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giovedì 19 marzo 2020

MUDHONEY

538_MUDHONEY ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.

Dopo il positivo risconto avuto da Lorna, che è effettivamente un film interessante, Russ Meyer venne ingaggiato dalla Universal Pictures per sostituire Douglas Sirk nella direzione di La cugina Fanny. Si trattava di una produzione di prestigio, con star del calibro di Miriam Hopkins, ma le cose non andarono per il verso giusto e Meyer non poté lavorare al montaggio finale, tanto che finì per ripudiare il film. Dopo questo esperimento fallimentare nella Hollywood di primo livello, il regista californiano tornò nel suo ambito, quello del sinema, e riprese il discorso aperto con Lorna, con un film che si inseriva in quello stesso solco. Mudhoney presenta infatti molte analogie con Lorna, sebbene sarà forse più significativo per essere un’ulteriore mezzo passo falso di Meyer. Intendiamoci, non è che sia poi così clamorosamente peggiore di altri film del regista, che non brillano certo per bellezza in senso canonico del termine. Oltretutto al botteghino il film non andò poi malaccio: dopo una prima uscita con il titolo di Rope of Flesh, che non ebbe un’accoglienza positiva, il film fu rieditato. Venne cambiato il manifesto, togliendo la scena del linciaggio che, secondo Meyer, lasciava intendere che si trattasse di un horror, mentre vennero aggiunte alcune scene piccanti per bilanciare in modo più equo la presenza di violenza e sesso. Queste modifiche ottennero il risultato auspicato e, da un punto di vista economico, Mudhoney ottenne un discreto riscontro. Anche una parte della critica, quella certamente di vedute più larghe, diede parere favorevole tanto che spesso il film è citato come tra i migliori del regista. 




Eppure, in seguito, Meyer ammise di essersi un po’ montato la testa: “pensavo di essere Erskine Caldwell, John Steinbeck e George Stevens in uno” alludendo al tentativo di fare un film con una storia che potesse essere al livello degli autori citati. E questo è forse il vero limite di Mudhoney, che manca di dare una connotazione giocosa alla delirante vena folle quasi surrealista che attraversa questo tipo di suoi lavori. Il confine è spesso labile, sia chiaro, perché già le scene violente e malsane in Lorna erano di per sé piuttosto pesanti, ma tutto sommato il quadro morale della storia reggeva collocando, all’interno della storia, la violenza come assolutamente condannabile. In seguito, in altre opere, a partire già da Motorpsycho!,  Meyer allenterà in apparenza la briglia con scene spesso gratuite di violenza o di sesso ma, a quel punto, la ricerca della complicità con lo spettatore è facilmente intuibile e quindi, anche se l’aspetto ludico può sembrare non propriamente esplicito, si tratta di un gioco che avviene tra autore e fruitore dell’opera. Non a caso l’opera più famosa della filmografia di Meyer è Faster, Pussycat! Kill! Kill! che, con Tura Satana che malmena i maschi della storia, è un evidente gioco di ribaltamento di ruoli in chiave sadomaso. In Mudhoney questo aspetto è un po’ carente: a fronte di alcuni passaggi assolutamente stranianti e deliranti, anche se è un po’ difficile da ammettere, il film pecca forse di eccessiva seriosità. La vera poetica di Meyer si intuisce solamente, soprattutto nell’allegria genuina del personaggio migliore del film, Eula (una magnifica Rena Horten di cui pare Meyer si fosse comprensibilmente innamorato) la ragazza sorda e muta che, in quest’opera, è l’unica ambasciatrice di quella gioiosa voglia di vivere che è uno degli elementi più importanti del cinema del regista californiano. 




Perché, si, quello di Russ Meyer è un cinema provocatorio e dissacrante e bisogna innanzitutto accettare l’implicita ammissione che la violenza, quanto il sesso, siano affascinanti ed è per questo che vengono esplicitamente mostrati sullo schermo. Ma questo non vuol dire che la violenza venga legittimata dal senso delle opere di Meyer, anzi. Detto questo è pur sempre da tenere in considerazione l’eventuale obiezione che il mostrare questi aspetti estremi possa esser fatto per mera speculazione economica e non per un tentativo di prendere coscienza con quella che si potrebbe definire la nostra metà oscura, abitualmente sottoposta alla censura della morale se non addirittura della legge. La sensibilità di ognuno, di fronte a certi argomenti, è certamente diversa, ma questo ambito non può certo essere affrontato in una semplice analisi di un film. 

Comunque, a patto di accettare il cinema di Meyer, Mudhoney è un film interessante che riprende ed elabora diversamente certi elementi già presenti in Lorna ma forse non trova la giusta alchimia dal punto di vista del tono della storia. Come in Lorna c’è una coppia in crisi che esplode nel momento in cui sopraggiunge un ex detenuto; in questo caso il marito non è però un personaggio in qualche modo positivo, come poteva essere il Jim del film precedente, anzi. E’ Sidney Brenshaw, un disgraziato alcolizzato e violento, a cui Hal Hopper presta un aspetto ben poco rassicurante. Hopper era già nel cast di Lorna, dove era Luther, un ruolo importante, soprattutto per la spiazzante confessione finale che dimostrava che anche le peggiori canaglie hanno un’anima. In Mudhoney ha un posto più centrale, è il marito che picchia la moglie Hanna (Antoinette Cristiani), la tradisce, mira ad impossessarsi del ranch dello zio di lei, Lute (Staurt Lancaster) ma, non contento, nel corso della storia peggiorerà, e di molto, la sua situazione. Siamo negli anni della Grande Depressione e del Proibizionismo e Sidney è sempre ubriaco; quando si ritrova in casa (casa che è la fattoria di Lute, per la precisione) il nuovo aiutante Calif (John Furlong) cerca subito di fare capire all’ultimo arrivato chi comanda. Insomma, Sidney è una vera calamità, per Annah e suo zio, e presto prenderà di mira anche Calif, intuendo che il ragazzo ha fatto breccia nei cuori di Lute e sua moglie. 


Con l’ausilio di fratello Hanson (Frank Bolger), un lugubre predicatore, calunnia Calif incolpandolo, presso lo sparuto paesino, di avere una tresca con sua moglie sotto il suo stesso tetto coniugale. In realtà Annah resiste alla tentazione e anzi, nel finale, si schiererà a difesa del marito, ritenendolo unicamente un povero malato di mente, mentre è piuttosto Sidney a spassarsela abitualmente con le figlie di Maggie Marie (una surreale Princess Livingston che sembra uscita dal circo degli orrori), la citata Eula e la prosperosa Clara Belle (Lorna Maitland, la mitica Lorna dell’omonimo film). La trama si snoda in un susseguirsi di scene di violenza e sesso malsano, con un interessante innesto di elementi realisti e altri talmente surreali da potersi definire astratti. E’ realistica l’ambientazione della Grande Depressione, la povertà economica e morale della gente, mentre tra questa, alcuni elementi appaiono eccessivamente resi in modo caricaturale: di Maggie Marie si è detto, ma ci sono almeno altri due tizi che sono talmente imbruttiti da sembrare minorati. Se consideriamo che tra gli individui che si possano ritenere normali, tipo Calif, Lute e sorella Hanson (Lee Ballard), si annoverano presenze come Sidney e a fratello Hanson, che sono ben più che borderline, si capisce che la caratterizzazione dei personaggi della storia è decisamente estrema. Anche perché, in un simile desolante contesto, spiccano, anche in virtù delle attenzioni registiche, tre bionde platino mozzafiato (Annah, Eula e Clara Belle). La musica, in genere una sorta di jazz ma che si fa spudoratamente languida quando una delle bellezze bionde della vicenda è sullo schermo, i dialoghi e la scarsa vena interpretativa degli attori, confeziona una vicenda che tutto può dirsi tranne che credibile. 

Sorprendentemente lo sceriffo del paese, tentativo di figura morale vista la levatura del prete della storia, nel momento cruciale invita Annah a fuggire con Calif, ma la donna non se la sente di abbandonare il marito proprio ora che è accusato di omicidio. Sidney ha infatti stuprato e ucciso, in preda al delirio etilico, la povera sorella Hanson, rea di ricordargli la moglie. Così Annah, Calif e lo sceriffo cercano di salvare Sidney dal linciaggio a cui i paesani, caldeggiati da fratello Hanson, vogliono sottoporlo. Le scene drammatiche dell’impiccagione sono montate in alternato, in uno stile tipico di Meyer, con le soavi immagini di Eula che gioca con un gattino. La ragazza, sordo muta, attraversa tutto il film senza venire minimamente intaccata dal marcio, o meglio, dal fango (in riferimento al titolo) che imbratta ogni cosa e, nella sua innocenza, è spesso peccaminosa (quando prova a sedurre Calif) esprimendo una contraddizione tipica del cinema di Meyer. Ma l’aspetto più interessante è che la ragazza, che dopo l’ora e mezza di film è chiaramente una persona pulita e sincera nella sua inconsapevole estraneità a tutto ciò che la circonda, è attratta proprio da Sidney, l’elemento peggiore della storia. 

Anche questo è un tipico cortocircuito alla Meyer, si potrebbe anche azzardare a dire che è un vero e proprio Meyer’s touch. Quando Eula arriva, nella malmessa main street, e vede Sidney appeso per il collo, si precipita ai suoi piedi e trova la voce per un urlo disperato. La citazione finale, “Il male di un uomo può diventare la maledizione di tutti”, aforisma del drammaturgo romano Publilio Sirio, se sancisce le ambizioni autoriali di Mudhoney può anche essere naturalmente presa come chiave di lettura dell’opera. Nel fango della Grande Depressione, simile ad una sorta di magma primordiale della creazione (forse il mud-honey del titolo), c’erano già gli elementi che avrebbero dato vita alla moderna società americana. Il male, cristallizzato in Sidney, non può venir estirpato con la violenza (l’impiccagione) perché così facendo ricadrà sull’intera comunità, contaminando perfino l’incarnazione stessa dell’innocenza, Eula che, a dimostrazione di ciò, acquista si la voce, ma per un grido di disperazione.
Riuscito o meno, vero exploitation d’essai.       



Antoinette Christian


Rena Horten


  





        
Lorna Maitland


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