531_LA TRAGEDIA DEL RIO GRANDE (Man in the Shadow); Stati Uniti, 1957. Regia di Jack Arnold.
Jack Arnold è (giustamente) considerato uno dei
migliori registi di B-movie; la qualità dei suoi film, nonostante questi
rispettassero appunto i canoni del cinema di serie B, era però degna di un autentico maestro
della settima arte in senso assoluto. Il che non deve sembrare una
contraddizione: il punto è che Arnold, che doveva arrangiarsi con poco, fece
divenire la capacità di sintesi la sua cifra stilistica. Prendiamo l’incipit di
La tragedia del Rio Grande, folgorante
dramma del 1957: c’è una grande ed elegante residenza inquadrata da un punto
panoramico, davanti alla quale due uomini si incontrano e discutono un po’,
sono abbastanza lontani. La musica non lascia intendere niente di buono; gli
uomini si incamminano verso la macchina da presa, che deve abbassarsi
leggermente per continuare a riprenderli. Ecco una recinzione, con un cancello
chiuso; sembra quasi quella di un carcere. Gli uomini aprono il cancello,
stacco; ora la ripresa è dietro di loro che proseguono verso un anonimo caseggiato
e vi entrano. Una volta dentro rimangono fermi, in piedi; ci sono molti altri uomini,
qualcuno canta, c’è allegria. Pochi secondi, il vociare cessa, poi smettono
anche di cantare. Tre punti di ripresa, e già la situazione è critica; e
destinata, nei successivi minuti, sensibilmente a peggiorare. Non ha tempo da
sprecare, Arnold; la storia che deve raccontare è pesante, e non c’è da
perdersi in chiacchere. In effetti in quello straordinario inizio con tre soli angoli
di ripresa e un lieve movimento di macchina, non c’è alcun dialogo. Una volta
che il povero Juan Martin (Joe Schneider), un bracciante clandestino messicano,
è stato ammazzato di botte, il film può cominciare. Arnold si ferma al
pestaggio e non ci mostra l’omicidio, ma lo apprendiamo dalle parole dell’amico
di Martin, il vecchio Aiken (Royal Dane) quando questi denuncia l’accaduto allo
sceriffo Ben Sadler (Jeff Chandler).
Manca ancora qualche dettaglio per
comprendere quale sarà la natura della storia: Martin lavorava all’Impero dell’Oro, una immensa tenuta.“In
Europa ci sono cinque stati più piccoli”, per usare le parole del padrone,
Virgil Renchler (Orson Welles). Renchler è il classico despota che si è
costruito la fortuna con le proprie mani e ora pensa di essere un padreterno.
Welles è naturalmente bravo, e la parte è perfettamente nelle sue corde; oltre
a ciò è anche l’unico attore di spessore del film, ma sarebbe un errore pensare
che la sua presenza sia il motivo d’interesse della pellicola. In realtà il
buon Orson si guadagna la pagnotta con professionalità e poco altro; e,
volendo, anche questa interpretazione un po’ in sottrazione (per quanto gli sia possibile) dell’istrionico
attore coopera in modo coerente alla valenza del film di Arnold.
Tornando alla
storia, Renchler aveva ordinato ai suoi tirapiedi di dare una raddrizzata a Martin, visto che questi
si prendeva il lusso di ronzare intorno a Skippy (Colleen Miller), la sua
giovane figlia. Gli scagnozzi di Renchler esagerano, anche perché uno di loro,
Ed Yates (John Larch) aveva già messo per primo gli occhi sulla ragazza; chissà
che la gelosia non abbia influito, in ogni caso i due uomini si lasciano
prendere la mano e ci scappa il morto. Ma
si tratta soltanto di un bracciante messicano, clandestino, irregolare: sarà
questa, grosso modo, la frase che tutti quanti, nella cittadina, ripeteranno
allo sceriffo Sadler, che comincia ad intuire che qualcosa di grosso è
successo, all’Impero dell’Oro. Non c’è grande sviluppo, nella storia de La tragedia del Rio Grande; del resto c’è
chi disse che Albert Zugsmith, il produttore, per economizzare non abbia
permesso di mostrare nemmeno una mucca, pur ambientando il film praticamente in
un enorme ranch.
Ma ad Arnold non interessano le mucche, e nemmeno gli sviluppi
della storia, gli eventuali effetti collaterali, o le attenuanti
circostanziali: la situazione è chiara. C’è stato un omicidio, il morto è un
clandestino; il colpevole un uomo del boss locale. Che si fa? La minaccia di
Renchler è presto dichiarata: se lo sceriffo si ostina ad indagare, l’Impero dell’Oro per i suoi acquisti si rivolgerà in un’altra città, e per
la piccola comunità sarà la fine. Quanto vale, quindi, la vita di Juan Martin,
bracciante clandestino messicano? Per quasi l’intera città, certo non vale il
livello di benessere, alto o basso che sia, che la comunità ha raggiunto. Per lo sceriffo, e per il simpatico barbiere Tony Santoro (Mario Siletti), che si ricorda di essere stato un immigrato a sua volta, vale quella di chiunque altro: la Legge è uguale per tutti. Ma non sarà così. Pur nell’apparente lieto fine, Arnold mostra con implacabile lucidità i rischi in cui l’ideologia del quieto vivere ci conduce. Che poi è un modo gentile per definire l’opportunismo borghese, uno dei cardini della società capitalistica occidentale.
Tutto il paese, rappresentanti delle
autorità in testa, cerca di far desistere lo sceriffo Sadler dalle sue
indagini; persino Helen (Barbara Lawrence) sua moglie, cerca di farlo ragionare. Ma lo sceriffo non molla e,
nonostante tutto, Renchler e i suoi sgherri cominciano ad innervosirsi: c’è
comunque in ballo un omicidio, non è che ci si può scherzare sopra troppo. L’analisi
di Arnold è particolarmente acuta: le regole, le leggi della nostra società
sono funzionali; è nelle relazioni, negli interessi personali e quindi
economici, che il sistema va in crisi. Visto che Sadler non si ferma con le
buone, allora gli scagnozzi dell’Impero
dell’Oro provano con le maniere forti: una bella ripassata rimetterà a posto lo sceriffo.
Ma Sadler è un osso duro;
pestato a sangue, minacciato dai maggiorenti della città di venire deposto,
l’uomo si toglie la stella e si reca per lo scontro finale all’Impero dell’Oro. Sadler è davvero
malconcio: se dovesse riuscirne vittorioso, sarebbe una soluzione narrativa
eccessivamente infantile anche in un film di serie B. A dir la verità, anche
solo il fatto di recarsi in quelle condizioni al confronto finale, fa storcere
un po’ la bocca. Ma ad Arnold non interessa celebrare l’eroe che da solo affronta
e sconfigge tutti i nemici pur se moribondo; l’accento qui è sul fatto che
Sadler si leva la stella di sceriffo, come a dire che l’unico modo per provare
a far rispettare la giustizia è al di fuori della legge degli uomini. Un’accusa
pesantissima verso le istituzioni americane troppo intrise di opportunismo
spacciato per buon senso.
La conferma di ciò è che Sadler viene messo
velocemente a mal partito, addirittura dal cane di Renchler, che non deve
impegnare neppure uno dei suoi uomini. Non è un eroe di serie A, Sadler, e nemmeno
da cinema di serie B; è solo un uomo che vuole fare il proprio dovere.
Ovviamente, un B-movie prevede un lieto fine e, infatti, ecco l’arrivo dei nostri, ovvero gli abitanti della
cittadina capeggiati proprio da quei personaggi illustri che, fino a poco
prima, avevano osteggiato il loro sceriffo. Renchler e i suoi vengono arrestati
e la stella viene restituita a Sadler; tutto è bene quel che finisce bene,
quindi.
Però; e già, c’è un però. Arnold non è un autore banale:
l’accusa rimane intatta. I personaggi benpensanti si sono mossi solo quando il
padrone locale stava accoppando un cittadino rispettabile, un contribuente,
addirittura uno sceriffo.
Perché, se fosse stato per il povero Martin, sarebbero
rimasti nei loro salotti.
Colleen Miller
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