tre personaggi che hanno lo spessore di
macchiette. Il primogenito di casa Pollitt, Cooper (Jack Carson) è un burattino
manovrato dall’arrivista moglie Mae (Madeleine Sherwood), acida donnucola
circondata dai tanti marmocchi, mentre sorprende la capacità di Judith Anderson
(indimenticabile e inquietante Mrs Danvers in Rebecca - La prima moglie di Alfred Hitchcock) di calarsi negli
sciatti panni di Ida, la consorte di Harvey Big Daddy.
Ma che il testo tratto da un dramma teatrale preveda personaggi eccellenti e ben incastonati nella storia è prevedibile; va riconosciuto a Brooks e al co-sceneggiatore James Poe, di riuscire a mantenere sullo schermo le qualità dell’opera originale; grazie anche all’indovinatissimo cast, certo, ma anche questo è un parziale merito del regista. Se c’è di mezzo Tennessee Williams è prevedibile che la vicenda contempli qualche aspetto torbido; erano gli anni cinquanta, (il film è del 1958, il dramma teatrale del 1955) ma l’autore era in anticipo sui temi della futura contestazione. Nella trasposizione cinematografica, Brooks e Poe, per motivi di censura, devono eliminare il punto cruciale della versione teatrale: è una decisione rischiosa e, in effetti, proprio questo è in genere il limite imputato alla pellicola. A teatro, Brick aveva una relazione omosessuale con Skipper, suo compagno nella squadra di football; questo aveva messo in crisi la sua relazione con la moglie Margie. Harvey Big Daddy aveva da sempre prediletto Brick al primogenito Cooper, ma il fatto che questi non avesse eredi era un serio problema; così come l’essere omosessuale, ovviamente, tenendo conto che la storia è ambientata nel sud degli States, un ambiente fortemente conservatore.
Naturalmente si giocava, almeno in parte, sull’opacità di certe situazioni, visto che Brick era regolarmente sposato con una donna, molto bella tra l’altro; e proprio l’ipocrisia era il vero tema dell’opera. Era ipocrita l’istituzione famigliare, visto che delle tre famiglie della storia nessuna funzionava: Brick e Margie separati in casa; Harvey sopportava malvolentieri Ida che, a sua volta, subiva le angherie del marito; Cooper, un uomo debole, si lasciava manovrare da Mae nella speranza che il risultato finale compiacesse il padre. Ed era ipocrita il sistema economico che celebrava, come persone di successo, quelli che altro non erano che opportunisti sempre intenti a cercare il proprio tornaconto.
E, almeno fino al confronto finale tra Brick e il padre, risultava ipocrita anche l’idea di amore che si spacciava nell’odierna società, visto che veniva dichiarato tra i membri della famiglia ma sembrava non essercene traccia. Era un castello di ipocrisie che permeava tutti gli strati della comunità americana e che, nell’intenzioni di Tennessee Williams, veniva messo in crisi dalla colpa più grave, più inconfessabile, essere omosessuale. Crollando quel tabù, Brick era omosessuale o quantomeno bisessuale, tutte le altre bugie venivano spazzate via. Nel film, questo dettaglio cruciale, il dettaglio cruciale, non c’è: Brick era semplicemente amico di Skipper; amico per la pelle. Ci sono delle allusioni, questo si; ovviamente il testo le permetteva, visto che nell’originale non erano pure illazioni ma riferimenti a qualcosa di concreto. Ma, nel film, di fatto, quello che manda in crisi Brick, e di conseguenza tutto il resto, è l’idea che la moglie abbia sedotto l’amico e che questi, per senso di colpa, si sia suicidato. Poco prima del suicidio, Skipper, telefonò a Brick, che però non volle parlarci: questo alimentava il rimorso nell’uomo, che trovava conforto solo nel whiskey e nel disprezzo per la moglie, per la famiglia, per tutto quanto il mondo anche se soprattutto per sé stesso.
In genere, si fa notare che l’amicizia virile non è un pretesto così forte per scatenare una simile tempesta emotiva come quella che si abbatte sulla famiglia Pollitt; ad esempio si nota come alcune punte di astio in certe parole di Harvey nei confronti del figlio, potrebbero essere giustificate solo dalla delusione per l’omosessualità del giovane. Anche lo stesso risentimento di Brick nei confronti di Margie appare esagerato, soprattutto sembra strano il non aver chiarito in precedenza i passaggi della serata tragica che vide l’incontro tra la donna e l’amico e il successivo suicidio di quest’ultimo. A teatro, in quella drammatica serata, Brick più che l’amico perse l’amante; nella versione cinematografica l’aspetto carnale della vicenda è invece disinnescato (in ossequio al codice Hayes).
Questo è, in genere, il limite imputato a La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks. Come attenuante, a questo difetto, si sostiene che lo spettatore, specialmente quello odierno, più smaliziato, può facilmente capire anche quanto non viene detto e, quindi, in modo un po’ artificioso, ricostruire l’autentica dinamica che scatena il terremoto emotivo. In realtà non è affatto necessario. Il film funziona alla grande, la trascinante verve interpretativa, il carisma ipnotico della figura di Liz, i dialoghi taglienti di Newman, l’esuberanza corpulenta e caratteriale di Burl Ives, la regia magistrale di Brooks, la splendida fotografia di William H. Daniels, e altro ancora: non manca proprio niente, a La gatta sul tetto che scotta.
Non c’è tempo, per accorgersi che manchi qualcosa, coinvolti e travolti come siamo dalle numerose spirali emotive che si aprono come squarci nella serata a casa Pollitt: la crisi tra Brick e Margie che si dipana parola dopo parola; parole sillabate, quasi centellinate dall’uomo, tra un cambio di calze e una sistemata ai capelli della moglie. E il vecchio Harvey, che è stato rassicurato, mentendo, sulle condizioni di salute, e che poi invece scopre la verità; e la povera Ida, umiliata e maltrattata dal marito, che trova però la forza di reggere l’urto del crollo generale in modo ottusamente solido forse meglio di chiunque altro, mentre Cooper e Mae si affannano ma vedono svanire via via tutti i loro sogni di grandezza. Certo, il castello narrativo è opera di Tennessee Williams; ma la messa sullo schermo di Richard Brooks, grazie anche alle interpretazioni dei suoi attori, Taylor e Newman in testa, è magistrale e ne enfatizza l’efficacia.
Pertanto, non è affatto vero che aver omesso l’omosessualità di Brick sia il limite del film di Brooks; semmai il contrario. Pur senza un dettaglio che, volendo, può anche essere inteso come pruriginoso, il film funziona lo stesso e funziona in modo sontuoso. Il tradimento dell’amicizia, la mancanza di amore, l’ipocrisia, sono temi generali che esulano dalle preferenze di genere, che sono elementi di un altro piano del discorso. Certo, La gatta sul tetto che scotta poteva essere un film che aiutasse a sdoganare il tabù dell’omosessualità, ma il codice Hayes, nel 1958, non lo permetteva. Brook spostò quindi l’attenzione su un piano superiore, quello dell’ipocrisia che, volendo, comprende anche il tema dell’omosessualità come stato personale che è buon gusto tenere nascosto. Riuscendo così, a trasformare un testo che verteva su un tema specifico in un’opera dai valori universali.
Ma che il testo tratto da un dramma teatrale preveda personaggi eccellenti e ben incastonati nella storia è prevedibile; va riconosciuto a Brooks e al co-sceneggiatore James Poe, di riuscire a mantenere sullo schermo le qualità dell’opera originale; grazie anche all’indovinatissimo cast, certo, ma anche questo è un parziale merito del regista. Se c’è di mezzo Tennessee Williams è prevedibile che la vicenda contempli qualche aspetto torbido; erano gli anni cinquanta, (il film è del 1958, il dramma teatrale del 1955) ma l’autore era in anticipo sui temi della futura contestazione. Nella trasposizione cinematografica, Brooks e Poe, per motivi di censura, devono eliminare il punto cruciale della versione teatrale: è una decisione rischiosa e, in effetti, proprio questo è in genere il limite imputato alla pellicola. A teatro, Brick aveva una relazione omosessuale con Skipper, suo compagno nella squadra di football; questo aveva messo in crisi la sua relazione con la moglie Margie. Harvey Big Daddy aveva da sempre prediletto Brick al primogenito Cooper, ma il fatto che questi non avesse eredi era un serio problema; così come l’essere omosessuale, ovviamente, tenendo conto che la storia è ambientata nel sud degli States, un ambiente fortemente conservatore.
Naturalmente si giocava, almeno in parte, sull’opacità di certe situazioni, visto che Brick era regolarmente sposato con una donna, molto bella tra l’altro; e proprio l’ipocrisia era il vero tema dell’opera. Era ipocrita l’istituzione famigliare, visto che delle tre famiglie della storia nessuna funzionava: Brick e Margie separati in casa; Harvey sopportava malvolentieri Ida che, a sua volta, subiva le angherie del marito; Cooper, un uomo debole, si lasciava manovrare da Mae nella speranza che il risultato finale compiacesse il padre. Ed era ipocrita il sistema economico che celebrava, come persone di successo, quelli che altro non erano che opportunisti sempre intenti a cercare il proprio tornaconto.
E, almeno fino al confronto finale tra Brick e il padre, risultava ipocrita anche l’idea di amore che si spacciava nell’odierna società, visto che veniva dichiarato tra i membri della famiglia ma sembrava non essercene traccia. Era un castello di ipocrisie che permeava tutti gli strati della comunità americana e che, nell’intenzioni di Tennessee Williams, veniva messo in crisi dalla colpa più grave, più inconfessabile, essere omosessuale. Crollando quel tabù, Brick era omosessuale o quantomeno bisessuale, tutte le altre bugie venivano spazzate via. Nel film, questo dettaglio cruciale, il dettaglio cruciale, non c’è: Brick era semplicemente amico di Skipper; amico per la pelle. Ci sono delle allusioni, questo si; ovviamente il testo le permetteva, visto che nell’originale non erano pure illazioni ma riferimenti a qualcosa di concreto. Ma, nel film, di fatto, quello che manda in crisi Brick, e di conseguenza tutto il resto, è l’idea che la moglie abbia sedotto l’amico e che questi, per senso di colpa, si sia suicidato. Poco prima del suicidio, Skipper, telefonò a Brick, che però non volle parlarci: questo alimentava il rimorso nell’uomo, che trovava conforto solo nel whiskey e nel disprezzo per la moglie, per la famiglia, per tutto quanto il mondo anche se soprattutto per sé stesso.
In genere, si fa notare che l’amicizia virile non è un pretesto così forte per scatenare una simile tempesta emotiva come quella che si abbatte sulla famiglia Pollitt; ad esempio si nota come alcune punte di astio in certe parole di Harvey nei confronti del figlio, potrebbero essere giustificate solo dalla delusione per l’omosessualità del giovane. Anche lo stesso risentimento di Brick nei confronti di Margie appare esagerato, soprattutto sembra strano il non aver chiarito in precedenza i passaggi della serata tragica che vide l’incontro tra la donna e l’amico e il successivo suicidio di quest’ultimo. A teatro, in quella drammatica serata, Brick più che l’amico perse l’amante; nella versione cinematografica l’aspetto carnale della vicenda è invece disinnescato (in ossequio al codice Hayes).
Questo è, in genere, il limite imputato a La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks. Come attenuante, a questo difetto, si sostiene che lo spettatore, specialmente quello odierno, più smaliziato, può facilmente capire anche quanto non viene detto e, quindi, in modo un po’ artificioso, ricostruire l’autentica dinamica che scatena il terremoto emotivo. In realtà non è affatto necessario. Il film funziona alla grande, la trascinante verve interpretativa, il carisma ipnotico della figura di Liz, i dialoghi taglienti di Newman, l’esuberanza corpulenta e caratteriale di Burl Ives, la regia magistrale di Brooks, la splendida fotografia di William H. Daniels, e altro ancora: non manca proprio niente, a La gatta sul tetto che scotta.
Non c’è tempo, per accorgersi che manchi qualcosa, coinvolti e travolti come siamo dalle numerose spirali emotive che si aprono come squarci nella serata a casa Pollitt: la crisi tra Brick e Margie che si dipana parola dopo parola; parole sillabate, quasi centellinate dall’uomo, tra un cambio di calze e una sistemata ai capelli della moglie. E il vecchio Harvey, che è stato rassicurato, mentendo, sulle condizioni di salute, e che poi invece scopre la verità; e la povera Ida, umiliata e maltrattata dal marito, che trova però la forza di reggere l’urto del crollo generale in modo ottusamente solido forse meglio di chiunque altro, mentre Cooper e Mae si affannano ma vedono svanire via via tutti i loro sogni di grandezza. Certo, il castello narrativo è opera di Tennessee Williams; ma la messa sullo schermo di Richard Brooks, grazie anche alle interpretazioni dei suoi attori, Taylor e Newman in testa, è magistrale e ne enfatizza l’efficacia.
Pertanto, non è affatto vero che aver omesso l’omosessualità di Brick sia il limite del film di Brooks; semmai il contrario. Pur senza un dettaglio che, volendo, può anche essere inteso come pruriginoso, il film funziona lo stesso e funziona in modo sontuoso. Il tradimento dell’amicizia, la mancanza di amore, l’ipocrisia, sono temi generali che esulano dalle preferenze di genere, che sono elementi di un altro piano del discorso. Certo, La gatta sul tetto che scotta poteva essere un film che aiutasse a sdoganare il tabù dell’omosessualità, ma il codice Hayes, nel 1958, non lo permetteva. Brook spostò quindi l’attenzione su un piano superiore, quello dell’ipocrisia che, volendo, comprende anche il tema dell’omosessualità come stato personale che è buon gusto tenere nascosto. Riuscendo così, a trasformare un testo che verteva su un tema specifico in un’opera dai valori universali.
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