533_LA PAROLA AI GIURATI (12 angry men); Stati Uniti, 1957. Regia di Sidney Lumet.
Folgorante esordio alla regia cinematografica di Sideny
Lumet, La parola ai giurati è un
avvincente film drammatico in pratica girato interamente all’interno dell’aula
dove si riunisce una giuria popolare. Già da questa scelta operata da Lumet, si
capisce la saggezza e l’acume dell’autore nato a Filadelfia: il regista è
infatti all’esordio sul grande schermo e il numero il relativamente basso di
interpreti e l’unità di spazio filmico gli permettono di tenere più agevolmente
il controllo della situazione. Al contempo, Lumet, può approfondire le
caratteristiche dei vari personaggi a turno, man mano che questi prendono
parola, approfittandone per scandire il tempo del racconto, che ne esce infatti
serratissimo. Innanzitutto si nota un contrasto figurativo: il film si era
aperto sulle maestose e geometriche architetture del tribunale, a mettere in
risalto il successivo sviluppo filmico compresso nell’aula dove si ritirano i
giurati. Una situazione così statica, i dodici uomini chiusi nella stanza,
permette al regista di lavorare con libertà sulle tecniche di ripresa, passando
dai grandangoli che inquadrano la stanza e permettono di ambientarci, a riprese
sempre più ravvicinate, con i personaggi prima filmati prevalentemente
dall’alto, in modo panoramico e poi, al contrario, dal basso, in modo da
risultare via via sempre più incombenti sullo schermo. La sensazione che se ne
ricava è claustrofobica: impressione accresciuta dal caldo asfissiante di cui
soffrono i personaggi nella prima parte e dall’opprimente pioggia nella
seconda.
Questa sensazione che non sembra lasciare via di scampo amplifica ma
in un certo senso manifesta quello che dovrebbe essere l’atteggiamento
responsabile di un giurato: la decisione che è chiamato a prendere è, infatti,
di grande importanza e, di conseguenza, dovrebbe essere vista come una
responsabilità e quindi, in senso figurato, come un peso, faticoso da sopportare
al punto da essere quasi opprimente. Al contrario, l’atteggiamento di quasi
tutti i componenti della giuria all’inizio del film è molto leggero, per non dire superficiale. Il
verdetto sembra scontato, nel processo l’imputato è apparso colpevole in modo
apparentemente chiaro e, per undici dei dodici membri della giuria, non
sembrano esserci dubbi in proposito.
L’unico a porsi in modo un minimo
responsabile è il giurato n.8 (Henry Fonda), ma la sua azione, all’inizio,
sembra davvero disperata; invece, dapprima spaccia il suo legittimo dubbio per
semplice scrupolo (si può condannare a morte un uomo senza nemmeno
discuterne?), ma in seguito dimostra come avesse già per tempo premeditato la
sua strategia innocentista (si era preventivamente procurato un coltello uguale
all’arma del delitto, che era una delle prove schiaccianti a carico
dell’imputato proprio per la sua presunta unicità). La presenza di Henry Fonda
(qui anche nelle insolite vesti di produttore), interprete famoso per i suoi
ruoli di ferrea moralità, è un forte indizio sulla matrice liberal dell’opera, persino in anticipo sui tempi. E’ quindi
abbastanza prevedibile che, nonostante l’impresa sembri ardua, il giurato
interpretato da Fonda riuscirà a dar credito al ragionevole dubbio presente nell’accusa all’imputato, meno
granitica di quanto potesse sembrare ad un esame superficiale. Da questo punto
di vista, possiamo anche interpretare La
parola ai giurati come un prodotto figlio del tempo, anzi un precursore di
quei moti di rivendicazione dei diritti sociali che investirono in modo
generico tutta la società negli anni sessanta, culminando nella rivoluzione
sessantottina.
Ma c’è un aspetto che può essere interessante ancora oggi, ed è
il modo in cui opera il giurato n.8 per suffragare la tesi di innocenza: egli,
infatti, non manifesta una teoria innocentista vera e propria, ma confuta man
mano le varie accuse a carico dell’imputato, demolendo una ad una, tutte le
posizioni degli undici giurati inizialmente convinti colpevolisti. E’
naturalmente un comportamento naturale in un ambito giudiziario dove, vigendo
la presunzione d’innocenza, è compito dell’accusa dimostrare la colpevolezza
dell’imputato; la difesa può giocarsela semplicemente smontando le singole
accuse, senza avanzare tesi. Ma, se prendiamo La parola ai giurati come manifesto liberal, possiamo quindi dedurre che il movimento per i diritti
civili fosse più che altro uno strumento di critica alle istituzioni, e non un
modello sostitutivo delle stesse. In questo senso l’importanza del film può
essere oggi ancora più clamorosa: se ne deduce che il movimento politico
rivoluzionario è certamente funzionale come critica alle ingiustizie presenti
nella società, ma non necessariamente adeguato a ricavarne un modello per aggiornare
le coordinate delle nuove istituzioni.
Come invece è sostanzialmente accaduto.
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