538_MUDHONEY ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.
Dopo il positivo risconto avuto da Lorna, che è effettivamente un film interessante, Russ Meyer venne
ingaggiato dalla Universal Pictures per
sostituire Douglas Sirk nella direzione di La
cugina Fanny. Si trattava di una produzione di prestigio, con star del
calibro di Miriam Hopkins, ma le cose non andarono per il verso giusto e Meyer
non poté lavorare al montaggio finale, tanto che finì per ripudiare il film.
Dopo questo esperimento fallimentare nella Hollywood di primo livello, il regista californiano tornò nel suo ambito, quello del sinema, e riprese il discorso aperto
con Lorna, con un film che si
inseriva in quello stesso solco. Mudhoney
presenta infatti molte analogie con Lorna,
sebbene sarà forse più significativo per essere un’ulteriore mezzo passo falso
di Meyer. Intendiamoci, non è che sia poi così clamorosamente peggiore di altri
film del regista, che non brillano certo per bellezza in senso canonico del
termine. Oltretutto al botteghino il film non andò poi malaccio: dopo una prima
uscita con il titolo di Rope of Flesh,
che non ebbe un’accoglienza positiva, il film fu rieditato. Venne cambiato il
manifesto, togliendo la scena del linciaggio che, secondo Meyer, lasciava
intendere che si trattasse di un horror, mentre vennero aggiunte alcune scene
piccanti per bilanciare in modo più equo la presenza di violenza e sesso.
Queste modifiche ottennero il risultato auspicato e, da un punto di vista
economico, Mudhoney ottenne un discreto
riscontro. Anche una parte della critica, quella certamente di vedute più
larghe, diede parere favorevole tanto che spesso il film è citato come tra i
migliori del regista.
Antoinette Christian
Eppure, in seguito, Meyer ammise di essersi un po’
montato la testa: “pensavo di essere
Erskine Caldwell, John Steinbeck e George Stevens in uno” alludendo al
tentativo di fare un film con una storia che potesse essere al livello degli autori
citati. E questo è forse il vero limite di Mudhoney,
che manca di dare una connotazione giocosa alla delirante vena folle quasi
surrealista che attraversa questo tipo di suoi lavori. Il confine è spesso
labile, sia chiaro, perché già le scene violente e malsane in Lorna erano di per sé piuttosto pesanti,
ma tutto sommato il quadro morale della storia reggeva collocando, all’interno
della storia, la violenza come assolutamente condannabile. In seguito, in altre
opere, a partire già da Motorpsycho!, Meyer allenterà in apparenza la briglia con
scene spesso gratuite di violenza o di sesso ma, a quel punto, la ricerca della
complicità con lo spettatore è facilmente intuibile e quindi, anche se
l’aspetto ludico può sembrare non propriamente esplicito, si tratta di un gioco
che avviene tra autore e fruitore dell’opera. Non a caso l’opera più famosa
della filmografia di Meyer è Faster,
Pussycat! Kill! Kill! che, con Tura Satana che malmena i maschi della
storia, è un evidente gioco di ribaltamento di ruoli in chiave sadomaso. In Mudhoney questo aspetto è un po’
carente: a fronte di alcuni passaggi assolutamente stranianti e deliranti, anche
se è un po’ difficile da ammettere, il film pecca forse di eccessiva seriosità. La vera poetica di Meyer si intuisce solamente, soprattutto nell’allegria genuina del personaggio migliore del
film, Eula (una magnifica Rena Horten di cui pare Meyer si fosse
comprensibilmente innamorato) la ragazza sorda e muta che, in quest’opera, è
l’unica ambasciatrice di quella gioiosa voglia di vivere che è uno degli
elementi più importanti del cinema del regista californiano.
Perché, si, quello
di Russ Meyer è un cinema provocatorio e dissacrante e bisogna innanzitutto
accettare l’implicita ammissione che la violenza, quanto il sesso, siano
affascinanti ed è per questo che vengono esplicitamente mostrati sullo schermo.
Ma questo non vuol dire che la violenza venga legittimata dal senso delle opere
di Meyer, anzi. Detto questo è pur sempre da tenere in considerazione
l’eventuale obiezione che il mostrare questi aspetti estremi possa esser fatto
per mera speculazione economica e non per un tentativo di prendere coscienza
con quella che si potrebbe definire la nostra metà oscura, abitualmente
sottoposta alla censura della morale se non addirittura della legge. La
sensibilità di ognuno, di fronte a certi argomenti, è certamente diversa, ma
questo ambito non può certo essere affrontato in una semplice analisi di un
film.
Comunque, a patto di accettare il cinema di Meyer, Mudhoney è un film interessante che riprende ed elabora
diversamente certi elementi già presenti in Lorna
ma forse non trova la giusta alchimia dal punto di vista del tono della storia.
Come in Lorna c’è una coppia in crisi
che esplode nel momento in cui sopraggiunge un ex detenuto; in questo caso il
marito non è però un personaggio in qualche modo positivo, come poteva essere
il Jim del film precedente, anzi. E’ Sidney Brenshaw, un disgraziato
alcolizzato e violento, a cui Hal Hopper presta un aspetto ben poco
rassicurante. Hopper era già nel cast di Lorna,
dove era Luther, un ruolo importante, soprattutto per la spiazzante confessione
finale che dimostrava che anche le peggiori canaglie hanno un’anima. In Mudhoney ha un posto più centrale, è il
marito che picchia la moglie Hanna (Antoinette Cristiani), la tradisce, mira ad
impossessarsi del ranch dello zio di lei, Lute (Staurt Lancaster) ma, non
contento, nel corso della storia peggiorerà, e di molto, la sua situazione.
Siamo negli anni della Grande Depressione
e del Proibizionismo e Sidney è
sempre ubriaco; quando si ritrova in casa (casa che è la fattoria di Lute, per
la precisione) il nuovo aiutante Calif (John Furlong) cerca subito di fare
capire all’ultimo arrivato chi comanda. Insomma, Sidney è una vera calamità,
per Annah e suo zio, e presto prenderà di mira anche Calif, intuendo che il
ragazzo ha fatto breccia nei cuori di Lute e sua moglie.
Con l’ausilio di fratello
Hanson (Frank Bolger), un lugubre predicatore, calunnia Calif incolpandolo,
presso lo sparuto paesino, di avere una tresca con sua moglie sotto il suo
stesso tetto coniugale. In realtà Annah resiste alla tentazione e anzi, nel
finale, si schiererà a difesa del marito, ritenendolo unicamente un povero
malato di mente, mentre è piuttosto Sidney a spassarsela abitualmente con le
figlie di Maggie Marie (una surreale Princess Livingston che sembra uscita dal
circo degli orrori), la citata Eula e la prosperosa Clara Belle (Lorna
Maitland, la mitica Lorna dell’omonimo film). La trama si snoda in un
susseguirsi di scene di violenza e sesso malsano, con un interessante innesto
di elementi realisti e altri talmente surreali da potersi definire astratti. E’
realistica l’ambientazione della Grande
Depressione, la povertà economica e morale della gente, mentre tra questa,
alcuni elementi appaiono eccessivamente resi in modo caricaturale: di Maggie
Marie si è detto, ma ci sono almeno altri due tizi che sono talmente imbruttiti
da sembrare minorati. Se consideriamo che tra gli individui che si possano
ritenere normali, tipo Calif, Lute e sorella Hanson (Lee Ballard), si annoverano
presenze come Sidney e a fratello Hanson, che sono ben più che borderline, si
capisce che la caratterizzazione dei personaggi della storia è decisamente
estrema. Anche perché, in un simile desolante contesto, spiccano, anche in
virtù delle attenzioni registiche, tre bionde platino mozzafiato (Annah, Eula e
Clara Belle). La musica, in genere una sorta di jazz ma che si fa
spudoratamente languida quando una delle bellezze bionde della vicenda è sullo
schermo, i dialoghi e la scarsa vena interpretativa degli attori, confeziona
una vicenda che tutto può dirsi tranne che credibile.
Sorprendentemente lo
sceriffo del paese, tentativo di figura morale vista la levatura del prete
della storia, nel momento cruciale invita Annah a fuggire con Calif, ma la
donna non se la sente di abbandonare il marito proprio ora che è accusato di
omicidio. Sidney ha infatti stuprato e ucciso, in preda al delirio etilico, la
povera sorella Hanson, rea di ricordargli la moglie. Così Annah, Calif e lo
sceriffo cercano di salvare Sidney dal linciaggio a cui i paesani, caldeggiati
da fratello Hanson, vogliono sottoporlo. Le scene drammatiche dell’impiccagione
sono montate in alternato, in uno stile tipico di Meyer, con le soavi immagini
di Eula che gioca con un gattino. La ragazza, sordo muta, attraversa tutto il
film senza venire minimamente intaccata dal marcio, o meglio, dal fango (in
riferimento al titolo) che imbratta ogni cosa e, nella sua innocenza, è spesso
peccaminosa (quando prova a sedurre Calif) esprimendo una contraddizione tipica
del cinema di Meyer. Ma l’aspetto più interessante è che la ragazza, che dopo
l’ora e mezza di film è chiaramente una persona pulita e sincera nella sua
inconsapevole estraneità a tutto ciò che la circonda, è attratta proprio da
Sidney, l’elemento peggiore della storia.
Anche questo è un tipico
cortocircuito alla Meyer, si potrebbe anche azzardare a dire che è un vero e
proprio Meyer’s touch. Quando Eula arriva,
nella malmessa main street, e vede Sidney
appeso per il collo, si precipita ai suoi piedi e trova la voce per un urlo
disperato. La citazione finale, “Il male
di un uomo può diventare la maledizione di tutti”, aforisma del drammaturgo
romano Publilio Sirio, se sancisce le ambizioni autoriali di Mudhoney può
anche essere naturalmente presa come chiave di lettura dell’opera. Nel fango
della Grande Depressione, simile ad
una sorta di magma primordiale della creazione (forse il mud-honey del titolo), c’erano già gli elementi che avrebbero dato
vita alla moderna società americana. Il male, cristallizzato in Sidney, non può
venir estirpato con la violenza (l’impiccagione) perché così facendo ricadrà
sull’intera comunità, contaminando perfino l’incarnazione stessa dell’innocenza,
Eula che, a dimostrazione di ciò, acquista si la voce, ma per un grido di disperazione.
Riuscito o meno, vero exploitation
d’essai.
Antoinette Christian
Rena Horten
Lorna Maitland
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